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Dalla “mass audience” alla svolta culturologica

La spettatorialità digitale dagli Audience Studies alla sociologia del cinema

3.2 Dalla “mass audience” alla svolta culturologica

Le prime formulazioni di “audience” negli studi sul cinema prevedono due concetti di audience (Christie 2012) : 1) un’audience immaginata, essenzialmente concepita come una proiezione delle intenzioni o dei pregiudizi dell’autore; 2) un’audience economica o

statistica, derivante dal box office. La prima idea è stata largamente accettata e sviluppata dai critici e dagli storici del cinema, la seconda dall’industria filmica (che, su queste basi, ha elaborato molto a lungo le sue visioni dello spettatore-consumatore di film). È grazie al radicamento sociale del cinema e al coevo interesse che il fenomeno alimenta tra gli studiosi di scienze sociali che progressivamente emerge un terzo concetto di audience, fondato sul singolo spettatore analizzato in termini psicologici, sociologici e antropologici15. In numerosi studi, come d’altronde in resoconti (Romains 1911) o romanzi

(Pirandello 1916) ispirati dalle forme di fruizione del cinema degli albori, confluiscono i sentimenti elitari di buona parte del ceto medio e le remore di parecchi intellettuali verso un mezzo giudicato come una pericolosa macchina in grado di sovvertire il modo di raccontare e, soprattutto, il sistema delle arti tradizionali.

In buona parte gli studi specifici sugli effetti sul cinema delle origini anticipano il modello della “mass audience” con un’importante eccezione. Nel 1914, in un generale clima intellettuale di avversione verso il cinema e verso le masse, lo studioso tedesco Emile Altenloh conduce un’analisi empirica sugli spettatori cinematografici, suddivisi per classe, età e sesso, indagandone le abitudini di visione, i gusti e le esperienze. Gli esiti della ricerca sono pubblicati nel 1914 e il giudizio di Altenloh sulla funzione sociale del cinema è largamente positivo, poiché la fruizione collettiva permette agli spettatori di sentirsi un corpo unitario, al di là delle differenze economiche e culturali.

Tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, tuttavia, si radica il modello dell’audience come massa amorfa. L’affermarsi della psicoanalisi e del behaviorismo condiziona l’orientamento degli studi sulle audience, che si concentrano soprattutto sulla interconnessione tra (presunta) azione di massificazione omogeneizzante di medium come radio e televisione, modernizzazione economica e sociale e dimensione metropolitana del consumo. L’ampia letteratura sugli effetti del film, carica di toni angosciosi, enfatizza il potere delle immagini in movimento sugli stati psichici dello spettatore, accusando il medium di sollecitare gli istinti più bassi delle folle. La relazione tra le immagini dinamiche e le masse è letta in termini di ipnosi16, sogno (per esempio, Lebovici 1949) e,

più tardi, sull’onda culturale della psicoanalisi lacaniana, come una forma di regressione (nella nota formulazione di Metz 1977). Dagli anni Cinquanta ai Settanta del XX secolo,

15 A questo terzo concetto Christie riconduce lo studio psicanalitico The Double (1914) di Otto Rank e The

Photoplay: A Psychological Study (1916) di Hugo Münsterberg.

16 Per una ricognizione della complessa relazione tra cinema e ipnosi cfr. Gordon 2001, Eugeni 2002, 2003,

non poco condiziona la concezione negativa del rapporto fra media e masse l’adesione fra le due guerre mondiali di grandi masse (nell’Europa reduce dagli esiti della Prima guerra Mondiale) a regimi totalitari e ai loro sistemi ideologici della propaganda produttrice di consensi uniformi: si tratta di un complesso portato storico, indagato nella serie vasta delle sue implicazioni storico-antropologiche e filosofiche dalla puntuale e ambivalente analisi svolta da Elias Canetti nel poderoso Massa e potere (1960).

Tre altri filoni di ricerca, sicuramente più raffinati, hanno ragionato sui modi in cui il rapporto tra l’audience e il film viene regolato. Un primo filone di studi si fonda sul potere dell’apparato: in particolare, è il lavoro di Jean-Louis Baudry (1975) a impostare il problema, evidenziando come la costruzione dell’esperienza spettatoriale sia vincolata da alcune configurazioni dell’apparato, che, da un lato, cancella la mediazione prodotta dalla costruzione audiovisiva tentando di far apparire la narrazione per immagini dinamiche quanto più spontanea possibile, e, dall’altro, allestisce una cornice di fruizione che “obbliga” lo spettatore a un certo tipo di relazione con il medium filmico. Il secondo filone di ricerca che, nell’ambito delle teorie sul controllo esercitato dai media sugli utenti, fa capo al modello enunciazionale. Tale modello, elaborato dai semiotici dell’audiovisivo (Bettetini 1984, Casetti 1986), riflette sulle strategie complesse attraverso cui i testi filmici simulano il rapporto con lo spettatore, convogliando la sua attenzione su formule di visione ed interpretazione in qualche modo “predisposte” dagli autori. Infine, la terza modalità attraverso cui l’industria cinematografica “sorveglia” l’esperienza degli spettatori riguarda “la costruzione di un sistema di discorsi, che anticipano e accompagnano il consumo” e che, nel loro complesso (nel caso del film: locandine, trailer, flyer, e, oggi, siti web e social network), costituiscono “una rete di contenimento dell’esperienza mediale” (Fanchi 2014: 11).

Un’ulteriore forma di controllo è quella teorizzata nella nota teoria della “spirale del silenzio” di Elisabeth Noelle-Neumann (1980): in breve, la televisione costruisce l’opinione pubblica, per cui se individui o minoranze si sottraggono alla televisione vengono escluse dai discorsi sociali veicolati dal medium. Per evitare ciò, questi soggetti evitano di manifestare opinioni difformi dall’ideologia dominante, con la conseguenza che tale autocensura determina un’ulteriore esclusione delle opinioni e delle idee divergenti. L’altrettanto noto “modello della dipendenza”, di DeFleur e Ball-Rokeach (1989), invece, postula una dipendenza dei consumatori dai media.

una notevole frattura rispetto a queste impostazioni teoriche, fondate sempre sulla disparità di potere tra i media e chi ne fruisce. Come hanno schematizzato Abercrombie e Longhurst (1998), si è passati da una prima fase degli Audience Studies dominata dal paradigma behaviorista a una seconda fase dominata dal paradigma “incorporation/resistance”. Studiosi come Richard Hoggart, Raymond Williams e, soprattutto, Stuart Hall, principale referente della cosiddetta Scuola di Birmingham, hanno inciso notevolmente nella svolta etnografica dei Cultural Studies, introducendo il concetto di “cultural voluntarism” e incorporando la nozione gramsciana di “egemonia culturale”: i prodotti popolari possono “accogliere le istanze delle classi subalterne” e “non vanno quindi più pensati come prodotti ‘per il popolo’, strumenti di coercizione e di controllo, ma come prodotti ‘del popolo’, che recano al proprio interno le tracce di una visione del mondo alternativa a quella dominante e potenzialmente fautrice di cambiamento” (Fanchi 2014: 16, cfr. Hall 1981,1990). Sia il paradigma della resistenza/incorporazione che quello della codifica/decodifica (Hall 1980) danno conto con maggiore precisione, grazie anche all’approccio etnografico, dei contesti di fruizione e delle potenzialità dei pubblici di elaborare, attraverso il consumo mediale, il discorso socioculturale proposto dai prodotti popolari.

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