La spettatorialità digitale dagli Audience Studies alla sociologia del cinema
3.4 Performance & Rem
3.4.2 L’audience estesa e i pubblici conness
Riprendendo un saggio di Sonia Livingstone pubblicato nello stesso anno (1998) del volume di Abercrombie e Longhurst, Nick Couldry (2005) ritorna al discorso sul potere dei media, ribadendo con grande energia che la possibilità dei fruitori di trasformarsi in produttori culturali non elimina le disparità tra le industrie mediali e gli spettatori. Contestualmente Couldry non nega il nuovo ruolo delle audience reso possibili dagli spazi di costruzione grassroots della cultura popolare tramite i media digitali e interattivi: egli chiede, piuttosto, di definirne con precisione ambiti e modalità, rispetto all’agire tattico e strategico delle media industries. Per tale motivo, Couldry (2005: 196) allestisce la nozione di extended audience che:
requires us to examine the whole spectrum of talk, action and thought that draws on media, or is oriented towards media. In this way, we can broaden our understanding of the relationship between media and media audiences as part of our understanding of contemporary media culture.
Anche nel successivo lavoro lo studioso parte dalla definizione di “voice”, in due sensi: come processo narrativo attraverso cui ogni persona può offrire un racconto di se stesso e come “a value about values or (...) a ‘second order’ value” (Couldry 2010: 2). Il neoliberalismo è descritto come una razionalità egemonica che, valorizzando acriticamente il valore del mercato, nega la “voce” sia come processo che come valore. Il ruolo dei media web-based viene allora ripensato alla luce dei rapporti con il potere neoliberale, che condiziona gli spazi di produzione culturale autonoma. Con la dovuta attenzione alla teoria critica di Internet, che evidenzia le disparità tra conglomerati mediali e utenti, nonché le distorsioni nell’uso del mezzo, una piena comprensione dell’attuale effervescenza delle produzioni culturali dal basso può essere ottenuta solo facendo riferimento alla nozione di “pubblici connessi” cui si rifanno diversi studiosi. Mizuko Ito (2008: 2) si riferisce ai “networked publics” come “a linked set of social, cultural, and
technological devolepment that have accompained the growing engagement with digitally networked media”. Ito aggiunge che il termine “networked publics” è un alternativa alle tradizionali concezioni di “audience” o “consumer”.
In quello che è un perenne stato di connessione (Boccia Artieri 2012), si creano processi di convergenza culturale tra i media mainstream e le culture grassroots, che contribuiscono alla riscrittura dei tradizionali cicli di produzione, distribuzione e consumo. Perde peso, definitivamente, il tradizionale processo di fruizione, “perché i pubblici connessi vivono in un ambiente che è totalmente saturo di tecnologie mediali di comunicazione: nelle pratiche dunque convergono sia elementi mediali che materiali” (Napoli 2015: 81).
Nelle loro forme più esuberanti e vistose, i pubblici interconnessi, dunque, partecipano alla costituzione di quella che è stata definita una “rete pop” (Boccia Artieri 2009), in cui gerarchie, valori, culture, processi sociali, identità e forme si ibridano e contaminano incessantemente.
danah boyd (2011: 41) arricchisce la nozione di networked publics sottolineando che
what distinguishes networked publics from other types of publics is their underlying structure. Networked technologies reorganize how information flows and how people interact with information and each other. In essence, the architecture of networked publics differentiates them from more traditional notions of public.
Si tratta di un contributo importante, poiché focalizza l’attenzione sulle architetture dell’informazione, sottolineando come, nell’era dei social, i pubblici partecipano non solo al flusso dei contenuti immessi in Rete ma alla stessa costituzione delle reti sociomediali di cui fanno parte. In questo contesto, i social media diventano anche il campo attraverso il quale i pubblici imbastiscono strategie comunicative avanzate, gestendo la propria immagine in maniera differente in virtù dei destinatari cui si rivolgono. Esiste, infatti, una doppia articolazione del pubblico: uno certo, costituito dall’insieme dei contatti delle proprie cerchie, e l’altro potenziale, formato da chi potrebbe visualizzare i contenuti prodotti in futuro (perché attualmente non è collegato, o non fa parte del gruppo delle persone che hanno accesso a quei contenuti). Oltre al dato architettonico dell’informazione digitale in circolo sui social network sites (SNS), boyd (2007) sottolinea anche alcune proprietà dell’informazione che dimora in queste piattaforme, che influiscono sensibilmente sulle strategie di autorappresentazione dei networked publics: 1) persistence (persistenza) “refers to the automatic recording and archive of online expression” (Papacharissi, Eaton 2013: 176);
2) searchability (ricercabilità) “permits content in networked publics to be accessed through search”;
3) replicability (replicabilità) “concerns the ease with which content made out of bits can be duplicated”;
4) scalability (scalabilità) “captures the potential of greater visibility of content in networked publics”.
A queste quattro proprietà dell’informazione circolante sui SNS, ne va aggiunta una quinta, formulata da Papacharissi e Eaton (2013: 176), definita shareability (condivisibilità), ovvero “the tendency of networked digital structures to encourage sharing over with holding information”.
I pubblici connessi hanno così in mano strumenti potentissimi per concorrere alla costruzione collettiva dell’immaginario culturale, soprattutto costituendosi in comunità di pratica o contribuendo a quell’insieme di fenomeni di enorme impatto sulle società contemporanee denominato “fandom”.
3.5 Il fandom
Il discorso sulle audience performative giunge a maturazione quando prende in considerazione il fenomeno del fandom, favorito dal nuovo scenario mediale. Il miglioramento costante delle reti telematiche e della velocità di banda, la disponibilità a prezzi decrescenti di dispositivi informatici portatili e connessi al Web, la dispersione dei canali di consumo sono alcuni dei fattori tecnologici che favoriscono la produzione culturale diffusa e interconnessa, apparentemente spontanea e invece mediata e ri-mediata dalla approfondita conoscenza e dagli usi intensivi delle piattaforme digitali. Sempre più i consumatori diventano quindi produttori degli oggetti culturali che circolano nei media contemporanei, grazie soprattutto però a quell’insieme di fenomeni riconducibili alla nozione di “convergenza culturale” (Jenkins 2007, 2008): la produzione grassroots risponde, infatti, essenzialmente al bisogno diffuso di allestire una rete di discorsi sociali intorno al consumo mediale che si diramano in forme performanti di commento, riuso, remix, mashup e così via. In un pionieristico studio, John Fiske (1992) aveva già ragionato sulla produttività del fandom, distinguendone tre tipologie: una semiotic productivity, ossia la produzione di senso, che accomuna fan e pubblici ordinari; una enunciative productive, che consiste nella produzione di discorsi intorno al consumo dei prodotti mediali immessi in circolo nelle comunità di fan, così come in specifici raggruppamenti dell’audience
(etnie, pubblici femminili, ecc.) attivi in questo tipo di pratiche; una textual productivity, vale a dire una produzione di artefatti culturali (racconti, canzoni e altri oggetti mediali), particolarmente vivida con la massiccia digitalizzazione della cultura degli anni Duemila e tipica unicamente dei fan.
Il fandom nello scenario contemporaneo diventa un interlocutore indispensabile delle industrie mediali per varie ragioni (Gray 2003). In primo luogo, i fan, in quanto consumatori fidelizzati, costituiscono una base di pubblico costante nel tempo. In secondo luogo, in quando trend setter, essi fungono da termometro delle tendenze in atto tra gli spettatori. In terzo luogo, le competenze accumulate e condivise dalle comunità di fan ne fanno preziosi consulenti per le istituzioni mediali circa la qualità e il successo dei prodotti culturali già pubblicati o l’affidabilità di quelli in programmazione. Infine, l’osservazione del fandom, in quanto punta di massima intensità ed adesione emotiva del consumo mediale, consente un punto di vista privilegiato sulle pratiche di fruizione.
In questo quadro, si colloca l’esplosione di studi sul fandom avvenuta all’inizio degli anni Duemila. La pluralità di oggetti su cui si sono concentrati tali ricerche ha favorito persino la tanto agognata apertura transdisciplinare degli Audience Studies. Tra i contributi più rilevanti, alcuni hanno investito direttamente il fandom di matrice cinematografica, come le analisi su Blade Runner (1982) di Will Brooker (1999, 2005), sulle culture fantascientifiche di Camille Bacon-Smith (2000), sugli action movies di Martin Baker e Kate Brooks (1998), sui divi di Steven Cohan (2001).
La stessa visione sociologica e mediologica del fandom è andata modificandosi sensibilmente nel corso degli anni per l’avvento della società mediatizzata del Web 2.0 e dei pubblici iperconnessi. I primi studi sul fandom (Jenkins 1992), oltre a sottolineare i pregiudizi diffusi verso i fan ed evidenziarne la marginalità sociale, ponevano l’accento sulla contrapposizione dei discorsi del fandom rispetto alle logiche delle industrie mediali. Questa visione del fandom come corpo eversivo del sistema culturale ha lasciato spazio a modelli d’analisi più moderati, che miravano sostanzialmente a far emergere i processi di negoziazione tra media industries e fan communities.
Con la differenziazione socioculturale all’interno del fandom, inoltre, la categoria di “fan” non è stata più sufficiente a descrivere pratiche e modalità d’uso molto differenti tra loro. Già Abercrombie e Longhurst (1998) avevano tracciato un range di tipologie di fan. Ad un estremo avevano collocato il fan in senso stretto, ossia colui che è appassionato di un determinato oggetto mediale (un personaggio, un film, un genere, un autore, ecc.) e
fabbrica un patrimonio di significati intorno ad esso. Un gradino più in su si trovava il
cultuist, ovvero quel fan che non si limita a consumare un prodotto mediale ma elabora
intorno all’oggetto della sua passione dei discorsi, che hanno la duplice funzione di incrementare la produzione simbolica intorno a tale prodotto e di consentire la costruzione dell’immagine sociale di questa tipologia di fan. Ancora dopo, ritroviamo l’enthusiast, vale a dire il fan che “consuma per produrre” (Fanchi 2014: 72) e, senza prediligere nessun oggetto culturale, sfrutta ogni occasione di consumo per sfoggiare la sua attitudine creativa. Infine, i petty producer sono quei fan che immettono nel circuito mediale oggetti che vengono, a loro volta, consumati da altri.
In realtà, questa classificazione è apparsa, in tempi più recenti, piuttosto arbitraria, sia per l’impossibilità di individuare con precisione i confini tra una classe e l’altra, sia per la dicotomia, su cui insistono Abercrombie e Longhurst, tra fan e cultuist, da una parte, e
enthusiast e petty producer dall’altra, esposta nei termini di un conflitto tra chi venera la
cultura popolare e chi la utilizza come terreno elettivo per pratiche di manipolazione artistica o artigianale.
Più circoscritto e analiticamente affidabile è lo studio di Mizuko Ito (2012), che rileva un doppio fenomeno di inclusione/esclusione nelle comunità di fan: da un lato, infatti, i fan aprono i loro spazi comunitari a pubblici più vasti, dall’altro i più competenti si rinseranno in microgruppi ad elevata specializzazione, che sono quasi impenetrabili dall’esterno. Non solo le teorie di Abercrombie e Longhurst sono sottoposte ad un ampio processo di revisione, ma anche i tre tipi di produttività individuati da Fiske sembrano datati per lo scenario attuale. Come nota Hill (2013), infatti, la disponibilità di software open source, di piattaforme per il video sharing (su tutte YouTube, vera e propria leva del mediascape contemporaneo: cfr. Delwiche, Henderson 2013) e di altri artefatti culturali, nonché l’esistenza di comunità che elaborano discorsi sociali intorno ai prodotti grassroots, incentivano soprattutto la produttività di tipo testuale, a scapito di quelle semiotica ed enunciazionale. A partire da questa riflessione, Hill procede con l’individuazione di due tipi di produttività testuale: una in senso classico, come definita da Fiske (1992), e un’altra di tipo mimetico, esercitata su tutti quei prodotti strettamente legati al source text (es.
action figure di un personaggio di un film o una serie, fansubbing di un episodio o un film,
ecc.). Inoltre, Hill introduce altre tre distinzioni: 1) tra prodotti che si ispirano all’estetica mainstream e prodotti che si ispirano alle culture grassroots o alle controculture; 2) tra
galleggiano in un regime alternativo; 3) tra una produttività esplicita e consapevole e una produttività inconsapevole (tipica dei processi di co-creazione). In realtà, al di là del tentativo di Hill, le classificazione degli artefatti culturali possono ispirarsi a molti altri criteri discriminanti. Una proposta convincente sembra essere quella di Mariagrazia Fanchi (2014: 75-76), che, in una ricerca recente, ha adottato un sistema di classificazione degli UGC relativi al media franchise di Twilight fondato su
un sistema di variabili, comprendenti il gradiente di vicinanza al testo di origine, i linguaggi espressivi impiegati; la presenza di rimandi intermediali (...); il registro retorico (mitologizzante, parodistico, nostalgico); la presenza o meno di ‘firme’ o di altre tracce dell’autore; la piattaforma in cui il contenuto è ospitato; i commenti e il grado di visibilità in rete.
Più o meno esplicitamente è emerso da questi studi quanto Costello e Moore (2007) chiariscono in maniera inequivocabile: l’esperienza dei fan si distacca da quella ordinaria degli utenti dei media perché essi la inscrivono in un ambito pubblico. I fan sono, cioè, consapevoli che i frutti della loro produttività testuale sono caricati su piattaforme del social web, in cui sono discussi, giudicati, incentivati o rifiutati dalle comunità cui appartengono. Più complessa è l’indagine dei legami che uniscono i fan in comunità ampie. Jenkins (2007) è convinto che la costituzione di una comunità di fan si fondi su una comunione di passioni e, perciò, sull’affinità tra i membri. Nei termini di Maffesoli (2004), potremmo parlare di una “autocostituzione affettiva”. In effetti, sebbene in molti casi l’osservazione di Jenkins descriva a pennello i processi socioculturali che si manifestano nelle comunità di fan, in altri casi la situazione sembrerebbe essere molto più conflittuale, come dimostra d’altronde l’altissima percentuale di spazi comunitari online (chat, forum, pagine e gruppi sui social media) che chiudono o sono oggetto di secessioni, ripicche, denunce. Probabilmente la natura sociale del lavoro dei fan emerge di più nelle comunità fondate sulla cooperazione, abituate a lavorare collettivamente sui prodotti culturali rispettando regole codificate e standard testati: ci riferiamo, in particolare, alle comunità di pratica (Wenger 1998), come i circoli di fansubbing (Massidda 2015, Crisp 2015, Addeo, Esposito 2015) o fanfiction (Hellekson, Busse 2006, 2014, Jamison 2013).