La spettatorialità digitale dagli Audience Studies alla sociologia del cinema
3.8 Gli Audience Studies e la teoria sociologica della spettatorialità
3.8.1 Spettatorialità cinematografica e postcinematografica, esperienza filmica ed
esperienza mediale
Siamo dunque in presenza della riformulazione di due paradigmi. La spettatorialità cinematografica, già fortemente sottoposta a revisione con l’avvento della televisione e, poi, dell’home video, diviene spettatorialità postcinematografica, per effetto della
digitalizzazione completa del ciclo di produzione, distribuzione e consumo dei film. Riprendendo il concetto di “mediashock” (Grusin 2015) utilizzato nel primo capitolo, possiamo affermare che la qualità della spettatorialità cinematografica sperimenta con i media digitali una nuova dimensione: se infatti la visione filmica mediata da televisione e vhs poteva dirsi un surrogato della visione in sala (possiamo parlare di “mediashock” di media portata, facilmente assorbiti tramite piccoli aggiustamenti della forma culturale del medium cinematografico), con i supporti digitali si offre allo spettatore una varietà di supporti e dispositivi in grado di soddisfare la più vasta gamma di aspettative ed esigenze. Dal dvd allo streaming, dal download al Blu-Ray, passando per il video-on-demand, i sistemi di registrazione in remoto ed in HD (es. MySky), lo spettatore, purché dotato delle capacità e competenze necessarie alla manipolazione dei dispositivi, può regolare con ampia libertà la propria esperienza. Ed è proprio il concetto di esperienza, come già precedentemente sottolineato, l’elemento teorico decisivo ad identificare le nuove dimensioni socioculturali della spettatorialità postcinematografica: essa, infatti, si distingue perché l’esperienza filmica si inserisce in una più vasta esperienza mediale. Lo spettatore postcinematografico è, cioè, parte dei pubblici iperconnessi, diffusi, estesi, creativi che spaziano – senza soluzione di continuità – attraverso i molteplici spazi simbolici, sociali e culturali del mediascape attuale.
Se applichiamo la nozione di forma culturale, nell’accezione da noi richiamata (Chaney 1990, 1994, 1996), al medium cinematografico nell’era digitale, possiamo provare a testare nuovamente l’idea che il cinema operi nella contemporaneità restando fedele alla sua propensione genetica alla rottura degli assetti percettivi e simbolici tradizionali? A nostro avviso, occorre, anche qui, introdurre un chiarimento teorico con cui proveremo a bypassare le secche del dibattito sulla fine del cinema (Jovanovic 2013, Gaudreault, Marion 2015). La distinzione che proviamo a introdurre è tra “filmico” e “cinematico”. Con il termine “filmico” ci riferiamo a quegli artefatti culturali caratterizzati da alcune proprietà estetiche, culturali e mediologiche affini a quelle esibite dagli altri artefatti culturali esperiti come film fin dalla nascita del cinema: si tratta di quel complesso di fattori (narrazione, adozione di pratiche e tecniche espressive, formati, ecc.), periodicamente soggetti a revisione, per cui, ad esempio, gli spettatori esperiscono come “film” Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone e Taxidermia (2006) di György Pálfi, ma non un video amatoriale postato online. Non si tratta di ipostatizzare questa nozione in una classe di prodotti o di contenuti, poiché il “filmico” è una qualità attribuita ai prodotti
audiovisivi essenzialmente dagli spettatori (è il motivo per cui, come vedremo, essi, per esempio, riconoscono queste proprietà in una parte della fiction seriale televisiva di ultima generazione). Dal filmico va distinto il “cinematico”, che identifica quell’ampio insieme di oggetti (ed eventi!) culturali costruiti su immagini dinamiche, che include video e fanvideo online, videomapping, visual, videoinstallazioni, videoclip, cinegiornali, provini,
home movies, found footage, educational movie, registrazioni televisive, video realizzati
con smartphone e tablet e, ancora, tutto ciò che possiamo, con Corrigan e White (2004: 380), definire “orphan films”, ovvero “ephemeral or noncommercial films that, despite their lack of traditional cultural value, have survived or been rescued”. La distinzione tra “filmico” e “cinematico” non è ontologica. Abbiamo visto, infatti, come la digitalizzazione del cinema abbia prodotto un ripensamento dell’ontologia stessa delle immagini in movimento nell’ambito dell’estetica analitica: a questo proposito, sia le teorie di Carroll (1996) che quelle di Ponech (2006, 2007), possono essere applicate tanto al “filmico” quanto al “cinematico”. D’altro canto, in virtù dei paradigmi della convergenza, della rimediazione e della postmedialità, contenuti afferenti al filmico (es. sequenze di alcuni film) possono essere rimediati nel cinematico (es. in un’installazione di videoarte: cfr. Daniele Puppi, Cinema rianimato n.3 (digitalife), 2012) o viceversa (es. film che usano girato in Super8 o found footage). Ancora, questa distinzione può essere concepita come una costante della storia del cinema e dei media audiovisivi, precedendo l’avvento dei media digitali. Tuttavia, tale distinzione concettuale è fondamentale oggi, perché chiarisce i termini e le posizioni del dibattito sulla fine del cinema. Da un lato c’è chi pensa che è la specifica forma culturale del cinema incarnata nel dispositivo filmico ad essere pronta alla dissoluzione in nuovi oggetti mediali più rispondenti alle esigenze delle nuove audience – vale dire pronta, per sopravvivere, a rimediarsi nel cinematico. Come abbiamo visto nei paragrafi antecedenti, le tecnologie contemporanee e gli ambienti del social web rendono possibile e appetibile la produzione di artefatti culturali in cui le immagini in movimento degli archivi filmici tradizionali sono sottoposti a una feroce opera di riscrittura secondo registri retorici molto vari (dall’iconoclastia alla venerazione mitologizzante). È ormai pratica comune, specie in alcune coorti generazionali di spettatori, un’esperienza audiovisiva erratica e nomadica, in cui la specificità dell’esperienza filmica è accompagnata dalla varietà delle esperienze mediali (interattive e non) nella logica di flusso che caratterizza la relazione tra media, società e pubblici del contemporaneo. In questo senso, molti studiosi pensano che il cinema come medium
fondato sul film abbia i giorni contati di fronte alle forme brevi, immersive, interattive, cangianti del “cinematico”. D’altro canto questi lamenti funebri sulla fine del cinema si fondano su una concezione riduttiva del medium, inteso unicamente come dispositivo e come archivio di immagini, che non tiene conto della sua complessità fenomenica e della pluralità di discorsi socioculturali che esso chiama in causa. Proprio la nozione di forma culturale del cinema, intesa nel senso diacronico, dando conto di una ragnatela di aspetti socioculturali che definiscono la spettatorialità filmica pre-digitale e quella postcinematografica dell’era digitale, consente di analizzare sociologicamente le soppravivenze delle culture filmiche e le emergenze cinematiche del contemporaneo, nel segno unificante dell’esperienza dei pubblici (come emergono nella loro multiforme configurazione dalle varie teorie degli Audience Studies presentate nei paragrafi precedenti). Per tali motivi, ci sembra corretto affrontare il discorso sulla spettatorialità postcinematografica con gli strumenti teorici della sociologia del cinema, in quanto più consapevoli della natura estremamente complessa dell’esperienza spettatoriale.