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La tecnogenesi e il framework ipervigile (N Katherine Hayles)

L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche

4.1 Prima sezione Breve introduzione alla sociologia dell’esperienza mediale

4.1.3 L’esperienza mediale

4.1.3.2 La tecnogenesi e il framework ipervigile (N Katherine Hayles)

La teoria dell’esperienza mediale formulata da Eugeni rappresenta il tentativo più rigoroso e sistematico di analisi transdisciplinare di come i soggetti esperiscano con/attraverso/dentro i media. Tuttavia, altri contributi teorici si focalizzano più dettagliatamente su ulteriori dimensioni dell’esperienza mediale, come quella tecnologica o quella sociale.

Per quanto riguarda la dimensione tecnologica dell’esperienza mediale, uno dei contributi più rilevanti arriva dal volume How We Think: Digital Media and Contemporary

Technogenesis (2012) di N. Katherine Hayles. La teorica dei media parte dalla

constatazione che noi oggi pensiamo “through, with, and alongside media” (Hayles 2012: 1). Il suo obiettivo è indagare principalmente le trasformazioni, le resistenze e le potenzialità innescati dalle connessioni sempre più potenti tra umani e tecnologie, in particolare nel campo delle scienze sociali e delle humanities. Per illustrare la

pluridimensionalità delle connessioni uomo-tecnologia (teoretiche, culturali, pedagogiche, fisiologiche), Hayles elabora, mutuandolo dall’evoluzionismo, il concetto di tecnogenesi (technogenesis), vale a dire quel processo per cui un cambiamento genetico conduce a un cambiamento dell’ambiente (o della tecnologia), che, a sua volta, accelera un nuovo cambiamento genetico (Hayles 2012: 10-11). Per Hayles, che lo ammettiamo oppure no, siamo sempre già parte della tecnologia, almeno quanto essa lo è di noi, poiché la tecnologia è inestricabile dai processi evolutivi della specie umana. Per rafforzare questa tesi, la teorica statunitense avanza una serie di esempi, dai codici del telegrafo, alle mappe interattiva, alla letteratura multimodale.

Come spiega Hayles (2012: 81), “contemporary technogenesis is about adaptation, the fit between organisms and their environments, recognizing that both sides of the engagement (humans and technologies) are undergoing coordinated transformations”. Hayles, quindi, sviluppa compiutamente l’idea che umani e tecnologie coevolvono. Il legame coevolutivo tra umano e tecnologico consente alla studiosa di discutere i cambiamenti nello sviluppo delle tecniche in una varietà di casi empirici (“telegraph code books”, sorta di manuali per la compressione dell’informazione utilizzati per oltre un secolo (1850-1950) dagli utenti per risparmiare sull’invio di telegrammi; letteratura moltimodale; tecnologia delle mappe). In questa prospettiva, le digital humanities26 rappresentano un campo d’osservazione

particolarmente interessante, perché esse sono contemporaneamente collegate e separate agli studi umanistici tradizionali e, in virtù di queste differenze, lavorano per ripensare e rielaborare gli assunti consolidati. In particolare, le digital humanities si focalizzano molto di più sulle forme culturali del database e sulla collaborazione, espandendo così la portata della ricerca, lo scopo dei progetti e l’inclusione dei contributori. Questo quadro genera una serie di ulteriori cambiamenti che riguardano il contesto, l’archivio, l’accesso e la disseminazione del sapere che i ricercatori digitali producono e sintetizzano. Come vedremo nel cap. 5, si tratta di cambiamenti significativi che riguardano da vicino i Film Studies e la critica cinematografica e, quindi, più in generale, la riflessione sulla spettatorialità elaborata in questi settori disciplinari. Hayles intravede nelle digital

humanities una leva del cambiamento che può coinvolgere le discipline umanistiche nel

loro complesso. La differenza tra humanities e digital humanities viene esemplificata analizzando i diversi modi di pensare associati a tre stili di lettura. Il primo, definito “close reading”, si basa sull’attenzione e sulla focalizzazione continue ed è lo stile di lettura

26 Su assunti, teorie e pratiche nelle digital humanities si rimanda, tra gli altri, a Schapp, Presner 2009,

privilegiato dagli studi umanistici tradizionali. Al contrario, i lettori contemporanei sono più avvezzi ad una “hyper reading”, uno stile che consente di navigare con una facilità sorprendente tra più flussi di contenuti (pagine web, social media, contenuti audiovisivi). Il “machine reading” permette l’isolamento e l’identificazione di motivi che passerebbero altrimenti inosservati nei contesti di hyper e close reading. La teorica dei media invita a considerare accuratamente queste tecniche di lettura, poiché ognuna di esse esibisce punti di forza e di debolezza e l’utente ha il compito gravoso di farne il miglior uso in funzione del contesto. Ai fini della nostra indagine sulla spettatorialità postcinematografica, tra i modelli di lettura teorizzati da Hayles quello che più è vicino all’esperienza mediale è sicuramente l’hyper reading che individua esattamente la condizione dello spettatore postcinematografico, manipolatore (e preda) di molteplici flussi di dati simultanei. Più in dettaglio, l’hyper reading è una delle pratiche con cui si misurano le aggiornate capacità percettive con cui gli esseri umani hanno rielaborato e assorbito le tecnologie della comunicazione nell’epoca postmediale. Il processo di adattamento al nuovo ambiente tecnologico fa sì che gli uomini sviluppino due stili cognitivi: l’hyper attention e la deep

attention.

Il primo, che è messo in pratica nel caso dell’hyper reading, comporta un framework ipervigile, che riconfigura gli assetti sensoriali, percettivi e cognitivi. In primo luogo, il framework ipervigile si segnala per la gestione dell’attenzione, che transita tra diversi incarichi ad un ritmo assai elevato. Linda Stone (2006) ha definito questo fenomeno Continuous Partial Attention (CPA), sottolineando la differenza con il multi-tasking: “When we multi-task, we are motivated by a desire to be more productive and more efficient. To pay continuous partial attention is to pay partial attention – continuously”. Co-evolvendo con le tecnologie mediali, inoltre, gli esseri umani optano preferibilmente per flussi multipli e simultanei di informazione, in quanto questi sono capaci di garantire un elevato livello di stimolazione, combattendo quella noia verso cui si mostrano sempre più insofferenti. Tale preferenza ha una spiegazione di carattere tecnoantropologico. Gli esseri umani – e in particolare le generazioni più giovani - trovano infatti che l’iperattenzione sia più adattiva all’ambiente fisico (sociale e culturale) saturato dalla mediazione tecnologica, rispetto alla deep attention, ovvero alla concentrazione prolungata su un’unica attività (mediata o meno dalla tecnologia) ignorando lo sfondo degli altri flussi informativi. La studiosa analizza rischi e difetti dei due stili cognitivi. La deep attention risulta fondamentale allorché siamo impegnati in compiti complessi, ma potrebbe

determinare una perdita di vigilanza sull’informazione che circola sullo sfondo dell’attività principale e una mancanza di flessibilità nel reagire ai cambiamenti dell’ambiente tecnologico. Viceversa, l’hyper attention che garantisce, come detto, una forte presa sulle correnti multiple e simultanee di dati culturali, è poco performante quando siamo alle prese con attività particolarmente complicate che richiedono una grande quantità di risorse attenzionali. Ragionando in termini evolutivi, la Hayles (2012) ricorda inoltre che la deep attention è una conquista relativamente recente dell’umanità, in quanto stile cognitivo adottato dall’essere umano solo da quando può abitare spazi sicuri. Sebbene la deep attention (come la close reading) sia privilegiata in tutti i sistemi educativi, nelle società contemporanee sembra esserci, per le ragioni appena viste, una generale preferenza per l’hyper attention. L’iperattenzione è d’altronde lo stile cognitivo messo in atto anche dagli spettatori cinematografici nell’era postmediale; l’esperienza filmica, infatti, non è più vissuta immersivamente, ma si accompagna a contemporanee esperienze mediali. La diffusione di questo stile cognitivo nella spettatorialità postcinematografica è tale che anche produttori, creativi e media companies hanno dovuto riprogettare la loro attività per allestire nuove strategie di engagement per gli spettatori ipervigili, come vedremo tra qualche pagina (cfr. par. 4.2.1).

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