L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche
4.2 Seconda sezione Pratiche della spettatorialità postcinematografica
4.2.1 L’engagement delle audience nell’era del social Web 1 Dov’è il cinema?
4.2.1.6 La natura sociale dell’esperienza mediale del film
come l’esperienza filmica si estende in momenti di elaborazione collettiva e comunitaria: l’acquisto di merchandising, la frequentazione di parchi a tema e soprattutto la rete di conversazioni, in presenza ma soprattutto online, in cui si estrinseca quella continua elaborazione cognitiva ed emotiva delle immagini in movimento viste (Burgin 2004). La percezione dell’importanza del discorso sociale intorno al film, sviluppato principalmente online, è comune a produttori, creativi e pubblicitari, che pongono queste interazioni sociali al centro sia della progettazione del marketing sia delle strutture narrative.
Storicamente, le prime comunità online si costituiscono per far fronte alla complessificazione narrativa di alcuni film-soglia. Queste opere, definite puzzle film (Buckland 2009), esibiscono un coefficiente di stratificazione dell’intreccio e della fabula che è di estremo interesse per lo studio dei rapporti tra spettatorialità e forme del racconto. Infatti, film come Lost Highway (Strade perdute, 1997), The Sixth Sense (Il sesto senso, 1999), Memento (2000), The Eternal Sunshine of a Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello, 2004), Inception (2010) e tante altre, sono permeati da un complex storytelling che chiama gli spettatori a rispondere a una sfida ermeneutica di grande portata e gli studiosi del cinema a comprenderne le profonde ragioni mediologiche. Come sostiene Laura Mulvey (2006), la produzione di opere caratterizzate da tale complessità va letta alla luce dell’evoluzione delle forme di consumo filmico extra-sala. Si conferma dunque ancora una volta funzionale la chiave di lettura di quei sociologi della comunicazione (Abruzzese 1973, 2006, 2007, Frezza 1996, 2006, 2015, Brancato 2001, 2003) che hanno colto nell’intelligenza del pubblico cinematografico un motore costante dell’evoluzione della forma culturale del cinema. In altri termini, usufruendo di dispositivi come il VCR e più tardi i lettori DVD e Blu-Ray, gli spettatori hanno perfezionato le proprie competenze esegetiche, consentendo agli autori di proporre storie sempre più complicate che, con gli ulteriori spazi sociali offerti dal Web per associare capacità ermeneutiche un tempo isolate, possono essere oggetto di una decodifica collettiva e globale. Proprio intorno a Memento, che organizza la propria narrazione intorno a temi cruciali dell’esperienza mediale quali il ricordo e il supporto, nascono le prime comunità interpretative online, che sfruttano soprattutto i blog per fornire ipotesi, suggerimenti e analisi per orientare la lettura del film. Intorno ad un altro film di Christopher Nolan, Inception, si è sviluppata una massiccia attività del fandom, che, vista l’estrema opacità della timeline della storia, si è esplicata nella produzione di un gran numero di infografiche, con l’obiettivo di dissolvere le asperità nella comprensione della struttura temporale del racconto attraverso la
visualizzazione delle informazioni44. Le comunità interpretative, di cui abbiamo a lungo
discusso nel cap. 3, sono il fenomeno più antico della dimensione sociale dell’esperienza mediale del film. Un altro fenomeno centrale che pertiene a questa dimensione sociale è il “social film” (Lisi 2013). Questa categoria può essere riferita a due tipologie di prodotti. In una prima accezione, si possono definire social film alcuni oggetti mediali, che, sebbene concepiti come narrazioni pubblicitarie, vantano una insindacabile natura cinematica che si esplica soprattutto sui social network. Un esempio di questa classe di prodotti è The
Inside Experience (2011), promosso da Intel e Toshiba. Si tratta di una campagna di
marketing estesa, identificabile come film in virtù dell’adozione di convenzioni cinematografiche e dell’adesione alla formula narrativa del thriller, grazie anche alla presenza del regista e attore D.J. Caruso. Il punto di partenza della narrazione è la vicenda di Christine, una donna intrappolata in un luogo imprecisato, munita unicamente di un notebook Intel e di una connessione wi-fi per comunicare con l’esterno e provare a scappare. Sulla base di questa traccia, le audience sono chiamate in causa attraverso vari escamotage che sfruttano diversi canali: la campagna comprende giochi per computer, giochi di ruolo e ARG. L’epicentro dell’azione comunicativa sono le opzioni del social network Facebook, dalla cui piattaforma partono le strategie di engagement delle audience, costituite dai cosiddetti “nativi digitali” (un pubblico che va dai 18 ai 45 anni).
The Inside, pur utilizzando perifericamente altri media sociali (YouTube e Twitter),
costruisce la relazione mediale contando sull’avanzata alfabetizzazione dei pubblici. Nonostante questo patchwork di media, The Inside mantiene una verosimiglianza temporale, poiché tutte le interazioni sui social media si svolgono nell’arco di undici giorni dell’estate 2011. La sensazione di un’interazione real-time è fonte di grande eccitazione per le audience, curvando l’esperienza spettatoriale verso una stimolazione sensoriale ancor più intensa. Se la componente della liveness individua qualità proprie dei media digitali in The Inside, il suo approccio alla narrazione è di tipo squisitamente cinematico, poiché esso adotta varie convenzioni di un genere filmico di grande tradizione, il thriller, declinato attraverso le pulsanti clip interattive diffuse sui social network. Gli utenti possono lasciare, proprio attraverso i feed di Facebook, una traccia delle loro attività che resta disponibile per altri. La metafora più adatta a spiegare questa dimensione spettatoriale è quella dell’impollinazione mediale: concepito per interagire con diverse tipologie di contenuto, come un ape con un fiore, lo spettatore crea un nettare
narrativo attraverso l’esperienza mediale, che può allora diventare miele da consumare per altri spettatori. Un aspetto controverso di progetti come The Inside è che, proprio nel reticolo di oggetti mediali fruiti in un mondo finzionale, sono impiantate tutte le tecniche per estrarre dati anche sensibili sui consumatori per usarli in campagne di marketing sempre più personalizzato, in quella che è definita, da van Dijk (2013), una società commercializzata online. In ultima analisi, l’elemento di più stretto interesse di questo progetto è che il social film, nel caso discusso, si configura come un processo mediale in grado di consentire diversi livelli di engagement nelle audience, poiché i livelli di partecipazione sono liberamente definibili dagli stessi spettatori modulando il loro accesso ai vari nodi che compongono la rete mediale della narrazione. Inoltre, analogamente ad altri artefatti culturali digitali, anche gli oggetti mediali (pagine Facebook, canali YouTube, account Twitter, website ufficiali, ecc.) di questa rete sono caratterizzati da un’iper-transitorietà, tanto che, a pochi giorni dalla fine del progetto, le aziende promotrici della campagna, Intel e Toshiba, hanno rimosso molti dati.
In una seconda accezione, per “social film” intendiamo quei progetti filmici, come Life in
a Day (2011), Britan in a Day (2012) e Italy in a Day (2014), costruiti direttamente
ricorrendo a prodotti confezionati dalle audience, e, perciò, espressione della cultura partecipativa dei media (Jenkins 2007). Il contributo offerto volontariamente dai pubblici di questi progetti è l’ultima testimonianza, in ordine cronologico, dei progetti che soddisfano la necessità di auto-rappresentazione degli spettatori, un tempo assolta da artefatti come gli home movies, realizzati con cineprese amatoriali, e i filmati realizzati con le telecamere analogiche e digitali di uso domestico (Zimmerman 1995, Buckingham, Willett 2009). Analizzando più da vicino i film realizzati, emergono subito due dati: il primo concerne la dimensione popolare della partecipazione ai tre progetti (80mila video per Life in a Day, 11mila circa per Britain in a Day e circa 45mila per Italy in a Day), il secondo le partnership istituzionali stipulate dai produttori (Life in a Day con YouTube,
Britain in a Day con la BBC, Italy in a Day con la Rai). Un terzo aspetto di fondamentale
importanza di questi progetti è, come detto, il ricorso al contributo produttivo del pubblico. Siamo in presenza qui di un crowdfunding di diversa natura rispetto a quello normalmente praticato: se quest’ultimo è finalizzato alla raccolta di risorse economiche, per i progetti “in a Day” si chiede alle audience un contributo in termini creativi. Si potrebbe qui rinvenire un test di quei processi di co-creazione già visti in precedenza (Banks, Potts 2010), favoriti dall’accesso a piattaforme di distribuzione globale degli
audiovisivi come YouTube (Delwiche, Henderson 2012). Se però il coinvolgimento delle audience si limitasse a fornire materiale, in un caso tipico di engagement top-down, ci ritroveremmo in una situazione in cui la galassia del cinematico verrebbe apparentemente inglobata e riconfenzionata dal filmico. In pratica l’esuberanza della produzione
grassroots è soggetta ad un processo di normalizzazione operato dai produttori, che
controllano il momento dell’invito a partecipare, dell’archiviazione dei contributi, della selezione degli stessi e infine del montaggio dei video che hanno superato le precedenti selezioni. Inoltre, la presenza di media companies impegnate a trarre da questi progetti un profitto solleva numerosi dubbi sullo sfruttamento del lavoro del pubblico che, pur costituendo la spina dorsale del prodotto finale, non viene retribuito. Senza assumere necessariamente un punto di vista negativo su questi progetti, probabilmente il modo migliore per coglierne la portata è il modello organizzativo che li sostiene e ne definisce la struttura mediologica. Come auspicavano Jenkins e Carpentier (2013), onde evitare di svuotare la locuzione “cultura partecipativa”, bisogna circoscrivere l’analisi studiando con attenzione come, nei singoli contesti, si dispongono i rapporti tra mainstream e grassroots, concentrandosi su “contradictions between the emancipatory aspects of giving voice to an ‘active’ audience and the attempts of media professionals to orchestrate, canalize, and manage” (Carpentier 2003: 426). Le produzioni sono intervenute in questi tre progetti stabilendo, in ogni caso, dei criteri di ammissibilità. I due progetti anglosassoni hanno stabilito alcuni criteri minimi di accettabilità e, inoltre, hanno fornito agli aspiranti videomaker un pugno di filmati didattici su come girare nel modo migliore. Apparentemente il team produttivo italiano, guidato dal regista già Premio Oscar Gabriele Salvatores, ha lasciato maggiore libertà, senza fornire precise indicazioni, salvo riservarsi una clausola di salvaguardia che ne ampia a dismisura i poteri di intervento: sul sito web ufficiale, ancora online a gennaio 2016, si legge infatti: “Sarà Gabriele Salvatores a decidere quali video (o spezzoni di video) comporranno il film. Li sceglierà sulla base di valori concreti: se il suono e la qualità dell'immagine sono tecnicamente accettabili e i contenuti appropriati, ma anche sulla base della loro unicità, creatività, bellezza e veridicità”45. Un ulteriore fattore di criticità che contraddistingue tutti e tre i progetti è la
tipologia del coinvolgimento del pubblico, che è limitato all’invio di footage senza nessun inclusione nelle scelte di editing (a differenza di quanto avviene in altri film collettivi
tentativi di raccogliere e condividere storie sulla vita quotidiana e auto-rappresentazioni sembrerebbe funzionare bene grazie alle possibilità e alle pratiche delle culture partecipative e al crowdsourcing. Le tensioni generate dalla dialettica tra spontaneità amatoriale e il potere e i saperi delle istituzioni mediali possono essere risolte nel loro punto d’incontro. Esplorando criticamente le dinamiche di produzione dei tre film “in a day”, Ashton (2015), riprendendo Müller (2009), introduce il discorso qualitativo per valutare tutti i materiali di assistenza ai contributori, allestiti per prefigurare e incanalare i potenziali contributi e la creazione di contenuto. Tuttavia, analizzando i commenti degli utenti negli spazi di dialogo concessi dai produttori, si può scorgere nei pubblici una decisa propensione alla negoziazione di pratiche e discorsi. In particolare in numerosi dei commenti postati online si mette in radicale questione il montaggio, sostenendo che l’editing arbitrario delle media companies non consente una reale auto-rappresentazione degli spettatori/contributori, in quanto è un palese tentativo di limitare il potenziale creativo grassroots. Proprio la capacità di riflettere criticamente sul proprio operato e sul rapporto con l’industria mainstream, rende il social film uno dei luoghi mediali più significativi per comprendere la spettatorialità postcinematografica. Chiamati a contribuire a film collettivi a cui partecipano decine di migliaia di persone, gli spettatori si interrogano sulle modalità e sul grado di autonomia del proprio contributo, nonché sulla destinazione finale che il girato assume. Nel web sociale gli spettatori non solo interagiscono direttamente con gli interlocutori mainstream del progetto, ma si confrontano anche tra di loro condividendo opinioni, critiche, idee sul loro stato di produttori/consumatori della cultura mediale contemporanea. In pratica, più che impadronirsi delle energie cinematiche dei pubblici, i film in questione sollevano un dibattito, tra le audience stesse, riguardo il loro potere negoziale, il loro potenziale creativo, la gerarchia ormai vetusta in base alla quale esse devono sottostare alle indicazioni delle media companies. L’acquisizione della consapevolezza della propria forza culturale da parte degli spettatori è un processo di assoluta rilevanza, che galvanizza e infiamma lo scenario mediale, aprendo nuove strade per l’espressione della co-creazione. Come aveva scritto Paul Atkinson, è fondamentale non solo studiare le forme estetiche digitali, ma “also understand ethnographically how it is read by members of the social world or culture in question” (Atkinson 2005).
Tutti gli esempi di social cinema che abbiamo trattato evidenziano come un sostrato sociale sia il terreno fertile su cui impiantare, alimentare e monitorare la crescita dell’interazione tra le audience. Le esperienze mediali di narrazioni cinematiche estese
rappresentano, in questa prospettiva, un ulteriore spostamento dei pubblici verso universi finzionali segmentati, che rappresentano una delle strategia del transmedia storytelling progettato dalle media companies, e verso la contaminazione tra narrazione e pubblicità (come mostra The Inside). La maggior parte di queste trasformazioni, concettualmente esemplificate dalla categoria di second screen, riguardano primariamente l’esperienza televisiva, anch’essa riconfigurata in profondità dalle estensioni cinematiche e informative che, tramite gli schermi dei tablet e degli smartphone, trasformano la spettatorialità tradizionale in una spettatorialità dinamica, in grado di orientarsi tra flussi di informazione frammentati, secondo una logica già introiettata dai telespettatori della tv commerciale con lo zapping e lo zipping (Abruzzese, Miconi 1999). La social tv sviluppa, in una dimensione di elevata interazione con i pubblici e integrazione con le culture partecipative, la comunicazione frammentaria già esperita dalle audience televisive con le formule del palinsesto delle tv commerciali, programmaticamente pensate per l’alternanza tra contenuti televisivi (intrattenimento, informazione, live show, film, ecc.). L’esperienza filmica, solo in una seconda fase e, al momento, con formule mediali ancora in via di definizione, perviene alle stesse sperimentazioni, confermando in ogni caso il protagonismo assoluto delle audience sullo scenario contemporaneo. Anche rispetto alle esperienze di social film, sono le due qualità essenziali della spettatorialità postcinematografica – la dimensione performante e la dimensione sociale dell’esperienza mediale – a influenzare le scelte delle media companies, definitivamente convinte che un
engagement più efficace, nell’era del social Web, debba necessariamente contemplare
estensioni dell’esperienza filmica che la ridefiniscano in senso mediale, ovvero partecipato, sociale, esteso, sensorialmente appagante attraverso più media. La narrazione transmediale, quindi, così dispiegata attraverso una molteplicità di oggetti mediali web-
based, tra social network e website ufficiali, slabbra i confini del tradizionale storytelling
cinematografico e televisivo.
4.2.1.7 La narrazione nell’esperienza mediale: principi di strutturazione e