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L’estetica analitica (Carroll, Ponech) e una nuova ontologia del cinema

Teorie mediologiche della spettatorialità digitale

2.4 L’estetica analitica (Carroll, Ponech) e una nuova ontologia del cinema

Il digitale è primariamente un sistema di codifica dei dati, ridotti a sequenze di 0 e 1. Questa banale affermazione comporta che si può pensare al film digitale (girato o riversato in digitale) come a una massa di dati producibili, riproducibili e manipolabili attraverso una serie di operazioni (algoritmi) inscritte in un codice. Dalla condizione digitale del film è scaturito un ampio dibattito nei film studies, che sarà diffusamente citato quando affronteremo la relazione tra lo spettatore contemporaneo e i diversi dispositivi di cui si serve per rapportarsi alle immagini in movimento. In questa parte introduttiva, ci sembra utile, tuttavia, richiamare il dibattito sviluppatosi nell’ambito della

filosofia analitica sull’ontologia del film13. La riproducibilità digitale del film rende

obsolete le note ontologie fondate sul rapporto tra il film e la realtà fissata tramite l’apparato cinefotografico tradizionale, tra cui Che cosa è il cinema? (1958-62) di André Bazin, Teoria del film (1960) di Sigfried Kracauer, The World Viewed (1979) di Stanley Cavell. A Noel Carroll (1996) va attribuita la teoria che, per prima, ha svincolato l’oggetto di esperienza dal suo supporto materiale. Il filosofo americano parte dalla distinzione tra “film” (inteso come supporto su cui sono fissate le immagini) e “movie” (il risultato della proiezione). Il “film”, per Carroll, è fortemente dipendente dal contesto storico, è deperibile e superabile: avendo basato le proprie teorie sulla pellicola (sulla sua capacità mediale di fissare il reale), le teorie ontologiche di Bazin, Kracauer e Cavell hanno trascurato il “movie”. Partendo da questa premessa, Carroll teorizza un type (un film in astratto) che si attualizza attraverso dei token (cioè degli esemplari), distinguibili in

template-token (le copie del film) e performance-token (le proiezioni). Quindi, il filosofo

procede ad individuare un test di filmicità (Carroll 1996: 70), composto da cinque condizioni che un candidato x deve superare per essere considerato un film (o, più precisamente, una moving image):

1) x deve consistere in una visualizzazione disconnessa (detached display), oppure in una serie di visualizzazioni disconnesse;

2) x deve appartenere alla classe delle cose a partire dalle quali l’impressione del movimento è tecnicamente possibile;

3) i performance-token di x devono essere generati da template che sono a loro volta token; 4) i performance-token di x non sono valutabili come opere d’arte;

5) x deve essere bidimensionale (Terrone 2014: 30).

L’elemento interessante per il nostro percorso di ricerca è che tra gli elementi chiamati in causa da Carroll per una nuova ontologia del cinema figurano il rapporto del film con lo spettatore (condizioni 1 e 2) e il modo di esistenza del film (condizioni 3 e 4). Circa il rapporto con lo spettatore, lo spazio del film di cui fa esperienza chi lo visiona deve essere distaccato dallo spazio fisico in cui si trova (condizione 1) e deve inoltre essere tecnicamente concepito in modo da indurre in lui la sensazione che le immagini possano muoversi (condizione 2). Circa il modo di esistenza, un type (un film in astratto) si attualizza attraverso due livelli di token, le copie (template) e le proiezioni (performance) (condizione 3) e queste ultime non possono essere considerate “opere d’arte” (condizione 4). In questa sede è impossibile ripercorrere i vari passaggi che hanno emendato la teoria di Carroll da opposti punti di vista (sulla sostanza di cui sono fatti i type si fronteggiano il

platonismo, moderato e radicale, e lo storicismo, moderato e radicale, mentre sulla definizione del film “battagliano” gli schieramenti dell’essenzialismo, moderato e radicale, e del relativismo, moderato e radicale, cfr. Terrone 2014: 34-47). Ci limitiamo soltanto a riprendere la definizione offerta da Trevor Ponech (2006, 2007), per il quale “il film va (..) inteso come uno stroboscopic visual display: una distribuzione spazio- temporale di punti luce con valori cromatici variabili, separati spazialmente da piccole aree non illuminate e temporalmente da piccoli intervalli di oscurità” (Terrone 2014: 37- 38). Anche Ponech, tuttavia, è costretto ad ammettere l’esistenza di oggetti culturali (definiti template) che attualizzano lo stroboscopic display. Un buon compromesso può essere quello di definire il film in quanto type come “a spatiotemporal distribution of visual qualities” (Terrone 2014b: 34): ancor più precisamente, “the moving image is a type specifying a spatiotemporal distribution of pixels” (35), se, con Ponech, intendiamo i pixel non come “picture element” ma come “points of light”, ovvero come valori cromatici distribuiti su una superficie. Questa definizione del pixel e dunque la concezione ontologica del film che ne deriva è valida sia per il film analogico che per quello digitale. Dalla nuova ontologia del cinema che emerge dal pensiero di filosofi analitici come Carroll e Ponech è possibile sviluppare alcune osservazioni utili anche alla ricerca sociologica sulla spettatorialità cinematografica dell’era digitale. In primo luogo, la filosofia del cinema è stimolata a ripensare il film grazie agli stimoli della codifica digitale delle immagini in movimento: è da questo clima culturale che emerge il concetto del type come distribuzione spaziotemporale di pixel sulla superficie visibile, valido sia in epoca analogica sia in epoca digitale. In secondo luogo, messi da parte i risvolti squisitamente filosofici della natura del type e dell’essenza filmica, la filosofia analitica si prende carico della fondamentale relazione tra il film come tipo astratto e le sue modalità di esistenza. Nel compiere quest’operazione, l’accento viene posto sia sulle copie che sulle proiezioni. Si tratta di un’impostazione teorica molto feconda per lo studio della spettatorialità postcinematografica. Infatti, per quanto concerne le copie (o template-token), l’esperienza degli spettatori di immagini dinamiche digitali comporta l’interazione con una molteplicità di supporti e dispositivi. Se, con Carroll, riconosciamo che le proiezioni devono essere generate da una copia che è a sua volta un token, è in funzione di tale estrema varietà di supporti materiali (o template-token) digitali in cui si materializza un type che lo spettatore può sperimentare altrettante forme di esperienza cinematografica, attraverso gli atti performativi in cui si manifestano le riproduzioni digitali (o performance token) - ecco

tornare la cardinale categoria di “filmic experience”, su cui orienteremo il nostro percorso di ricerca.

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