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L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche

4.1 Prima sezione Breve introduzione alla sociologia dell’esperienza mediale

4.1.2 L’esperienza filmica

4.1.2.2 L’esperienza filmica negli Audience Studies

Non tutte le teorie della spettatorialità filmica interpretano questo fenomeno in termini di esperienza. D’altra parte, la maggior parte delle teorie e degli studi che, esplicitamente o esplicitamente, parlano di “esperienza filmica” sono per la maggior parte collocabili nell’ambito degli Audience Studies.

Dopo i modelli d’analisi centrati sulla passività o manipolabilità dello spettatore (cfr. par. 3.2), in ambito cognitivista si sviluppa il modello dello spettatore complice, che, appoggiandosi al suo bagaglio di competenze e conoscenze acquisite, coopera con il testo filmico facendo propri alcuni indicatori (cfr. Bordwell 1996). Opposto a questo modello è quello, già trattato in precedenza (par. 3.3) e sviluppato nell’ambito del feminist film

criticism, dello spettatore resistente, la cui esperienza filmica si connota per la capacità di

rifiutare le istanze del testo. Entrambi i modelli, come nota Fanchi (2005: 23), mostrano lacune evidenti: “da un lato non è chiaro in virtù di quale pregressa intesa lo spettatore (...) si disponga in naturale sintonia con il progetto comunicativo del film; dall’altro, si dà per scontata una vigilanza più auspicata che reale”.

Il modello negoziale, alimentato a partire dagli anni Ottanta da studi sia semiotici che culturologici, concepisce l’esperienza filmica come una continua negoziazione, in cui il testo presenta delle marche che orientano la decodifica, ma lo spettatore gode di un’autonomia interpretativa notevole. Nella formulazione più ampia del modello, Christine Gledhill (1988) afferma che il processo negoziale presiede non solo all’esperienza filmica, ma anche ai processi produttivi e al funzionamento degli apparati. La principale mancanza di questo modello è che la negoziazione è intesa come azione strategica razionale, trascurando le componenti affettive dell’esperienza filmica.

Tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, nel quadro di un rifiorire di pubblicazioni di taglio storico, culturologico e semiotico sulle audience, si possono

ritagliare una serie di tendenze.

In primo luogo, studi che pongono in discussione e ridefiniscono il processo di identificazione. Nei lavori di Walkerdine (1986) e Stacey (1994), il processo di identificazione non è più ricondotto a un meccanismo psichico originario, ma si ricollega piuttosto ai vissuti, alle emozioni, alle aspirazioni e alle fantasie dei pubblici, in un preciso contesto sociale e culturale: in questo modo l’esperienza filmica interagisce in un senso più profondo con l’esperienza extrafilmica, reale e quotidiana dei pubblici; in altri termini, il modo in cui facciamo esperienza del film è significativamente influenzato dalla nostra biografia e, nello stesso tempo, le risorse simboliche che traiamo da questa esperienza costituiscono una riserva di strumenti che impieghiamo continuamente nella vita quotidiana.

In secondo luogo, specie nell’ambito dei Cultural Studies, emergono una serie di studi, dedicati all’esperienza filmica di determinati gruppi sociali e caratterizzati dall’adozione di metodologie di ricerca di stampo etnografico (interviste in profondità, osservazione partecipante, ecc.). In particolare, Miriam Hansen, in un importante lavoro (1991), lavora sulle modalità con cui il cinema struttura la sfera pubblica. In particolare, Hansen ritiene che lo spettatore utilizzi nel discorso sociale le risorse simboliche attinte dall’esperienza filmica, cosicché quest’ultima si estende nella vita quotidiana come nel discorso politico. È grazie a queste attività che il cinema, a partire dagli anni Dieci e Venti, contribuisce all’integrazione degli immigrati e dei pubblici femminili, fino ad allora ai margini del discorso sociale. Nello stesso filone si può collocare l’importante ricerca di Annette Kuhn (2002) sulle culture del moviegoing nell’Inghilterra degli anni Trenta. Il lavoro della Kuhn è interessante per la metodologia di ricerca, che, per indagare esperienze filmiche così lontane nel tempo, si basa sul metodo etnografico, mutuato dai Cultural Studies, e sui racconti orali degli spettatori di quell’epoca. L’indagine della Kuhn ha come oggetti, principalmente, il contesto sociale e sensoriale in cui ha luogo la performance spettatoriale, da un lato, e i processi socioculturali attraverso cui le audience attribuiscono un senso alle esperienze filmiche vissute, dall’altro. In particolare, circa il secondo oggetto della ricerca, poiché si basa sui ricordi degli spettatori di esperienze vissute decenni prima, la storica e sociologa britannica pone al centro della sua riflessione il tema della memoria culturale. Nel raccontare il passato di cinespettatori, gli intervistati producono delle vere e proprie performance della memoria, che si concretizzano in interviste che per la Kuhn sono essenzialmente narrazioni. Da queste narrazioni sul senso individuale e sociale

attribuito al moviegoing, la Kuhn trae dei “temi”, che vanno dai ricordi del contesto dove avveniva l’esperienza filmica ai generi frequentati, fino alle diverse interazioni sociali extrafilmiche che avevano luogo nelle sale (il corteggiamento, l’incontro con gli amici, ecc.).

Con l’evoluzione del quadro culturale e tecnologico alla base della rilocazione del cinema, emergono nuove teorie e analisi empiriche sulla spettatorialità. Anne Friedberg (1993), parafrasando Benjamin, inquadra l’esperienza spettatoriale nei termini di una nuova

flânerie: lo spettatore, di fronte all’ampio accesso al film offerto dalle tecnologie della

visione filmica, esperisce contestualmente l’eccitazione dei sensi di fronte alla moltitudine di opportunità di fruizione e una sorta di sorveglianza sull’esperienza che matura. In questo quadro, la tecnologia del VHS ha mercificato il film, rendendolo una merce reperibile sul mercato; d’altro canto, il multiplex consente un ulteriore allargamento dell’offerta filmica. Queste pratiche di visione e ancor di più le successive, come il DVD, intensificano la flânerie dello spettatore, sempre più padrone della scansione spaziotemporale dell’esperienza filmica.

Barbara Klinger (1998) descrive l’esperienza filmica in ambito domestico ricorrendo alla nozione di “spettatore aristocratico”. Questo modello identifica quei membri dell’audience in grado di esibire una certa competenza, che è, però, di natura diversa da quella del cinefilo: mentre quest’ultimo è un esperto conoscitore della storia, degli stili, delle opere e degli autori del cinema, lo spettatore aristocratico è una persona ben informata (insider), che possiede una conoscenza vasta ma superficiale delle opere e dei protagonisti del cinema, molto spesso tradotta in aneddoti utili alla conversazione, e una notevole capacità tecnica circa il funzionamento dei dispositivi e la qualità dei supporti. Le sue conoscenze e capacità sono ripagati con il riconoscimento nella cerchia familiare ed amicale.

4.1.2.3 Teorie fenomenologiche dell’esperienza filmica

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