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L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche

4.2 Seconda sezione Pratiche della spettatorialità postcinematografica

4.2.2 Le forme del consumo postcinematografico

4.2.2.2 La proiezione digitale e la socializzazione della programmazione

4.2.2.3.3 Dopo Avatar L’economia del blockbuster

La promessa di una qualità esperienziale radicalmente nuova si rivela ben presto un

50 Cfr. lo spot per il mercato inglese della prima 3D Led TV Samsung: https://www.youtube.com/watch?

boomerang per le produzioni 3D. Come ricorda Desowitz (2011), è lo stesso Cameron a mettere in guardia da un uso superficiale e disattento della stereoscopia. Tuttavia, una serie di film 2D artificialmente virati in 3D invade il mercato, attirandosi le critiche del pubblico e degli addetti ai lavori, come operazioni meramente rivolte ad accodarsi alla moda imperante per mere finalità commerciali (è il caso, per esempio, di Alice in

Wonderland, Alice nel paese delle meraviglie, 2010 di Tim Burton).

Nonostante questo indubbio fenomeno, il 3D diventa parte di ciò che è stata definita “blockbuster economy” (Epstein 2010), attestandosi come standard soprattutto dei

cinecomics e dei superhero movies. Naturalmente vi sono usi interessanti della

stereoscopia nell’ambito del cinema indipendente e soprattutto del documentario (come

Cave of Forgotten Dreams, 2010, di Werner Herzog), ma

l’uso più comune della proiezione 3D riguarda l’espansione dei media franchise esistenti, con la finalità di confezionare prodotti innovativi in grado di riportare gli spettatori nelle sale, in virtù di specifiche innovazioni tecnologiche e/o narrative. Quest’obiettivo può essere raggiunto in due modi: attraverso la produzione di sequel di saghe esistenti oppure attraverso la distribuzione di vecchi film mai usciti prima in 3D. Il reboot individua una pratica produttiva distinta dall’adattamento, definibile come una speciale tipologia di remake in cui si prende un personaggio o una storia esistente e la si re-immagina. A differenza del remake e della riedizione, che sono progettati anche per solleticare le inclinazioni nostalgiche degli spettatori-fan del film originario (con il rischio di tradursi in delusioni se è il rifacimento non ne è all’altezza), il reboot può essere considerato come il tentativo di ri-raccontare storie radicate nell’immaginario popolare adeguando l’apparato tecno-narrativo al mediascape e alla cultura contemporanei. Il reboot è inoltre una costante della storia del cinema americano e, di conseguenza dell’esperienza spettatoriale: come nota Anne Friedberg, con l’introduzione del sonoro, molti film muti vennero redistribuiti con una posticcia colonna sonora. Gli studios ricorrono al reboot, dunque, per rinfrescare il patrimonio simbolico, adeguandolo allo scenario socioculturale e/o alle mutate condizioni del mediascape. Nella misura in cui suggerisce un azzeramento della storia e della memoria collettiva (Proctor 2012), segnando una sorta di “anno zero” per un franchise, il reboot è pensato quindi più per alcune coorti generazionali, che, per ragioni anagrafiche, non hanno la completa consapevolezza della passata stratificazione narrativa intorno a quella storia o a quel personaggio. Nello stesso tempo esso offre maggiore libertà creativa a registi e sceneggiatori emergenti, che possono sperimentare, nei limiti stabiliti

dalla negoziazione con le case produttrici e distributici, senza i pressanti vincoli del mondo diegetico già dato. Il 3D rappresenta inoltre una sufficiente motivazione per rimettere mano ai franchise del passato (com’è accaduto in un considerevole numero di casi, da Spiderman a Godzilla, da King Kong a Halloween), oppure per proiettare in 3D film distribuiti in precedenza in 2D (com’è accaduto, tra i molti altri, con L’ultimo

imperatore, 1987-2013, e con molti classici Disney).

In alcuni casi, la riedizione in 3D ha comportato una sorta di restauro digitale della pellicola e aggiunta di effetti speciali, con conseguenti polemiche, soprattutto degli archivisti e dei cinefili, circa il rispetto della struttura estetica originale (intesa come

texture, palette di colori, proprietà fotografiche dell’immagine). In realtà, nella maggior

parte delle riedizioni 3D, gli interventi sono stati limitati a semplici ritocchi, sfruttando l’aggiornabilità dei media digitali (su cui vedi par. 4.2.3) e le logiche della updating

culture contemporanea.

È ancora James Cameron ad offrire una convincente interpretazione della funzione socioculturale delle riedizioni in 3D per i pubblici contemporanei: secondo il regista, poiché la visione nelle sale è un atto che si radica nella memoria filmica generazionale, le riedizioni garantiscono a chi per ragioni anagrafiche si è perso l’uscita originale, di provare sensazioni analoghe a quelle degli spettatori dell’epoca. In questo senso, le riedizioni, garantendo ai film una seconda vita, stimolano un’esperienza spettatoriale di tipo pedagogico-memoriale, in quanto consentono alle audience, specie più giovani, di essere alfabetizzate alla visione in sala di alcuni film e, contestualmente, armonizzano, almeno in parte, le memorie generazionali differenziate, consentendo una spettatorialità intergenerazionale distribuita nel tempo. Tuttavia è evidente che le riedizioni alimentano anche un’esperienza filmica nostalgico-affettiva, se prese in considerazione dal punto di vista delle generazioni che, assistendo pure alla prima edizione del film, approfittano della riedizione per produrre una performance emozionale-memoriale, che – è bene chiarirlo – non si conclude in un mero ricordo della visione, ma si dispiega a più livelli come memoria del moviegoing (ricordo delle circostanze concrete dell’atto di recarsi in sala), memoria culturale (reazioni, critiche, commenti, atteggiamenti verso il film), memoria narrativa (oggetti, personaggi, scene, sequenze), memoria sociale (distinta per classi, gruppi sociali, generi, appartenenze politiche) e, infine, una memoria individuale (pensieri, stati d’animo, momenti, narrazioni dalla biografia individuale). A differenza dei cinefili e dei restauratori che si sono posti il problema del rispetto della struttura estetica originaria,

per Cameron la riedizione è primariamente un evento socioculturale che deve mirare a consentire agli spettatori più giovani un’esperienza puramente filmica (e non filmico- cinematica, come accade con il DVD, o squisitamente mediale, come accade con i dispositivi portatili), anche a costo di avvicinarsi alle loro modalità d’esperienza aggiornando il film con un restyling digitale, com’è accaduto con Titanic (1997), tornato nelle sale in 3D nel 2012. Questa scelta discende da una precisa politica di engagement che privilegia pubblici nuovi a scapito delle re-visioni di pubblici affezionati, a cui anzi, normalmente, gli interventi massicci sulle precedenti edizioni provocano quasi sempre malumori e diffidenze (è quanto accaduto, tra la comunità di fan di Star Wars quando Lucas ha annunciato le riedizioni in digitale e poi in 3D dei sei capitoli della saga: cfr. Brooker 2002, Tryon 2012).

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