La spettatorialità digitale dagli Audience Studies alla sociologia del cinema
3.7 Transmedia & fandom, prosumer, produser
Proprio intorno ai media franchise, spesso allestiti intorno a un film di grande impatto popolare (Matrix, Il signore degli Anelli, Harry Potter, Transformers, Star Wars, Star Trek, ecc.) si giocano spesso gli spazi di produttività testuale del fandom. Il transmedia
storytelling (Jenkins 2007, Giovagnoli 2009, 2013)18, inteso come declinazione di un
universo narrativo su più media, chiama infatti in causa i fan in due modalità: per un verso, sfidando le loro capacità ermeneutiche con racconti via via più complessi, stratificati e disposti su un arco ampio di oggetti mediali (es. film, romanzi, cartoni animati, romanzi, action figures, ecc.); per l’altro, consentendo ai fan di intervenire in quest’universo immettendovi i propri testi (racconti, fanvideo, fanart, citazioni, omaggi, parodie, meme, siti web, eventi di cosplaying, ecc.).
Fanchi (2014: 103-104, 106-107) sintetizza mirabilmente, utilizzando la copiosa letteratura sul tema, i problemi derivanti da quest’attività delle fan communities:
1) assicurare la coerenza interna dell’intero universo narrativo legato al franchise, tra mainstream e grassroots. Gli UGC obbediscono, inoltre, a leggi particolari: sono concepiti come sempre in fieri, mai definiti e continuamente emendabili (Bruns 2008) e si basano molto spesso su una vernacularization (vernacolarizzazione o volgarizzazione) delle estetiche, degli stili e delle tecniche delle istituzioni mediali (Howard 2008, Hess 2009, Robards, Bennett 2011)19. Inoltre le culture partecipative molto spesso si percepiscono, se
non in aperta opposizione contestataria, almeno in alternativa ai modelli delle istituzioni mediali, rifiutandone procedure, saperi, tecniche (Keen 2009);
2) evitare di creare narrazioni eccessivamente ostiche, che potrebbero risultare indigeste per il fandom ed essere rifiutate (Pescatore 2006);
3) ottimizzare le opportunità conseguenti la decentralizzazione della creazione. Da una parte, infatti, le istituzioni mediali sono sollevate parzialmente dagli obblighi produttivi grazie al contributo creativo dei fan, in grado pure di aumentare la quantità degli oggetti culturali in circolo e il loro tasso di innovatività. D’altra parte, però, si corre il rischio di dissipare i saperi e le competenze dei professionisti, provocando uno scadimento della qualità degli oggetti mediali, in quanto i criteri qualitativi degli UGC sono significativamente differenti da quelli adottati dalle industrie mediali;
4) stimolare il fandom attraverso specifiche strategie affinché assicuri un flusso continuo di materiali, in modo da alimentarne costantemente il consumo.
Dujarier (2009) individua, a tal proposito, due forti motivazioni che spingono i fan alla
18 Uno studio empirico sulle forme di transmedia storytelling, fondato sulla dialettica tra mainstream e
grassroots, si trova in Tirino 2015d, 2015e (in riferimento alla serie tv The Walking Dead) e in Napoli, Tirino
2015 (in riferimento a Gomorra – La serie).
19 Il fenomeno della “vernacolarizzazione” ha origini lontane: si manifesta, infatti, anche in numerosi casi in
cui le culture popolari si appropriano di oggetti, pratiche, valori di culture borghesi, mainstream o aristocratiche: cfr. Guilianotti 2005.
creazione di artefatti: un piacere narcisistico, che si esplica nel vedere associato il proprio nome a prodotti in grado di attingere considerevole visibilità mediatica, e un piacere più strettamente connesso all’atto creativo. A queste due motivazioni individuate dalla sociologa francese, se ne possono affiancare altre: per esempio, la gratificazione derivante dal cooperare ad un progetto che si ritiene culturalmente o artisticamente valido; la soddisfazione provocata dal rafforzamento della propria reputazione o immagine sociale tra i membri delle cerchie cui si appartiene; lo stimolo a perfezionare le proprie capacità e competenze, sottoponendo il proprio lavoro al giudizio di soggetti che si reputano stimati e qualificati. Neppure queste ipotesi di motivazioni esauriscono il quadro: come forme di fandom pre-digitale hanno dimostrato (Jenkins 1992), la partecipazione alla creazione culturale segue talvolta percorsi eterodossi ed imprevisti, fortemente legati alla storia personale e comunitaria, al contesto ambientale, alla formazione culturale, alla dimensione sociale delle performance, alle tecnologie disponibili in un preciso momento e/o luogo geografico.
In ogni caso, l’ascesa massiccia di fandom, fanfiction e fanart risponde ad un processo socioeconomico di più ampia portata, che va sotto il nome di “prosumerizzazione” del consumo, come preconizzato da Alvin Toffler (1980) e, ancor prima, da McLuhan e Nevitt (1972) (tale modello sarà aggiornato da Van Hippel 2005). Il “consumer” diventa dunque anche “producer”: nella stessa persona possono convivere tranquillamente i ruoli di produttore e consumatore dei prodotti culturali. Toffler collegava questa ibridazione di funzioni alla ristrutturazione del sistema industriale moderno, nel nome della demassificazione, della personalizzazione, della supremazia del settore terziario su quello industriale. Così concepito, il prosumer, in realtà, svolge funzioni demandate in precedenza ai produttori e la sua capacità creativa risulta notevolmente ridotta. Un’elaborazione di questo modello è il Pro-Am teorizzato da Charles Leadbeater e Paul Miller (2004), cioè un amatore che, grazie all’acquisizione di competenze maturata con la produzione grassroots, si appropria progressivamente di standard e modalità operative professionali o semi-professionali. Per quanto riguarda gli audiovisivi, la comunità dei
vidder (cfr. infra, cap. 6) è un perfetto esempio di Pro-Am: si tratta di fan (spesso cinefili)
al lavoro su artefatti culturali audiovisivi, in un ambito che è, insieme, competitivo (i
vidder si contendono la palma dei lavori più condivisi e apprezzati sulla Rete) e
cooperativo, offrendo la possibilità ai membri della community di confrontarsi sugli strumenti adoperati (camere, lenti, apparecchiature varie e così via), sulle tecniche (di
montaggio, di illuminazione), di postproduzione (correzione degli errori, effetti speciali, ecc.) e di packaging (titoli di testa, loghi, ecc.). Le audience amatoriali acquisiscono così competenze che possono spendere in ambito lavorativo e, ovviamente, riversare nei prodotti grassroots (mashup, remix) nel tentativo di modificare le norme codificate del sistema produttivo mainstream, magari attirandone l’attenzione prima di approdare nei circuiti istituzionali. Per Chris Anderson (2006), nella maggior parte dei casi, i prodotti
grassroots ottengono un consenso pari se non più largo di quello del contenuto di
partenza, perché sfruttano “the long tail”, la coda lunga, del suo successo. La teoria della coda lunga, dunque, vede l’attività dei Pro-Am in continuità con le produzioni dell’industria culturale, rispetto alla quale gli amatori professionisti, pur gratificati da notevoli successi, svolgono comunque un ruolo ancillare. Più ottimisti sono i modelli della coevoluzione delle industrie creative (Currah 2007, Banks, Potts 2010), in base ai quali l’acquisizione e il raffinamento delle competenze dei Pro-Am rappresenta un valido supporto per lo sviluppo di nuovi oggetti culturali o il perfezionamento di quelli già sul mercato. Tramite il confronto con queste figure ibride, le industrie mediali possono, cioè, modificare i piani iniziali, correggere eventuali sbavature e ripensare i modelli narrativi, magari integrando iniziative istituzionali e azioni bottom/up.
Per contemperare le posizioni delle media industries, volte alla massimizzazione del profitto e alla difesa del copyright, con quelle dei pubblici connessi e del fandom, basate sulla gratuità, sul dono e sul lavoro collettivo, si rende necessaria l’elaborazione di nuovi strumenti teorici. Questo processo porta al passaggio dal modello dell’industria culturale al modello dell’industria creativa. La prima concerne l’apparato che sovrintende alla produzione e distribuzione industriale dei prodotti culturali, sulla base di un sistema di norme e codici, formali e informali, mentre la seconda inquadra il panorama mediale che si determina dalla confluenza della creazione dal basso (talento individuale, diffusione su piccola scala) con le logiche economiche dell’industria culturale (distribuzione su larga scala) nell’ambito di una inedita “knowledge economy” (Hartley 2005, cfr. Hartley, Potts
et al. 2012 e Towse, Handke 2013). Intorno al nuovo scenario mediale, in cui si incrociano
pratiche bottom/up e top/down, sono state elaborate, nell’ambito degli Audience Studies, due teorie. La prima, nota come produsage theory, parte dalla critica del concetto di
prosumer. Axel Bruns (2008b, 2013) prende le distanze dal modello del prosumer, in
quanto ritiene che, per comprendere la generazione di contenuti degli utenti, occorra uno sguardo dall’interno delle comunità di fruitori-produttori e non una visione dall’esterno,
come quella formulata da Toffler, che assume il punto di vista delle industrie commerciali. Affinché si possa parlare di “user-led content creation”, occorre che un considerevole numero di soggetti concorra al processo, come ad esempio accade per Wikipedia. Per favorire la partecipazione di nuovi utenti, inoltre, è fondamentale predisporre procedure di accesso graduale, che consentano, completando vari step, di passare dalla semplice osservazione del processo di produzione culturale all’impegno diretto: quest’aspetto del
produsage è noto come “granularity of partecipation” (Benkler 2006: 101). Una ulteriore
condizione per il produsage è che i membri della comunità esibiscano rilevanti differenze, poiché un gruppo con caratteristiche socioculturali uniformi sarebbe incapace di creare contenuto attraverso un processo fondato sulla revisione iterativa e sulla valutazione. Per analoghe ragioni, mantenere il processo di creazione in un permanente stato di beta-test, in modo che esso si rinnovi continuamente, richiede che gli UGC vengano concepiti come artefatti perennemente modificabili e non come prodotti (per loro definizione chiusi e finiti). Proprio rispetto a questa proprietà di costante apertura alla modificabilità, si riscontra la discontinuità tra le modalità produttive delle industrie culturali tradizionali, costrette, a un certo punto dell’elaborazione dei prodotti culturali, a ipostatizzarli in una forma definita, da confezionare per la distribuzione fisica sul mercato, e le industrie creative, libere di rimodulare i contenuti senza alcun vincolo materiale o spaziotemporale (è quanto avviene per esempio con i fanvideo, sottoposti a un ciclo di revisione potenzialmente infinito, che si dispiega nella pubblicazione di diverse release dello stesso contenuto). Le pari opportunità (equipotentiality) di cui parla Bauwens (2005) non vanno confuse, nella visione di Bruns del produsage (2013), con una totale eguaglianza di tutti i contributi e i contributori. Nella formula del produsage, infatti, l’equipotentiality sta a significare che non esistono barriere formali alla partecipazione; tuttavia, esiste una moltitudine di centri di potere e di autorità, al posto di una rigida struttura gerarchica: possiamo pertanto leggere tale rete di relazioni di potere come “a fluid eterarchy and ad
hoc meritocracy” (Bruns 2013: 73). In funzione dell’obiettivo specifico che la comunità
deve raggiungere, la gerarchia fluida si rimodella conferendo posizioni apicali a coloro che, per quello specifico compito, hanno mostrato di possedere una competenza sperimentata sul campo (non teorica o presunta): la natura meritocratica di questo processo incentiva la partecipazione dei soggetti alle comunità dedite alla creazione collettiva del contenuto (che resta una common property, una proprietà della comunità), offrendogli una ricompensa individuale (individual reward) in forma di riconoscimento
delle proprie competenze e accrescimento della visibilità e della reputazione. Oltre alla
produsage theory (Bruns 2008b, 2013), la seconda formulazione teorica che affronta la
relazione tra gli interessi delle industrie mediali e i pubblici connessi va sotto il nome di “co-creazione dinamica”. La formulazione più estesa di questa prospettiva, opera di John Banks e Jason Potts (2010), si fonda sulla doppia natura delle industrie culturali, sospese tra la dimensione economico-finanziaria e quella simbolica. Secondo questi autori ed altri che hanno seguito le loro orme (Cunningham 2012, Hartley, Potts et al. 2012), le industrie mediali tradizionali non sono riuscite a conciliare in una forma soddisfacente questa duplicità costitutiva e, pertanto, il programma delle industrie creative deve mirare a colmare il gap tra le due dimensioni. In particolare l’obiettivo di questa prospettiva è tracciare le condizioni operative, affinché l’urgenza del profitto e dello sviluppo costante delle imprese sia temperata dal peso della prospettiva culturale, articolata intorno al dominio pubblico dei contenuti, alla gratuità e alla circolazione. Il ruolo delle nuove audience creative consiste, in questo contesto, nel tentare di avvicinare produzione e consumo, in quanto, come segnala Currah (2007), si sta esaurendo la barriera che divideva industrie, consumatori e produttori di beni culturali. Per soddisfare questo ambizioso piano della ricerca, Potts e Banks (2010) pensano a un approccio multidisciplinare, di tipo “co- evolutivo”, vale a dire pensato in modo da dar conto delle trasformazioni del mediascape partendo dai soggetti che lo abitano e modellano (le imprese, gli utenti, le tecnologie e i media). La co-creazione viene così descritta come un processo “situato” (cioè fortemente legato al contesto tecnologico, culturale, sociale composto dalle organizzazioni, dalle comunità e dai singoli) e “dinamico”, ovvero molto sensibile e reattivo alle modifiche di stato dei contesti in cui è collocato. In realtà, la co-creazione dinamica mostra diverse lacune teoriche. In primo luogo, lascia perplessi questo spazio di compensazione, definito
social network market, a cavallo tra sistema commerciale e sistema culturale, in cui
dovrebbero trovare ospitalità i processi produttivi, co-creati da imprese e comunità. Intanto, come largamente osservato nella rassegna di contributi riepilogati in questo capitolo, le audience non sono mai umanimi nel loro giudizio delle industrie. A comunità di utenti più propense al dialogo con le organizzazioni mediali tradizionali, si affiancano gruppi animati da una carica resistente, autonomizzante, quando non apertamente antagonista e alternativa. In secondo luogo, appare insufficiente bypassare i nodi teorici, relativi alle modalità con le quali si dovrebbero stabire le condizioni minime per l’allestimento di questo spazio, affermando, come pure è stato fatto, che la co-creazione è
una prospettiva e non un orizzonte teorico (cfr. Fanchi 2014: 113). Nel pieno fervore dei
fandom studies, la cui mole e il cui peso si sono esponenzialmente moltiplicati nell’alveo
più ampio degli Audience Studies, né la produsage theory, né la teoria della co-creazione dinamica sembrano offrire analisi convincenti dell’interazione simbolica, culturale ed economica tra le comunità di utenti e le industrie mediali. Come è stato sottolineato da diversi studiosi (Carpentier 2011, Jenkins, Ford, Green 2013 e altri), i fenomeni e le pratiche che si dispiegano nel ricchissimo panorama mediale contemporaneo disegnano uno scenario estremamente mobile, sfuggente ad ogni classificazione e contrassegnato da una dialettica dalle forme e dagli esiti imprevedibili tra produzione e consumo, tra mainstream e grassroots, tra organizzazioni tradizionali e comunità di utenti. Può accadere, per esempio, che siano UGC autonomamente immessi dai fan sui social media a stimolare l’industria a imbastire un dialogo, ma è verosimile anche l’ipotesi in cui i produttori istituzionali allestiscano strategie di engagement dei pubblici e delle comunità, invitandoli a partecipare con maggiore intensità ai processi interpretativi e alla realizzazione di artefatti culturali che vanno ad arricchire lo spazio simbolico dei media
franchise. Inoltre, che sia connotata come top/down o come bottom/up, l’interazione tra i
prodotti ufficiali e gli oggetti culturali dei fan mette in comunicazione istanze, storie aziendali e comunitarie, interessi, valori, abitudini e strategie che, inevitabilmente, tendono più spesso a divergere e confliggere, che a convergere ed armonizzarsi in assetti pacifici di condivisione.