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Audience Studies 2.0? Il ruolo sociale dei pubblici connessi dell’era digitale

La spettatorialità digitale dagli Audience Studies alla sociologia del cinema

3.6 Audience Studies 2.0? Il ruolo sociale dei pubblici connessi dell’era digitale

Da dove nasce l’attivismo dei fan e dei pubblici nell’era del Web 2.0? Possiamo sinteticamente indicare almeno quattro macrofattori, di diversa matrice.

1) il salto qualitativo delle tecnologie informatiche e telematiche, con la maggiore performatività dei servizi di rete, la progressiva diffusione di apparecchi portatili, la semplificazione delle interfacce, la produzione di software e app per numerosissime funzioni. È così possibile allestire una gratificante esperienza interattiva dei media e un accesso più rapido e funzionale al social web (Bruns 2008);

2) le culture della Rete, che fin dall’inizio ne hanno difeso a spada tratta la neutralità, l’interoperabilità dei protocolli, la libera circolazione delle informazioni e dei prodotti (logicamente nel rispetto delle leggi vigenti);

3) il bisogno dei pubblici di partecipare in maniera sempre più massiccia al discorso culturale, in precedenza appannaggio esclusivo delle istituzioni mediali. Quest’urgenza di partecipazione si è giovata dell’abbondanza di risorse oggi sul mercato, poiché il modello di offerta dei beni digitali si fonda oggi sulla “non rivalità” (un oggetto mediale può essere consumato da migliaia di soggetti contemporaneamente) e sulla “non esclusività” (l’accesso ai contenuti è mantenuto il più possibile aperto) (Currah 2007)17;

4) la digitalizzazione complessiva della cultura mediale e della vita sociale, tanto che oggi la mediatizzazione della socializzazione è un dato costitutivo dell’esperienza quotidiana di milioni di cittadini nel mondo. Perché la stessa socializzazione passi necessariamente per i media, occorre creare favorevoli condizioni per il mantenimento delle reti (Bruns 2008). In realtà, tuttavia, i consumatori anche nell’epoca pre-digitale hanno operato per partecipare alla costruzione della cultura collettiva (Carpentier 2011): ne sono un esempio le DIY (Do-It-Yourself) cultures, i fenomeni riconducibili all’amateurism, i gruppi d’ascolto ed altre forme di partecipazione dal basso, spesso dotate di propri spazi fisici e simbolici (le convention, le fanzine, i cineclub, i circoli di amatori…) di confronto e cooperazione. “La vera novità”, come scrive Napoli (2015: 89), “è nella potenziale scalabilità dei prodotti costruiti dal basso, nella possibilità, cioè, che essi diventino ‘di massa’, che intercettino pubblici vastissimi e che siano intercettati a loro volta dai media mainstream”. Alcuni commentatori (Keen 2009) hanno posto l’accento sui rischi di una “amatorializzazione” di massa, che, disperdendo il sapere e le competenze degli intermediari, produrrebbe la distruzione di giacimenti culturali di fondamentale importanza per la società. Il fenomeno della disintermediazione, come vedremo nel capitolo dedicato alla nuova cinefilia, assume particolare rilevanza nello studio della

17 Nulla vieta, tuttavia, che al mutare delle infrastrutture tecnologiche e delle contingenze socioeconomiche,

questo modello di offerta venga sostituito da uno progettato sulla scarsità di risorse, e quindi sull’esclusività e la rivalità, sostituendo progressivamente i contenuti free con contenuti riservati o a pagamento.

spettatorialità cinematografica del XXI secolo. Tuttavia, a ben vedere, più che ad una disintermediazione, stiamo assistendo a una progressiva sostituzione dei vecchi intermediari, che seguivano percorsi professionalizzanti prefissati – nel caso del cinema, i distributori, gli esercenti, e non per ultimi i critici e gli accademici – con nuove figure, cresciute e affermatesi grazie all’opportunità loro offerta dal Web di fare sfoggio delle rispettive competenze (spesso, a loro volta, frutto di un apprendistato che si è consumato online). In ogni caso, al di là del giudizio attribuito all’ambigua collocazione, tra amatorialità e professionismo, di una parte delle audience contemporanee, la loro partecipazione al processo di costruzione simbolica del presente non può essere trascurata. Boccia Artieri (2004) definisce le nuove modalità esperienziali dei pubblici connessi, usando il concetto di media-mondo, vale a dire un territorio, uno spazio (virtuale ma altresì effettivo, dunque reale sia pure in termini diversi da ciò che avveniva nei media analogici) in cui si esperisce la socialità quotidiana. Nella Social Network Society il mediologo italiano individua alcune caratteristiche delle forme di partecipazione digitale: la costituzione di comunità basate sul riconoscimento di comuni interessi con soggetti con cui condividiamo oggetti culturali, esperienze e, secondo diversi gradi di affinità e intimità, parti del nostro vissuto (“appartenenza mediale riflessiva”); tendenza a immettere in circolo abbondanti quantità di UCG (“espressività mediale”), predisposizione al lavoro cooperativo (“problem solving collaborativo”) (Boccia Artieri 2012, cfr. Fanchi 2014: 100-101).

Tuttavia c’è anche un dark side del web, anch’esso indagato da una cospicua letteratura soprattutto di orientamento critico. Tra gli altri lati oscuri della partecipazione delle audience ai discorsi sociali e culturali, vanno annoverati gli studi sulla distruzione delle risorse materiali su cui si fonda la comunicazione contemporanea, globale e digitale, nonostante l’abusato luogo comune della smaterializzazione (Parikka 2015), le ricerche sulla diffusione surrettizia di virus, spam, malware approfittando della buona fede dei membri delle comunità online (Parikka 2007, Parikka, Sampson 2008, Brunton 2013), le analisi sulla disparità di accesso alla Rete e ai suoi beni culturali e sociali da parte delle audience extra-occidentali, fenomeno su cui hanno richiamato più volte l’attenzione gli studiosi più attenti alla “de-occidentalizzazione” dei Media Studies (Curran, Park 2000, Wilson, Stewart 2008). A questa classe eterogenea di studi sociologici, storici e politologici sul dark side del Web possiamo ricondurre anche i lavori sulle forme di controllo, censura e repressione esercitati da governi e corporation sulla libera

manifestazione del libero pensiero (p. es. Lovink 2003 e Campanelli 2013) e anche il capitale contributo di Viktor Mayer-Schönberger (2009) sulla difficoltà per lo spettatore mediale contemporaneo di rimuovere le tracce del proprio passaggio online e di far fronte all’imponente overload di informazioni che sovrasta le sue capacità di assorbimento. Se le opere citate evidenziano disparità e diseguaglianza, rilanciando in qualche modo il vessillo teorico del potere dei media rispetto ai pubblici, oppure si focalizzano su vuoti, faglie e fratture dei sistemi economici o tecnologici in cui si muovono le audience, la ricerca di Marie-Anne Dujarier (2009) investe direttamente i fan. La studiosa denuncia, infatti, come, dietro la maschera della partecipazione e del coinvolgimento (cognitivo, emotivo) dei fan, si celi un marcato sfruttamento del lavoro del consumatore da parte delle aziende che mettono a valore le competenze, il tempo, le risorse affettive e intellettuali delle audience, avvalendosi di stratagemmi come le campagne di marketing partecipativo o la personalizzazione dei servizi. Analoghe denunce provengono da Mark Andrejevich (2002, 2008), che accusa di scarsa trasparenza le corporation, e da Andrew Ross (2009), che sottolinea come questa forza lavoro a costo zero danneggi i professionisti della comunicazione riducendone la forza contrattuale. Molto interessante è l’analisi di Matthew Allen (2008), per il quale il Web 2.0 “validates a kind of advanced, promotional entrepreneurial capitalism that binds users to profit–making service providers via the exploitation of those users’ immaterial labour” e alimenta nuove forme di dipendenza dei consumatori dalle corporation “who, by monopolising and controlling the network activities through which key forms of human sociality becomes possible, can therefore benefit disproportionately from that dependence” (in una sorta di aggiornamento del citato modello di DeFleur e Ball-Rokeach 1989).

Tuttavia, c’è un aspetto della cultura partecipativa organizzata intorno al Web 2.0 e ai social media, che potrebbe aiutare a comprendere tanto le accensioni affettive e passionali del fandom, quanto le distorsioni del dark web e le strategie delle corporation per regolamentare, controllare e irreggimentare il consumo delle audience. Ci riferiamo alla logica virale, che “gathers masses that aren’t just spread territorially but also in time, and repetition is its drive” (Bunz 2014: 89) e “demands technologies able to function at the micro-level, able to trace and identify single individuals, able to sift rapidly through billions of global communications, able to nuke single caves instead of entire countries” (Wood 2006: 310). La comunicazione in tempo reale è decisiva, per una logica che circola sia invisibilmente (nei casi in cui il messaggio virale mira a colpire, danneggiare o

dominare gli interlocutori è fondamentale l’anonimato) sia pubblicamente (nei casi in cui il successo delle campagne virali è legato alla massima pubblicizzazione dei contenuti). Si tratta di una logica costitutivamente violenta poiché prova ad accaparrarsi il coinvolgimento dei destinatari facendo leva su effetti ad alto impatto (visivo, emotivo, cognitivo) e che – questo è forse il dato più significativo – è stata acquisita anche dal fandom: in nome della scalabilità, infatti, i fan provano attraverso complesse strategie ad ottenere la massima visibilità per i prodotti grassroots.

Riepilogando brevemente l’inquadramento teorico del fandom negli Audience Studies, abbiamo visto come la digitalizzazione della vita sociale e della cultura contemporanea abbiano aperto spazi di produzione culturale per il fandom, che si esplica nella mobilità, iperconnessione, plasticità delle pratiche, delle relazioni, delle identità nel quadro della Social Network Society e del social web. Pur con alcune ombre, evidenziate dalla teoria critica e da studi mirati, la maggior parte degli studiosi sembra aver salutato il protagonismo dei fan sullo scenario sociale come un fenomeno di positiva rivitalizzazione dei circuiti di produzione culturale contemporanei. In quest’ottica, tra l’altro, i fan sembrano svolgere un ruolo ecologico, poiché i contenuti che caricano sulle piattaforme online servono a soddisfare il bisogno pressante di materiali simbolici cui le sole istituzioni mediali non riescono a far fronte (Slater 2000). In ogni caso, la tendenza predominante nell’attuale dibattito sul ruolo sociale delle audience è valutare con cautela l’impatto degli artefatti culturali grassroots sul sistema socioculturale complessivo. Lo stesso Jenkins, che nella fase più entusiasta della sua riflessione sul fandom, sembrava ascrivere al potere dell’aggregazione tra fan la facoltà di rivoluzionare l’intero mediascape (2007), parla più prudentemente di una “riforma” apportata dai prodotti dal basso (Jenkins, Ford, Green 2013). Gli oggetti grassroots, in ogni caso, costringono le industrie mediali a un serrato confronto in una dialettica talora più vicina alla lotta per spazi di produttività testuale autonomi, talaltra più simile a una blanda cooperazione, se non altro alimentata dal comune intento di nutrire e accudire gli universi narrativi dei media

franchise.

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