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La rimediazione di Jay D Bolter e Richard Grusin

Teorie mediologiche della spettatorialità digitale

2.3 La spettatorialità cinematografica nelle teorie mediologiche

2.3.1 La rimediazione di Jay D Bolter e Richard Grusin

Italia nel 2002), è l’affermazione di Marshall McLuhan, ne Gli strumenti del comunicare (1964), per cui il ‘contenuto’ di un medium è sempre un altro medium (per esempio, il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la stampa quello del telegrafo). La tesi dei due studiosi, a partire da questo assunto, è piuttosto nota: “un medium è ciò che rimedia. Un medium si appropria di tecniche, forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o di rimodellarli in nome del reale” (Bolter, Grusin 2002: 93), e la forza di quest’operazione tecno-socio-culturale varia in funzione del “grado di competizione tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione” (73). In tale prospettiva, in cui sembra che “tutte le forme di

mediazione siano in realtà rimediazione” (81), ciò che più rileva ai fini della nostra analisi

è che:

1) per spiegare la doppia logica dell’immediatezza e dell’ipermediazione secondo cui opera la rimediazione, Bolter e Grusin ricorrono all’esempio di un medium fittizio attinto dalla trama del film Strange Days (Kathryn Bigelow, 1994). Ci riferiamo al wire, medium sotto forma di casco, che, in fase di registrazione, si collega direttamente al cervello e consente di registrare le percezioni sensoriali di chi lo indossa, e, in fase di riproduzione, permette di ri-sentire e ri-provare le percezioni memorizzate. Come aveva già scritto Frezza (1996: 64-67, 2006: 277), ci troviamo di fronte a un “doppio vertiginoso, virtuale, del cinema digitale”, che i due studiosi statunitensi chiamano in causa perché illustra alla perfezione sia la logica dell’immediatezza, che opera affinché “il mezzo di comunicazione possa scomparire, lasciando l’utente solo con l’oggetto rappresentato” (Bolter, Grusin 2002: 30-31), sia la logica dell’ipermediazione, che “riconosce l’esistenza di atti di rappresentazione multipli e li rende visibili” (59). La metodologia analitica usata dai due mediologi americani evidenzia una proprietà delle culture filmiche del XX e XXI secolo, vale a dire la loro intrinseca capacità speculativa. I film, spesso prima e in maniera più convincente delle teorie formalizzate secondo i canoni delle scienze sociali, riflettono, nella forma narrativo-estetico-simbolica del linguaggio per immagini in movimento, sulle qualità intrinseche dell’esperienza spettatoriale, come proveremo a dimostrare nel cap. 6; 2) lo spettatore occupa una posizione privilegiata nei processi di rimediazione:

il reale è (...) definito secondo l’esperienza dello spettatore, un’esperienza che potrebbe provocare un’immediata (e dunque autentica) risposta emotiva. Le applicazioni digitali trasparenti cercano di ottenere il reale negando coraggiosamente l’esistenza della mediazione; le applicazioni digitali ipermediali cercano il reale moltiplicando la mediazione quasi all’infinito nel tentativo di ricreare una sensazione di completezza (79).

Le logiche dell’immediatezza e dell’ipermediazione possono essere comprese solo se ci si pone dal punto di vista, epistemologico e psicologico, di chi fruisce dei media: infatti, l’immediatezza rimanda alla trasparenza e all’autenticità dell’esperienza (della realtà reale), mentre l’ipermediazione riconduce all’opacità ma, allo stesso tempo, all’autenticità dell’esperienza (della realtà mediale).

3) ragionando in questi termini di rimediazione, i due autori individuano nei processi di rimediazione una costante della cultura occidentale, che preesiste all’avvento dei media digitali. La loro riflessione si colloca pertanto in una posizione più vicina ai paradigmi della continuità che a quelli della rottura. In ogni caso, essi colgono nella forma più piena la complessità dei processi di rimediazione, sostenendo che “gli eventi della nostra cultura mediata sono costituiti da una combinazione formata da soggetto, media e oggetti, (...) che non può sussistere nelle sue forme disaggregate” (85) e, pertanto, “i mezzi di comunicazione funzionano come oggetti all’interno del mondo: all’interno di sistemi di scambio linguistici, culturali, sociali ed economici” (86). Per rafforzare questa tesi, i due studiosi si rifanno Erkki Huhtamo (1995: 171) e alla sua concezione della tecnologia come una seconda natura, “a territory both external and internalized, and an object of desire. There is no need to make it transparent any longer, simply because it is not felt to be in contradiction to the ‘authenticity’ of the experience”. La tecnologia si fa mondo, immettendo gli oggetti mediali, attraverso plurimi atti di rimediazione, nel circuito sociale; tali oggetti sono reali, perché frutto della produzione simbolica incessante che unisce inestricabilmente soggetti, oggetti e media, e che presiede agli atti quotidiani con cui i soggetti (gli spettatori/utenti/fruitori) prendono “possesso” dell’ambiente circostante e conferiscono ad esso un senso: “la mediazione è la rimediazione della realtà perché i media stessi sono reali e perché l’esperienza dei media è il soggetto della rimediazione” (Bolter, Grusin 2002: 88);

4) Remediation dedica uno spazio esplicito ai processi di rimediazione che coinvolgono direttamente il medium cinematografico. In un’epoca in cui il processo di digitalizzazione completa del ciclo filmico è molto lontana, Bolter e Grusin rinvengono nel ricorso dell’industria hollywoodiana all’editing digitale un tangibile “desiderio d’immediatezza” (46). Nell’uso delle tecniche digitali da parte degli studios hollywoodiani, gli autori leggono pure il tentativo di evitare il pericolo che i media digitali trasformino la struttura lineare del film; “questo tentativo dimostra che la rimediazione opera in entrambe le

direzioni: gli utenti dei vecchi media come film e televisione possono cercare di appropriarsi e rimodellare la grafica computerizzata, così come gli artisti di grafica digitale possono rimodellare cinema e televisione” (76). Remediation è disseminato di esempi che dimostrano come varie forme di rimediazione investano direttamente la spettatorialità cinematografica. È il caso, in primo luogo, del “rimodellamento che avviene all’interno dello stesso medium, (...) un tipo particolare di rimediazione [che] (...) si basa sugli stessi motivi di omaggio e competizione (...) che appartengono anche ad altre forme di rimediazione” (77): l’esempio offerto dai due autori è quello di Strange Days che cita

Vertigo (La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958). La citazione, sul cui

portato socio-estetico ci concentreremo più avanti nell’analisi delle forme di remix digitale applicate al cinema (cap. 5), presuppone una competenza visiva, emotiva e conoscitiva del pubblico, in grado di rilevarne la presenza, la forma espressiva, il registro retorico (nostalgia, gioco, riscrittura, parodia, ecc.), secondo una logica di potente interazione tra il film e lo spettatore incorporata prima dalla cultura e del cinema postmoderni10 e poi, in

modalità radicalmente differenti, dalle contemporanee remix cultures (Lessig 2009, Navas 2012, Campanelli 2014, 2015). Analogamente, per riflettere sulla rimediazione come

repurposing, anni prima dell’esplosione del fenomeno dei cinecomic, i teorici statunitensi

ricorrono all’esempio della trasposizione di un fumetto in film con annesso merchandising (Bolter, Grusin 2002: 96-97), mentre la rimediazione dello sguardo di genere (gendered

gaze) è analizzata a partire dal noto studio della teorica femminista Laura Mulvey (1975) e

alla successiva rielaborazione (1989), in cui sostanzialmente si afferma l’identificazione del punto di vista nel cinema classico con lo sguardo maschile (Bolter, Grusin 2002: 109- 116);

5) le analisi riservate da Bolter e Grusin alla rideterminazione della forma (e dunque della

spectatorship cinematografica) ad opera dei media digitali rappresentano un punto di

riferimento per la mediologia successiva. Nel capitolo esplicitamente intitolato “Cinema” (177-189), sono due le acquisizioni teoriche fondamentali per la letteratura mediologica successiva. In primo luogo, essi ascrivono al cinema d’animazione la potenzialità di rimediare la grafica computerizzata, garantendo, in questo modo, ai film tradizionali di

10 La relazione interazionale tra autore/i, narrazione filmica e spettatori (processi cognitivi, partecipazione

emotiva, competenze ermeneutiche e conoscenze) nel cinema e nella cultura postmoderni è stata oggetto di una ricca riflessione teorica di stampo filosofico, estetologico, semiotico e sociologico. Per approfondimenti si rinvia, oltre che ai fondamentali Jameson 1989 e Lyotard 2002, almeno a Friedberg 1993, Negri 1996, Buccheri 2000, Mazierska, Rascaroli 2003, Jullier 2006, Chiurazzi 2007, Roberti 2009, Selvaggi 2012,

sopravvivere alla ricodificazione digitale dei propri contenuti e dispositivi. Seppure con alcuni vistosi limiti – rinvenibili, per esempio, allorché si rispolverano vetusti pregiudizi ampiamente superati sia negli studi sociologici che nei film studies, affermando che la “ferocia” con cui il cinema d’animazione “cannibalizza e trasforma tutto ciò che tocca” viene socialmente “mediata e perdonata, perché il genere non è considerato ‘serio’, e si ritiene destinato a un pubblico di giovanissimi” (177) – Bolter e Grusin intuiscono la ridefinizione dello statuto ontologico del cinema, che sarà successivamente compiutamente teorizzato da Manovich (v. par. successivo). In secondo luogo, gli autori studiano Vertigo quale esempio paradigmatico del potere del cinema di anticipare la doppia logica della rimediazione propria dei media digitali. Attraverso un sapiente uso delle tecniche cinematografiche - soggettiva, zoom, alternanza dei punti di vista - Hitchcock stimola lo spettatore adottando la trasparenza tipica dello stile hollywoodiano classico (logica dell’immediatezza) ma, contestualmente, rende il pubblico consapevole che “il film è un medium” (181) (logica dell’ipermediazione), rompendo con le leggi della trasparenza, nel momento in cui utilizza effetti disturbanti e innaturali (in particolare nelle sequenze in cui il protagonista Scottie / James Stewart soffre di vertigini). Questa capacità di muoversi fra immediatezza e ipermediazione sembra accompagnare, per gli studiosi nordamericani, l’intera storia del cinema dalla sua nascita – i primi film, seguendo Gunning (1989, 1995), sono vissuti dal pubblico sia come narrazioni trasparenti che dinamizzando l’immagine la riconducono all’esperienza quotidiana, sia come “numeri” in spettacoli popolari composti da più “attrazioni” che garantiscono una forma d’esperienza ipermediata – fino ai vari stadi della sua forma culturale con cui il cinema ha reagito a quelli che, come abbiamo visto, lo stesso Grusin definirà “mediashock”: in particolare, ricorrendo ancora a Huhtamo (1995), i due mediologi affermano che “l’introduzione di nuove tecnologie di proiezione permise di ricostruire le atmosfere del cinema d’attrazione” (Bolter, Grusin 2002: 188), negli stessi anni Cinquanta in cui Hithcock accentuava in diversi film l’effetto di vertigine (fondato sull’ipermediazione) ricorrente sia nel cinema hollywoodiano che nei film delle origini (Gunning 1995: 122). In generale, dunque, si può concludere che tutti i film che insistono sulla saturazione sensoriale dello spettatore attraverso una ricca stimolazione audiovisiva e tattile, e soprattutto quelli creati, riprodotti e consumati con mezzi digitali, si fondano su una dinamica di ipermediazione la cui genesi e modulazione riposano sulle cognizioni ed emozioni dello spettatore:

la meraviglia e la sorpresa richiedono la consapevolezza del medium. Se il medium scomparisse davvero, coerentemente con l’obiettivo della logica della trasparenza, lo spettatore non potrebbe più meravigliarsi, perché non sarebbe conscio della presenza del medium (...) La sorpresa viene solo dopo, quando il pubblico comprende di essere stato preso in giro: la sorpresa richiede ipermediazione, e così la doppia logica della rimediazione è completa (Bolter, Grusin 2002: 189).

A sette anni da Remediation, Jay D. Bolter torna ad occuparsi, nel saggio Transference

and Transparency (2006), della rimediazione del cinema, in uno scenario completamente

modificato dalla pervasiva affermazione delle tecnologie digitali in tutte le fasi del ciclo di produzione e consumo delle immagini in movimento. Ribadendo il concetto di competizione e omaggio tra cinema e media digitali come la tv interattiva e i videogame, Bolter ritiene che questi ultimi offrano nuove potenzialità narrative che il cinema rifiuta o rielabora secondo i suoi linguaggi storici. Si crea, perciò, una situazione paradossale, perché il cinema “constructed itself (ironically) as a popular, cultural rearguard” (Bolter 2006: 14), rinnegando la sua costitutiva forma culturale aperta al cambiamento radicale (cfr. infra, cap. 1). Tuttavia, chiarisce Bolter, il cinema intrattiene con i media digitali una relazione ambivalente di rimediazione. Per quanto riguarda l’incorporazione delle tecnologie digitali, lo studioso distingue tra l’animazione contemporanea, che sembra adottare un uso della grafica computerizzata tridimensionale in grado di offrire un’esperienza fruitiva radicalmente differente rispetto all’animazione 2-D, e, invece, una serie di film (Titanic, 1997, Terminator 2: Judgment Day, Terminator 2 – Il giorno del giudizio, 1991, la trilogia del Signore degli Anelli, 2001-2003), che oscillano tra l’esibizione e l’occultamento di tecniche di manipolazione algoritmica (come il

morphing). Questa posizione rivela l’incomprensione del fenomeno di vasta

digitalizzazione dei fondamenti (contenuti, dispositivi, ambienti) del medium filmico, che porterà a ridefinirne l’ontologia (cfr. infra, par. 2.4). Più interessanti, pertanto, risultano le osservazioni di Bolter sulla capacità del cinema di narrativizzare la “cyberphobia”, un processo che, appunto paradossalmente, va di pari passo con l’adozione delle tecniche di

computergraphics sia nel cinema d’animazione sia nei film live action. Si tratta, anche qui,

di un’ulteriore prova delle capacità del cinema di produrre teoria, attraverso i film, mettendo in discussione lo statuto mediale del cinema rispetto alla Realtà Virtuale ed ambienti immersivi simili, che ne destabilizzano gli assetti consolidati11. Analogamente, il 11 “Strange Days assures us as filmgoers that the apparent immediacy of new media is a dangerous illusion,

an unnecessary addiction” (Bolter 2006: 19); “The Matrix manages to combine both reactions to digital technology (both appropriation and critique) within a single representational scheme. The film embraces computer graphics and celebrates a visual style that depends on computer compositing (...) On the other

cinema rimedia i linguaggi interattivi dei videogiochi, all’interno dei confini dei tradizionali apparati rappresentativi, producendo racconti dall’elevata complessità, come

Memento (Christopher Nolan, 2000). Anche questa è una strategia, che approfondiremo in

uno dei prossimi capitoli (cfr. par. 4.2.1.6), attraverso cui il cinema rielabora il “mediashock” dell’affermazione culturale ed economico-industriale dei videogame, fabbricando figure dell’immaginario in grado di narrare gli effetti che ne derivano sulla condizione spettatoriale. In questi film, secondo Bolter (2006: 21-22), “interactivity is allegorized as part of the danger of digital media. The emphasis is on the danger of creating a virtual reality that looks and feels like the physical world, and interactivity is assumed to be part of the illusion of transparency”. Infine, rispetto al DVD, per Bolter, il cinema assume un atteggiamento sfuggente: da un lato, ne intuisce e mette parzialmente a regime le potenzialità (visione sinottica, fruizione frammentaria per capitoli, scelta di colonne sonore e finali alternativi, extra), dall’altro tali potenzialità rappresentano, sostanzialmente, modalità di fruizione minoritarie rispetto a formule di visione standardizzate che, secondo Bolter, non inficiano la continuità strutturale del racconto, esattamente come nella visione in sala. L’analisi di Bolter, anche in questo caso, si focalizza su un film-esempio, Time (Mike Figgis, 2000), attraverso cui il cinema rielabora il “mediashock” del DVD, sia incorporandone parzialmente le funzionalità nell’alveo della propria struttura standard (attraverso una quadripartizione dello schermo), sia sdoppiandosi tra versione filmica tradizionale e versione home video navigabile con opportunità innovative di fruizione per l’audience (il DVD del film, consentendo allo spettatore di scegliere autonomamente l’audio di una delle quattro scene che si svolgono contestualmente sullo schermo, gli permette di identificarsi con il punto di vista del regista e del sound editor). Pur restando sostanzialmente ancorata alle teorie della rimediazione, per cui il cinema soggiace alle logiche di resistenza e competitività nella relazione con i media digitali (Realtà Virtuale, videogiochi, DVD), l’analisi di Bolter valorizza la funzione delle culture filmiche di affrontare questioni teoriche inerenti la spettatorialità cinematografica in metamorfosi.

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