L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche
4.1 Prima sezione Breve introduzione alla sociologia dell’esperienza mediale
4.1.2 L’esperienza filmica
4.1.2.1 Una teoria generale dell’esperienza filmica (Casetti)
Rifacendosi implicitamente a Simmel e Benjamin, in apertura del suo fondamentale saggio, programmaticamente intitolato Filmic Experience, Francesco Casetti (2009b) chiarisce subito i due significati da dare al termine “esperienza”: come “fare esperienza” (esporci a qualcosa che ci sorprende e ci cattura) e come “avere esperienza” (l’atto con cui si rielabora quest’esposizione in conoscenza e competenza). Allora, l’esperienza filmica si può definire come “both that moment when images (and sounds) on a screen arrogantly engage our senses and also that moment when they trigger a comprehension that concerns, reflexively, what we are viewing and the very fact of viewing it” (Casetti 2009b: 56). Così prospettato, il concetto di esperienza filmica comprende sia la visione, sia l’elaborazione culturale tanto del contenuto quanto delle modalità con cui lo spettatore si relaziona al film, rendendo di fatto obsoleti i paradigmi della ricezione e della mera interpretazione. Perché si abbia esperienza filmica occorre che vi sia un’eccedenza, in grado di stimolare i nostri sensi rompendo la monotonia di ciò che diamo per scontato, e un riconoscimento, attraverso cui possiamo manipolare, cognitivamente ed emotivamente, quanto abbiamo percepito e ridefinire noi stessi e l’ambiente che ci circonda. Casetti avanza quindi tre ragioni essenziali per difendere la centralità dello studio dell’esperienza per i Film Studies: 1) lo studio dell’esperienza filmica ci permette di comprendere meglio il ruolo del cinema nel Novecento. In primo luogo il cinema si caratterizza come un’arena in cui soggetti, racconti, miti e simboli richiedono legittimazione sulla scena pubblica. In seconda battuta, la presentazione di questi elementi nuovi è fatta attraverso una modificazione dei mezzi attraverso cui gli uomini fanno esperienza del mondo: con il cinema, infatti, le modalità di percezione audiovisiva sono significativamente modificate dalla tecnologia; non facciamo più esperienza del mondo, ma di un’immagine del mondo. Questo processo tuttavia non esclude il modo in cui percepiamo la realtà circostante extra-cinematografica; il cinema è in grado di ristrutturare anche la nostra relazione con il reale, poiché ridefinisce, in generale, il nostro modo di guardare. Per Casetti (2005, 2009b) l’esperienza filmica può dunque essere colta attraverso due processi dialettici: quello tra eccesso (excess) e riconoscimento (recognition) e quello tra immediatezza e mediazione;
mettendo in discussione il significato storico dell’esperienza spettatoriale e le modalità storicamente determinate in cui tale esperienza si manifesta. Partendo dal chiedersi cosa significhi guardare un film e perché ci si sottopone a quest’esperienza, Casetti (2009b: 57) riconsidera la storia del medium filmico partendo dai pubblici, sottolineando “how early cinema embraced the provocative elements of modernity and inserted them into a new popular culture; how classical cinema offered a sense of freedom to the spectator, but controlled it through an institution; how so-called modern cinema destroyed the ‘safe’ position of its spectator in order to gain a more open sense of subjectivity and of reality; and how contemporary cinema responds to the challenges of an overwhelming media landscape, giving us the opportunity to ‘re-aestheticize’ our lives”;
3) la definizione teorico-pratica dell’esperienza filmica permette di stabilire con maggiore rigore scientifico i confini di tale esperienza rispetto a una più ampia esperienza mediale, nel momento in cui i confini tradizionali tra i media si slabbrano e il cinema si va trasformando in postcinema.
Ripercorrendo sinteticamente l’itinerario analitico di Casetti, nell’epoca del muto l’esperienza filmica si lega alla modernizzazione (o, in termini più precisi, alla metropoli e alla fabbrica, come aveva messo in evidenza Abruzzese 1973, 2007) e alla popolarizzazione. I due fenomeni sono strettamente intrecciati: il cinema produce una modernizzazione della popolarità e una popolarizzazione della modernità. Esso non cattura soltanto lo sguardo, ma offre un intero spettro di sensazioni allo spettatore, che si costituisce, allora, non come semplice “observer”, ma come un corpo coinvolto in “in a richer sensibility and through this becomes more involved and engaged with others” (Casetti 2009b: 58). Lo spettatore, insomma, sperimenta nuove forme del sentire e nuovi aggregati sociali, come notano sia i critici più attenti sia gli stessi registi e sceneggiatori, che, in diverse pellicole, raccontano come l’andare al cinema (moviegoing) consenta di fare esperienza sia del film sia dell’ambiente socio-culturale (transgenerazionale e interculturale) della sala. A partire dalla metà degli anni Dieci, com’è noto, il cinema diventa una forma narrativa riconosciuta attraverso un bagaglio di tecniche espressive (in termine moriniani, il medium da “cinematografo” diventa “cinema”) e un’istituzione sociale (vale a dire un insieme articolato di oggetti, norme, comportamenti ed obiettivi). Questo doppio processo di istituzionalizzazione (della narrazione e del ruolo sociale) si accompagna ad una normativizzazione dell’esperienza spettatoriale, che viene regolata secondo i canoni della morale, dell’igiene e dell’etichetta. Secondo Casetti inoltre la
standardizzazione del prodotto filmico soddisfa due classi di bisogni culturali: la prima concerne la domanda di narrazioni da parte della massa, che spinge per racconti più estesi e coinvolgenti (fino all’affermazione del lungometraggio come formato standard dei prodotti cinematografici); la seconda riguarda l’esigenza degli intellettuali di attribuire valore artistico almeno ad alcuni film (avviando quel processo di “santificazione” di cui parla Harbord 2002), conferendo all’esperienza filmica caratteri di necessità e unicità. Infine, la standardizzazione del film è letta da Casetti come un compromesso tra divergenti forze – l’industria e i pubblici – che negoziano un equilibrio tra l’immersione dello sguardo nel film e margini di salvezza psichica e fisica. Ricordiamo che abbiamo proposto di interpretare lo stesso aggregato dei fenomeni attraverso i concetti di “mediashock” e di “forma culturale”, affermando che la garanzia di sopravvivenza della forma culturale cinematografica, di fronte agli shock mediali, è conservarsi in assetti temporanei (attraverso la normalizzazione dei formati e delle modalità di visione) conquistati come risultato dei processi di negoziazione tra forze sociali (industria, creativi, critica, pubblici) e componenti tecno-culturali (tecnologie, culture tradizionali e culture mediali). L’esperienza spettatoriale che ne deriva, definita attendance, per lo studioso italiano si caratterizza per tre elementi:
1) in quanto esperienza di un luogo (la sala), con uno statuto mediano fra ambiente fisico (a metà tra spazio chiuso e spazio aperto) e ambiente simbolico, in cui lo spettatore può assumere le sembianze del flaneur benjaminiano oppure esperire un senso di appartenenza;
2) in quanto esperienza di una situazione, che è allo stesso tempo reale (perché comporta l’interazione con altri individui nello stesso luogo) e non-reale (perché prevede l’interazione con l’universo immaginario del film); è a questo livello che l’esperienza filmica si costituisce come rito, anche in virtù della sua regolazione;
3) in quanto esperienza di un mondo diegetico, che consiste in una dialettica tra vedere (looking at) le immagini e un vedere oltre (looking through) le immagini, alle cose rappresentate, che Richard Lanham (1993) concepisce come una delle caratteristiche delle rappresentazioni artistiche del XX secolo e degli artefatti digitali in particolare. Per effetto dei meccanismi di proiezione ed identificazione, lo spettatore si relaziona alla realtà filmica come qualcosa in cui è immerso, ma, nello stesso tempo, trae da questa relazione risorse cognitive e simboliche utili per interpretare il mondo reale in cui vive.
immaginario è resa possibile solo dal fatto di abitare lo spazio della sala (residency) e di condividere quest’esperienza con una massa di altri individui (collectivity), “the risk is that she/he can master reality only by conforming with a residency and a collectivity” (Casetti 2009b: 61). In secondo luogo, “this acquisition is accompanied by a strong sense of participation in what one observes: (...) the risk is that in taking hold of the world one cancels this availability and, with this, the possibility of a real ‘opening’” (61).
Con il cinema moderno del secondo dopoguerra, questo modello di esperienza filmica appare superato, in funzione di un nuovo paradigma in cui allo spettatore si chiede di “rispondere” al film (concepito come un atto politico, p.es. nel caso dei film neorealisti) e di corrispondere al suo “autore” (inteso come l’artefice che con il suo marchio firma la pellicola secondo la politique des auteurs). La soggettività spettatoriale è significativamente riconfigurata all’insegna del dialogo, sia con i testi e gli autori, sia con gli altri spettatori, per costituirsi come comunità interpretativa.
Negli anni Ottanta la ristrutturazione dell’esperienza filmica (ma prima ancora, come abbiamo visto, della forma culturale cinematografica) segue un ulteriore salto tecnologico. Si affermano nuovi format di sala, come il multiplex e il megaplex (Acland 2003, Klinger 2006), e, quasi contemporaneamente, si affermano i primi formati per l’home video, il VHS e il Betamax. Con le videocassette lo spettatore può manipolare l’esperienza filmica, in vari modi: registrando i nastri, acquistando il film in formato video, bloccando il flusso o reiterando la visione e così via. L’home video cambia lo sfondo in cui avviene l’esperienza (dalla sala all’ambiente domestico) e la sua natura ritualistica (da una visione collettiva a una visione privata). Il film come tutti gli altri contenuti culturali nell’era postmediale (Krauss 1999, 2005, v. par. 2.3.5) si disincarna da un supporto specifico o, meglio, da un dispositivo mediale costituito dalla triade pellicola/proiettore/schermo per essere fruito tanto sul piccolo schermo nei vari passaggi televisivi (Friedberg 1993), quanto in formato video con un nuovo dispositivo mediale, costituito da videocassetta/videoregistratore/schermo televisivo. Questa transizione dell’esperienza filmica su altri media e in altri ambienti è stata definita da Casetti “rilocazione”. L’esperienza filmica rilocata si riconnette a due flussi di esperienza: il flusso della vita quotidiana (per cui essa interferisce con altre attività giornaliere: possiamo guardare un film mentre mangiamo, studiamo, ecc. oppure interromperne la visione per dedicarci ad altre mansioni domestiche e riprenderla in un secondo momento) e il flusso di altre attività mediali (si guarda un film mentre si ascolta la radio, si legge un quotidiano, si riceve una
telefonata). A questo punto, prima di passare a come Casetti tratta il delicato passaggio dell’esperienza filmica in qualcos’altro che la sovrasta, dobbiamo chiarire i termini dell’esperienza mediale. Possiamo infatti considerare il fare esperienza con/attraverso i media in due sensi diversi: in primo luogo, come esperienza multimediale centripeta, ovvero come esperienza di oggetti o eventi culturali afferenti allo stesso progetto mediale (è quello che succede quando si invia un tweet contenente un commento sull’episodio di una serie tv che si sta guardando, magari richiamato da un apposito hashtag); in secondo luogo, come esperienza multimediale centrifuga, cioè come esperienza di flussi di dati culturali separati (come quando si invia un sms di contenuto personale dal proprio smartphone mentre si guarda un programma tv).
A partire da questa concezione duplice dell’esperienza mediale, possiamo concentrarci sulla sua relazione con l’esperienza filmica, analizzando più dettagliamente cosa accade nel passaggio dalla sala all’home video.
Nell’epoca analogica pre-home video, è possibile fare esperienza del film attraverso più media (esperienza multimediale centripeta), ma difficilmente ciò avviene sincronicamente alla visione in sala: si possono acquistare locandine e poster, collezionare foto di scena o fotogrammi e, naturalmente, possiamo considerare parte integrante dell’esperienza filmica il consumo di informazioni, recensioni, critiche, opinioni sulla stampa, specializzata e non. Queste attività possono essere comprese in vari modi: come pratiche la cui analisi porta ad allargare i confini del concetto di esperienza filmica tracciato da Casetti (esperienza del film, della sala e del mondo diegetico), aggiungendo a questo modello il consumo dei paratesti; come fenomeni che ci consentono di formulare l’ipotesi di un’archeologia del passaggio da esperienza filmica in esperienza mediale fin dagli anni Venti (con la nascita di fenomeni come la cinefilia, il cineclubismo, il collezionismo di reperti legati al film e la critica specializzata); in maniera radicale, come prove che un’esperienza filmica in senso stretto non sia mai esistita e che, fin dall’evoluzione del cinematografo in cinema, il medium si è insinuato nel flusso della vita quotidiana, secondo percorsi spesso indeterminabili a priori e attraverso più dispositivi mediali. In quest’ultima accezione, l’esperienza si può connotare come filmica perché legata a un contenuto (il film) e non solo ad un dispositivo mediale (pellicola/proiettore/sala), che, pur essendo la fonte esperienziale privilegiata, non impedisce che possa completarsi ed estendersi su altri media. In ogni caso, qualunque sia il concetto di esperienza filmica che riteniamo più funzionale, è il caso di chiedersi come si manifesti la multimedialità centrifuga rispetto al
modello dell’esperienza della sala. Sia che si ricorra al framework dell’attendance, sia che si ricorra a quello del dialogo (tra lo spettatore, da una parte, e gli altri spettatori, i testi e gli autori, dall’altra), sostanzialmente l’assetto percettivo prestabilito dall’apparato cinematografico, fondato sull’immersività (grazie alla concentrazione delle energie percettive sul flusso luminoso dello schermo e alla regolamentazione del corpo dello spettatore, obbligato all’ipomotilità e al silenzio), influenza la modalità dell’esperienza filmica dello spettatore, che comunque può sfruttare dei margini d’azione per esperire il film in maniera eterodossa, come dimostrano vari studi in merito (Breakwell, Hammond 1990, Hansen 1991, Burrows 2004, Christie 2012b, cfr. par. 3.3). La prevalenza di questa modalità immersiva d’esperienza filmica impedisce che si possa, simultaneamente, avere esperienza multimediale centripeta (se non in forme minime: es. consultare un programma o un quotidiano per verificare il nome di un attore o la durata dello spettacolo), ma anche, ovviamente, esperienza multimediale centrifuga. Naturalmente si possono avere altre esperienze, legate all’interazione interpersonale (chiacchierare, mangiare, bere, baciarsi, ecc.) durante la visione, legali o persino illegali e trasgressive (Christie 2012b), ma l’esperienza simultanea di un altro medium (radio, telefono, stampa, televisione) è, di norma, inconciliabile con l’esperienza filmica primaria.
Entrambi i tipi di esperienza multimediale, centripeta e centrifuga, possono manifestarsi simultaneamente all’esperienza filmica nell’ambiente domestico (anche se con significative differenze tra la visione in tv e quella tramite VHS). Tuttavia, se la simultaneità dell’esperienza multimediale centrifuga e dell’esperienza filmica tramite VHS (o DVD o Blu-Ray) è pacifica, occorre comprendere meglio la natura dell’esperienza multimediale centripeta che si può fare contemporaneamente alla visione di una videocassetta (o di un disco ottico). È infatti teoricamente possibile, in un ambiente (quello domestico) non condizionato dalla regolamentazione percettiva imposta dall’apparato (silenzio, buio, immobilità), esperire materiali paratestuali in contemporanea o mettendo in stand-by la visione: guardare fotografie, leggere una recensione, inviare un messaggio o telefonare ad un amico per condividere l’esperienza che stiamo facendo. Tuttavia, tutte queste attività paratestuali e parasociali presentano due limiti vistosi: hanno un alto tasso di dipendenza dall’attività primaria, che resta comunque il focus su cui convogliare le risorse percettive, cognitive ed emotive, e presentano un livello di coinvolgimento molto basso. Possiamo affermare che le performance spettatoriali, attraverso cui si dispiega l’esperienza multimediale centripeta durante la visione di un prodotto home video,
attivano solo parzialmente e in maniera incompleta la partecipazione delle audience all’estensione dell’esperienza filmica. Come vedremo nella seconda sezione di questo capitolo, sarà solo con i media digitali e con il social Web che l’esperienza filmica trasmuta compiutamente in esperienza mediale (centrifuga e centripeta), relazionandosi a più flussi di informazione in simultanea alla visione filmica, su qualunque piattaforma e in qualunque formato avvenga.
Tornando a Casetti (2009b), egli ritiene che la rilocazione dell’esperienza filmica sia da addebitarsi, oltre che alla rivoluzione tecnologica digitale, anche all’emersione di due categorie di bisogni delle audience: il bisogno di espressività (o meglio di performatività), inteso come urgenza del pubblico di esprimersi nel contesto pubblico, e il bisogno di relazionalità, inteso come esigenza di aumentare la qualità e la quantità dei beni relazionali messi in circolazione dagli spettatori. Si tratta di due bisogni che possono essere agevolmente ricondotti all’ascesa delle culture partecipative di cui abbiamo già trattato (v. par. 2.3.4, cfr. Jenkins 2007, 2008, 2009, 2012 e Jenkins, Green, Ford 2013). Il primo bisogno viene soddisfatto individualizzando e personalizzando l’esperienza filmica: lo spettatore può esperire il film in piena solitudine su supporti mobili esclusi dalla disponibilità di altri soggetti e può inoltre scegliere consapevolmente quando, dove e in che formato esperire il film. Il margine di scelta operativa è estremo, aumentando significativamente il tasso di performatività dell’esperienza spettatoriale (anche se in un’accezione diversa da Casetti, è in Corrigan 1991 che si trova la prima concettualizzazione dell’esperienza filmica come performance). Inoltre l’esperienza filmica diventa sempre più quotidiana e sempre più connessa ad altri media (anche Casetti, dunque, sebbene non sviluppi questa prospettiva, coglie la propensione del filmico ad estendersi verso il mediale). Quanto più sono le forme della rilocazione, tanto più aumentano le tipologie di performance messe in atto dagli spettatori. L’esperienza filmica, dunque, passando per più piattaforme, formati e media, si complessifica in una serie di dimensioni più consone al mutato scenario socioculturale e tecno-mediologico:
1) “a cognitive ‘doing’ linked to the varying interpretations and different uses of film’s symbolic resources” (Casetti 2009b: 63);
2) “an emotional ‘doing’, precisely because of the increasingly emotive elements” (63-64); 3) un “practical ‘doing’ which is linked to the behaviours triggered by the process of consumption”;
sharing and exchange” (64);
5) “a textual ‘doing’ (...) determined by the fact that the spectator increasingly possesses the chance to manipulate the text that she/he is consuming, not only by ‘adjusting’ viewing conditions (...), but also by intervening in it” (64).
Successivamente Casetti (2015) ha analizzato in termini positivi il nuovo scenario di fuoriuscita dal cinema dai suoi confini, aprendo ad un’effervescenza culturale intorno alle forme che le immagini in movimento assumono debordando in contesti fisici (i grandi schermi urbani) e mediali sempre più vari.