L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche
4.1 Prima sezione Breve introduzione alla sociologia dell’esperienza mediale
4.1.2 L’esperienza filmica
4.1.2.3 Teorie fenomenologiche dell’esperienza filmica 1 Empatia
Un recente studio di Adriano D’Aloia (2012) fa il punto sulle teorie fenomenologiche dell’esperienza filmica, ragionando soprattutto sul concetto di empatia. D’Aloia richiama in primis il pensiero di Edith Stein. Nel famoso studio sull’empatia del 1917, la filosofa e monaca di origine polacca compie una distinzione tra l’esperienza originaria, il cui contenuto è presente e incardinato nel corpo, ed esperienze psicologiche, il cui oggetto non è corporeamente presente. Queste seconde esperienze sono date originariamente, ma non sono originarie nel loro contenuto. Analogamente, l’empatia è “un atto che è originario in
quanto vissuto presente, mentre è non-originario per il suo contenuto” (Stein 2009: 78): in altri termini, l’esperienza empatica consiste nell’essere guidati dalla originarietà di qualcun altro. Stein precisa inoltre che il soggetto che empatizza opera rispetto all’altro per cui prova empatia “una imperfetta sostituzione”: in altre parole, la relazione empatica non si esplica nella forma della proiezione o della fusione, ma come un “accompagnamento”, che consente di preservare una separazione e si configura come “a
paradoxical proximity at a distance” (D’Aloia 2012: 94). Il richiamo alla teoria
dell’Einfühlung serve a D’Aloia per sottolineare “an analogy between the ‘structure’ of empathy and the ‘structure’ of filmic experience, on condition that we assume the sui
generis nature of otherness, which is implied in a film character” (94). In termini
fenomenologici, l’esperienza filmica può essere intesa come la relazione tra lo spettatore ed una serie di “quasi-corpi”, quali sono i corpi dei personaggi filmici con cui interagisce. Questi corpi, pur essendo immagini fissate su celluloide, esibiscono una certa vitalità, grazie al rapporto di somiglianza dei loro movimenti e delle loro fattezze con quelli dei corpi reali. Inoltre i corpi sullo schermo, oltre ad essere percepiti come corpi diegetici (ossia corpi dei personaggi), sono inseparabili dai corpi fisici degli interpreti. In questa prospettiva fenomenologica, possiamo concepire l’esperienza filmica come “a quasi- intersubjective relationship in which the spectator, under certain conditions, can empathise with the character” (95).
Lo psicologo belga Albert Michotte rientra nell’excursus di D’Aloia, in quanto tra i primi a studiare specificamente la partecipazione emotiva dello spettatore filmico a partire dal concetto di empatia. In un lavoro del 1953, egli concepisce l’empatia come quel processo psico-fisiologico che permette agli spettatori di colmare la distanza con gli eventi narrati sullo schermo. Un’altra importante acquisizione di Michotte è la distinzione tra una “motor empathy” e una “emotional empathy”, tra di loro strettamente interconnesse. Infatti la prima accompagna e precede la seconda: lo spettatore è infatti in grado di identificare il movimento del corpo dell’attore visto sullo schermo con quello esperito dal proprio corpo. L’empatia motoria consente allo spettatore di esperire anche l’empatia emozionale, poiché le componenti sensomotorie sono legate ai sentimenti, alle attitudini mentali, ai giudizi, ai pensieri e, in generale, a tutti gli eventi connessi intimamente al sé profondo dello spettatore.
Come l’empatia può essere vista quale esperienza originaria di un contenuto non- (o quasi-) originario, così – propone D’Aloia (2012: 100) – l’esperienza filmica di una
relazione con il personaggio “could be thought of as the primordial experience (in the spectator’s lived-body) of non-primordial movements and emotions (those that are performed and felt by the character’s quasi-body)”. Secondo D’Aloia tra la struttura dell’esperienza empatica e la struttura dell’esperienza filmica vige un’analogia processuale; a partire da quest’analogia, per lo studioso italiano, si può utilizzare l’impianto filosofico di Edith Stein per dar conto della relazione psicologica tra spettatore e i “quasi-corpi” filmici. La filosofa morta ad Auschwitz nel 1942 concepisce l’empatia come un processo composto da più stadi: “1) l’emersione del vissuto; 2) la sua esplicitazione riempiente; 3) l’oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato” (Stein 2009: 78). Al primo stadio, siamo in presenza del vissuto dell’altro (ad esempio, un espressione di tristezza sul volto di un amico), che esperiamo, come se fosse un oggetto, con i nostri sensi; nello stadio intermedio, “quel vissuto non è più Oggetto nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé, per cui adesso io non sono più rivolto a quel vissuto ma, immedesimandomi in esso, sono rivolto al suo Oggetto, lo stato d’animo altrui, e sono presso il suo Soggetto, al suo posto” (78); al terzo e ultimo stadio, dopo la chiarificazione, il vissuto torna a noi come oggetto, ovvero come un qualcosa che abbiamo ricevuto nella nostra esperienza ed interiorizzato. Così concepita, l’empatia non si riduce dunque né alla pura percezione né all’atto di cognizione, ma è piuttosto “a feeling composed of different levels, namely perceptual, emotional and cognitive, grounded in the lived-body” (D’Aloia 2012: 101). Questi tre livelli, per D’Aloia, sono paralleli a quelli dell’esperienza filmica dello spettatore, quando si relaziona ad un personaggio: 1) un atto percettivo: fronteggiamo percettivamente un corpo cinematografico che attira la nostra attenzione e i nostri sensi; 2) un atto emozionale, in virtù del quale ci approssimiamo al personaggio per collocarci nei pressi dell’origine della sua emozione; 3) un atto cognitivo: che ci consente di distaccarci dal personaggio, per realizzare, questa volta cognitivamente, una nuova oggettivizzazione.
In conclusione, dall’interessante studio di D’Aloia emerge una lettura dell’empatia cinematografica come un processo complesso radicato nei processi cinestetici e sensoriali del corpo dello spettatore. L’intensificazione della stimolazione sensoriale è strettamente connessa al cinema (in quanto massima espressione della civiltà industriale moderna: cfr. Abruzzese 1973), che fin dalle sue origini impiega motivi narrativi (fughe, capitomboli, acrobazie, ecc.) votati alla stimolazione sensomotoria delle audience. Come aveva intuito Michotte nella sua teoria filmologica dell’empatia sensomotoria ed emozionale, ogni
movimento sullo schermo viene esperito in due modi dallo spettatore: come impressione visiva del corpo in movimento di un personaggio e come una sensazione cinestetica profonda esperita dallo spettatore nel proprio corpo. Il legame che lo spettatore istituisce tra la percezione visiva esterna e la percezione corporea interna prepara il terreno per l’esperienza dell’empatia emozionale, “a more complex relationship between the spectator’s body and the character’s quasi-body, both (...) conceived as lived-bodies in a phenomenological sense” (D’Aloia 2012: 106). La soggettività spettatoriale, in termini di movimenti ed emozioni, resta separata, in ogni caso, dalla quasi-soggettività del personaggio filmico, poiché l’empatia implica una separazione ontologica, che rappresenta l’atto costitutivo dell’esperienza filmica in quanto paradossale “prossimità a distanza”.
4.1.2.3.2 Corporeità
L’applicazione rigorosa della fenomenologia allo studio dell’esperienza filmica è un fenomeno relativamente recente. The Address of the Eye: A Phenomenology of Film
Experience (1992) di Vivian Sobchack è, in questa prospettiva, un capisaldo. L’obiettivo di
questa ricerca è evidenziare l’importanza della fenomenologia esistenziale di Maurice Merleau-Ponty per una teoria dell’esperienza filmica. Pensando al film attraverso nozioni fenomenologiche come il corpo vissuto (applicata sia al film che allo spettatore), la natura sinestesica e radicata nel corpo della percezione, la reversibilità di percezione ed espressione, Sobchack rimarca la materialità e la sensorialità dell’apparato tecnologico cinematografico. L’approccio fenomenologico all’esperienza filmica mira, in ultima analisi, ad enfatizzare la radicale apertura e la natura non-finita sia del medium filmico, sia dello spettatore. Superando l’approccio soggetto/oggetto di altre teorie fenomenologiche di matrice husserliana (come quelle, passate in rassegna, di Stein e Michotte), nella prospettiva di Sobchack il medium e lo spettatore sono sempre mutualmente implicati e inclusivi l’uno dell’altro. In quest’ottica, la studiosa riconosce al soggetto che guarda e al film un’eguale azione percettiva ed espressiva. Il film proiettato sullo schermo, infatti, non è un oggetto finito e pronto ad essere passivamente percepito dalla coscienza dello spettatore; esso è piuttosto un’alterità, anonima ma presente, che porta a termine una sua propria attività di visione, ascolto e movimento. Il film è così non semplicemente un oggetto visionato, ma, come lo spettatore, è a pieno titolo un soggetto vedente. Per Sobchack, l’esperienza della percezione e dell’espressione è nella disponibilità del regista, del film e dello spettatore, nella misura in cui essi condividono “common structures of embodied existence. . . [and] similar modes of being-in-the-world” (Sobchack 1992: 5).
Oppenendosi radicalmente alla concezione dell’esperienza filmica come un atto illusorio e coercitivo, sviluppato dalle teorie psicoanalitiche e ideologiche negli anni Settanta, il modello fenomenologico della Sobchack (1992: 278) mette in rilievo le rilevanti possibilità dell’esperienza filmica, intesa come un’ininterrotta negoziazione tra gli atti percettivi ed espressivi del film e dello spettatore: “the spectator’s significant relation with the viewed view on the screen is mediated by, inclusive of, but not dictated by, the film’s viewing view”. Contrastando le teorie della visione di Christian Metz, per il quale l’esperienza del film è un’esperienza disincarnata, la Sobchack dimostra come la visione del film non può mai aver luogo in una dimensione disincarnata o di passivo assorbimento. Il nostro accesso al mondo del film, insomma, non può mai bypassare una radice corporea dell’esperienza né un coinvolgimento attivo, per quanto, durante l’esperienza di visione del film, i nostri corpi possano apparire fisicamente inerti o statici. Oltre al suo inscindibile legame con la corporeità, il modello fenomenologico della Sobchack concepisce la percezione come sinestesica e sinottica, ovvero essa non è basata sulla stimolazione di un singolo senso (la vista) isolatamente, poiché le nostre differenti modalità sensoriali non sono frammentate e separate le une dalle altre. Piuttosto, i nostri sensi formano un sistema di cooperazione per cui ogni percezione risultante è indubbiamente più della somma dei differenti sensi che vi partecipano. Sobchack, oltre ai principali lavori del fenomenologo francese, richiama, nella sua trattazione, anche l’unico testo esplicitamente dedicato da Merleau-Ponty al cinema, Le cinéma et la nouvelle
psychologie (1948), in cui prepara il terreno per la corrispondenza tra la tecnologia e
l’ontologia del cinema, semplicemente sostenendo che la tecnologia e la mediazione operata dal cinema generano un certo modo di stare-nel-mondo. Considerando il film come corpo vissuto (e in quanto tale, come il corpo vissuto umano, capace di percezione, espressione e azione nel mondo), Sobchack sostiene che il corpo del film – la sua dimensione tecnologica e strumentale – determina la base per il coinvolgimento percettivo ed espressivo del film rispetto al mondo. In quest’ottica, la tecnologia non è una materia inerte e reificata, ma un campo intenzionale che estende ed altera i progetti esistenziali degli spettatori: i processi tecnologici allora sono correlati alle modalità con cui pensano, sentono e percepiscono.
Decenni prima della teorica statunitense, già André Bazin (1999), sebbene non in un’esplicita prospettiva fenomenologica, in Che cos’è il cinema? (1958-1962) aveva
riflettuto sulle modalità con cui il cinema ci dà accesso al mondo25. In particolare,
analizzando The Invisble Man (L’uomo invisibile, 1933) di James Whale, Bazin pone la questione del cinema fantastico. Già altrove, il critico transalpino aveva affermato che la presenza di oggetti e figure fantastiche sullo schermo non solo non indebolisce la realtà dell’immagine, ma, al contrario, ne rappresenta la più valida giustificazione, poiché il fantastico, al cinema, è reso possibile solo dall’inequivocabile realismo dell’immagine fotografica. In quest’analisi del film di Whale, definisce ulteriorermente i termini del problema, sostenendo che l’invisibilità fantastica del protagonista è possibile solo perché gli spettatori sanno che si tratta di un’illusione contrapposta al mondo visibile, corporeo e condiviso, che essi conoscono e comprendono come reale. Ciò che è in gioco è non tanto la verosimiglianza del film, ma “the notion of a shared world or a shared set of ways of understanding and making sense of the world that are intrinsic to the filmic experience” (Rushton 2011: 59): dunque, come ha intuito Janet Staiger (1984: 109), per Bazin “cinema is alived experience, a dialectical and historical relation between films and perceiving subjects”.
Il tentativo di Sobchack di collocare una teoria dell’esperienza filmica dentro parametri fenomenologici è stato seguito da altri studi.
Elena Del Rio (1996) inquadra la questione del rapporto tra tecnologia cinematografica e ontologia sollevata dalla prospettiva fenomenologica occupandosi di un film, Speaking
Parts (Mondo virtuale, 1989) di Atom Egoyan, che si interroga sugli effetti prodotti dalle
tecnologie sui loro utenti. Dopo aver applicato la concezione della percezione incarnata (embodied) alle interazioni, mediate dallo schermo, tra i personaggi del film, Del Rio passa a considerare l’estensione del corpo dello spettatore attraverso/dentro le tecnologie. Come il film racconta, lo spettatore può ricorrere allo schermo come un mezzo per esporre o mascherare fragilità, sofferenza, lutto: nell’ambiente tecnologico sono messe in scena le condizioni ontologiche di corporeità, temporalità e mortalità.
Laura Marks (2000, 2002) offre un importante contributo allo studio fenomenologico del film, descrivendo l’esperienza filmica come un’interazione tattile tra film e spettatore. La studiosa contrasta la riduzione, operata dalla film theory, dell’esperienza filmica unicamente al senso della vista (con conseguente frammentazione dei sensi) e sviluppa quindi la la nozione di “haptic visuality”, intesa quale modalità tattile di vedere e
25
conoscere, in grado di coinvolgere più intensamente il corpo dello spettatore. L’interrelazione tra vista e tatto è anche uno dei concetti portanti dell’analisi di Jennifer Barker (2009). Recuperando le descrizioni della percezione e della soggettività sviluppate dalla fenomenologia esistenziale, Barker colloca il comportamento tattile in tre siti specifici del corpo dello spettatore: la pelle, la muscolatura e le viscere.
Nel suo secondo contributo fondamentale alla fenomenologia dell’esperienza spettatoriale del film, Vivian Sobchack (2004: 1) rilancia con forza il tema della “embodied and radically material nature of human existence and thus the lived body’s essential implication in making ‘meaning’ out of bodily ‘sense’”. Produrre un significato consapevole dai nostri sensi carnali è esattamente ciò che facciamo quando guardiamo un film. Al centro della riflessione della Sobchack c’è dunque il corpo vissuto (lived body), un concetto che non ha a che fare meramente con il corpo come oggetto astratto che appartiene sempre a qualcun altro, ma anche con il significato di essere “incarnato” (embodied) e vivere le nostre vite metamorfiche come “the concrete, extroverted, and spirited subjects we all objectively are” (Sobchack 2004: 1). I vari saggi che compongono il volume mirano a dimostrare la rilevanza dell’approccio fenomenologico per descrivere un ampio spettro di esperienze filmiche.