• Non ci sono risultati.

Teorie mediologiche della spettatorialità digitale

2.3 La spettatorialità cinematografica nelle teorie mediologiche

2.3.5 La condizione post-mediale in Rosalind Krauss

La categoria della postmedialità ha origine, nel dibattito contemporaneo, da A Voyage on

the North Sea: Art in the Age of the Post-Medium Condition (1999), trascrizione di una

conferenza tenuta da Rosalind Krauss. L’obiettivo della studiosa, che si concentra in maniera particolare sull’opera dell’artista belga Marcel Broodthaers, è contestare l’impostazione di Clement Greenberg che, spinto da un desiderio modernista di purezza delle forme, legava ciascuna forma artistica al suo supporto materiale. La studiosa ritiene, invece, che il medium è il risultato di una serie di relazioni e convenzioni mutabili, flessibili. L’arte postmediale è allora quella che spinge a definire un medium sotto la pressione della differenza di altri media: così, “l’apparato filmico si presenta come mezzo la cui specificità deve essere trovata nella sua condizione di differente da sé” (Krauss 2005: 48). Questa definizione di “specificità differenziale” si integra produttivamente nell’analisi da noi effettuata sull’evoluzione del medium filmico, attraverso i concetti di “forma culturale” e “media shock” (cfr. infra, cap. 1). Usando il lessico della Krauss, il cinema avrebbe approfittato della “condizione differente da sé”, continuamente esibita da altri media con cui è entrato in collisione, per recuperare momentanei stati in cui attestare la propria specificità (o, in altri termini, la propria forma culturale). Tuttavia Krauss (2005: 48), citando Benjamin, ritiene che questa specificità differenziale possa emergere unicamente quando si manifesta “l’obsolescenza delle (...) ultime fasi di sviluppo [del cinema]”: come nota De Rosa (2013: 34), questa posizione “pare presentare una qualche criticità”, non solo perché “non sembra tener conto di quegli aspetti di sopravvivenza che invece si pongono come elementi connotativi del cinematografico”. La falla, piuttosto, riguarda il fatto di non tenere conto della natura costitutivamente aperta della forma culturale cinematografica, esposta per sua natura (tecnologica, culturale e sociale) a confrontarsi con la differenza da sé, sin dalla sua nascita e quasi per tutto il corso della sua esistenza. In effetti, l’analisi della storica dell’arte americana è incentrata sulla produzione artistica degli anni Sessanta e Settanta, ben prima dei media digitali. Occorre allora, arricchire la nozione di arte postmediale, per comprendere la ricchezza dei livelli semantici che la categoria incorpora seguendo, sulla scia delle sintesi di Quaranta (2006,

2010), l’evoluzione del dibattito. Il primo ad usare il concetto di “era postmediale” è Felix Guattari, che, in un articolo, si riferisce ai media digitali in grado di operare in maniera decentrata, non-gerarchica, e, perciò, di rimediare i vecchi media, provocando una ridefinizione del rapporto tra produttore e consumatore e nuovi spazi sociali della comunicazione. Il termine si ritrova usato, da allora, con riferimento a più fenomeni e pratiche: Brea (2002) parla di “era postmediale” in riferimento alle comunità autorganizzate di artisti che, sul Web, si radunano per produrre da sé gli strumenti del proprio lavoro, in una sorta di revival dello spirito delle avanguardie classiche; Bourriaud (2004) riconosce con forza che tutta l’arte, avvezza o meno all’uso degli strumenti digitali, è entrata nell’era “mediale”, perché viene pensata secondo le logiche della postproduzione e del remix (assi portanti dei linguaggi dei media digitali, come teorizzato da Manovich: cfr. par. 2.3.2); al pari di Bourriaud, Weibel (2006), riconosciuta l’universalità dell’impatto che i media hanno sul complesso delle arti, compie l’ulteriore passaggio teorico di sostenere che i media digitali, costringendo le arti tradizionali a riflettere sullo scenario di transizione che vivono, le aiuta a prendere consapevolezza della loro natura mediale. Così arricchito, il concetto di era postmediale sembra esprimere una pluralità di questioni che qui accenniamo per sviluppare compiutamente nei capitoli 3 e 4:

1) la liquidazione del concetto tradizionale di medium legato ad un supporto specifico obbliga a ripensare lo statuto ontologico del cinema (v. par. 2.4), ma anche delle arti tradizionali (Brea 2002, Bourriaud 2004, Weibel 2006): bisogna provare ad identificare, cioè, quello che De Rosa definisce il “genius filmico”, ovvero un nucleo fondamentale che conserva le caratteristiche del medium in ognuna delle sue rilocazioni;

2) se De Rosa pone la questione del genius filmico soprattutto rispetto agli ambiti eterodossi (mediafacades, arte contemporanea, spazio-immagine del quotidiano) in cui si riloca il cinematografico, tale snodo teorico riguarda a nostro avviso tutte le forme di rilocazione, comprese quelle che riguardano la fruizione di opere filmiche su supporti portatili o in condizioni fruitive particolari;

3) a questo proposito, la “condizione postmediale”, se applicata allo specifico ambito della

spectatorship (post)cinematografica, in primo luogo deve portare a concepirne la natura

altamente performativa. Centrale, allora, risulta il concetto di “esperienza cinematografica”, intesa, nella capitale formulazione di Casetti (2009b: 56-57), come

more than film reception – more than an interpretation consumption. It is a situation which combines sensory or cognitive ‘excess’ (there is something that touches or addresses us,

outside the taken-for-granted) to the ‘recognition’ of what we are exposed to and the fact that we are exposed to it (a recognition which makes us redefine ourselves and our surroundings). An excess and a recognition: it is thanks to these two elements that we ‘live’ a situation, recuperating contact with what we are viewing; and that at the same time we frame it, giving it a meaning.

Come proveremo a spiegare nei prossimi due capitoli, allora ogni atto con cui uno spettatore mette in scena un’esperienza filmica assume la natura di una performance, che chiama in causa una serie di assetti percettivi, emotivi, relazionali e mediali. Sì, mediali: perché, a nostro avviso, la codificazione digitale delle immagini in movimento ha effettivamente garantito la possibilità di fruirne attraverso più dispositivi, ma, proprio per questo, ha rilanciato il tema della centralità della relazione tra oggetto culturale, spettatore e mezzo di riproduzione. Ciascun dispositivo, dagli smartphone ai tablet, dai notebook ai desktop computer, passando per la visione nelle sale di nuova o vecchia generazione, dischiude opportunità diverse di “manipolare” le configurazioni corporee, sensoriali e percettive, i legami interpersonali, le dimensioni affettive e patiche, il contesto ambientale della fruizione, le memorie archiviali, lo spaziotempo della narrazione: ogni volta che guarda delle immagini dinamiche, lo spettatore è, insomma, inserito nei flussi della comunicazione mediatizzata contemporanea, interconnesso a correnti di dati provenienti da agenti umani o macchinici, con cui deve necessariamente mettersi in una qualche forma di relazione. Dalla sua capacità di esperire consapevolmente il rapporto con le immagini in movimento e dalla ricchezza delle interazioni (organiche ed inorganiche) che gli consentono di “abitare” i media e trarne risorse simboliche per la sua vita quotidiana, dipende essenzialmente la qualità della spettatorialità contemporanea.

Outline

Documenti correlati