L’esperienza spettatoriale postcinematografica Teorie e pratiche
4.1 Prima sezione Breve introduzione alla sociologia dell’esperienza mediale
4.1.1 La sociologia dell’esperienza
Il tema dell’esperienza è stato centrale nella riflessione di numerosi sociologi. Questo percorso è stato sintetizzato da Paolo Jedlowski (2010), che parte dallo studio in cui Wilhelm Dilthey (1883) opera la cruciale distinzione tra Erlebnis e Erfahrung, su cui torneranno molti altri nei decenni successivi. Con Erlebnis Dilthey identifica l’esperienza vissuta, che si manifesta quando una percezione si imprime nella coscienza individuale. Nell’accezione di Erlebnis, l’esperienza è una elaborazione del dato percettivo primario da parte del soggetto che vi attribuisce un significato proprio. Da un lato, questo tipo di esperienza è inevitabilmente soggettivo, dall’altro è strettamente dipendente dal contesto di significati storici con cui si misura il soggetto. Nel pensiero di Dilthey questa formulazione ha una rilevanza capitale, in quanto consente di stabilire una differenza tra il campo di studi delle scienze naturali (i fenomeni fisici) e quello delle scienze sociali, che Dilthey chiama “scienze dello spirito” (il mondo delle esperienze vissute dagli esseri umani). Al centro della sociologia stanno, dunque, le produzioni di significato dei singoli e delle collettività: com’è noto, Max Weber elabora questo assunto, affermando che l’obiettivo della sociologia è comprendere l’agire umano, ma che quest’operazione è possibile solo se “comprendiamo la relazione di senso che gli individui gli assegnano in termini di oggetti, mezzo e scopo” (Weber 1996: 103). In altri termini, è la dotazione di un senso all’agire umano che lo rende intellegibile. Dunque la sociologia è una scienza legata all’esperienza (Erfahrungswissenschaft): il grande sociologo tedesco, però, non si riferisce all’esperienza come Erlebnis, ma in quanto Erfahrung, ovvero come quel processo di acquisizione dei valori della società che consente ai di amalgamare i vissuti individuali nel tessuto della memoria della comunità. Dal legame con l’Erfahrung, discende per la sociologia anche uno statuto epistemologico preciso: “una scienza legata all’esperienza
non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma solo ciò che egli può e – eventualmente – ciò che egli vuole” (Weber 1996: 89). Il processo dell’Erfahrung si basa su codici, prassi, rituali che vanno in crisi quando la comunità tradizionale è incapace di contenere in un quadro unitario saperi individuali e saperi collettivi. Come scrive Jedlowski (2012), è Walter Benjamin ad apportare alla sociologia della vita quotidiana “una teoria dell’esperienza, o meglio di una sua atrofia, che si collocherebbe nella modernità”. Il punto di partenza di questa teoria è che l’esperienza comprende sempre un momento di estraneità del soggetto a se stesso. Per Benjamin, dunque, l’esperienza è quel processo faticoso per cui il soggetto esce e rientra in sé, in funzione del quale il mero vissuto è elaborato e memorizzato dall’individuo. Su quest’impianto teorico generale, Benjamin sviluppa una sua sociologia dell’esperienza, basata sull’idea che il sentimento dell’estraneità a sé, proprio di ogni forma di esperienza, si radicalizza nella modernità, rendendo più difficile il ritorno a sé, cioè la possibilità di rendere compiuta l’esperienza. Quando Benjamin parla di atrofia dell’esperienza si riferisce all’Erfahrung, in quanto sapere sedimentato e socialmente trasmesso: l’esperienza intesa come patrimonio di conoscenze pratiche di una comunità, di cui sono depositari soprattutto gli anziani, è resa inutilizzabile, da una generazione all’altra, perché l’ambiente di vita, con la modernizzazione, cambia ad una velocità sconosciuta nei secoli precedenti. L’intellettuale teutonico spiega anche cosa comporti l’atrofizzazione dell’esperienza: da un lato, il singolo non riesce più a mediare i propri vissuti con la memoria collettiva, in una sorta di afasia che impedisce di conferire un senso alle memorie individuali attraverso convenzioni culturali socialmente condivise; dall’altra ha difficoltà a conservare traccia di quanto esperisce poiché costruisce una sorta di autodifesa rispetto all’eccesso di shock della vita moderna. La coscienza impedisce agli shock percettivi di attaccare gli strati psichici profondi, tutelandoli perciò dall’eccesso di stimolazioni della vita metropolitana. In termini molto simili a Benjamin, Georg Simmel ritiene che l’intensificazione della vita nervosa, propria del vivere metropolitano, genera un dominio dell’intelletto sul vissuto. I fenomeni alla base dell’atrofia dell’Erfahrung sono principalmente lo sviluppo tecnico e tecnologico, che alimenta nuove modalità di percezione dello spazio e del tempo (Kern 2007), e la stratificazione e frammentazione dei saperi, che porta ad un elevato tasso di specializzazione delle conoscenze e delle competenze. Il primo fenomeno si traduce nell’accelerazione del tempo di vita, che, come argomenta Simmel ne La filosofia del
tecnologici, dalla moltiplicazione e velocizzazione degli scambi monetari. Simmel registra anche le strategie che gli individui mettono in campo per la gestione del tempo. Tali strategie si esplicano nella vita quotidiana come progetti di messa in forma dell’esperienza individuale; a uno stile di vita “simmetrico-ritmico”, ispirato al principio di rigidità, in cui tutte le attività sono previste e regolate (controllo di sé e delle emozioni, filtro selettivo nella ricezione e nell’ascolto, disciplina del tempo), va affiancato uno stile “individualistico-spontaneistico”, ispirato al principio di flessibilità e dominato dalla disponibilità a lasciarsi andare all’imprevedibilità degli eventi e delle forme (organizzazione della vita caso per caso, disposizione a sentire ed agire in consonanza con i dati esterni).
La complessificazione del sapere sociale implica, inoltre, che esso sia, nel suo complesso, indisponibile per il singolo. L’esperienza si stacca quindi dall’Erfahrung, che diventa un corpo opaco e inutilizzabile per le nuove condizioni di vita, e diventa esperienza individuale: non esiste più un senso comune condivisibile e comunicabile per tutti i membri di una comunità. Simmel ricorre, sempre ne La filosofia del denaro, ai concetti di cultura oggettiva e cultura soggettiva per chiarire meglio la scissione tra sapere individuale e sapere sociale: la cultura oggettiva si deposita nelle cose del mondo, negli artefatti e nei prodotti materiali; la cultura soggettiva è il bagaglio di conoscenze che ciascun soggetto custodisce attingendo al sapere oggettivo. Il rapporto tra le due forme culturali è incrinato poiché, con la modernizzazione, la cultura oggettiva si espande a dismisura, tanto da essere irriducibile alle possibilità cognitive degli individui. L’esperienza diventa dunque individuale, è la componente soggettiva a determinarla, sia perché ogni esperienza è unica e differente da quella degli altri membri della comunità, sia perché sono differenti i significati che ciascun soggetto attribuisce alle proprie esperienze. Come abbiamo parzialmente visto nel primo capitolo, nella lettura che Simmel sviluppa in La metropoli e
la vita dello spirito (1900), la vita metropolitana distrugge ogni possibilità di mondi
culturali omogenei, cosicché gli abitanti della metropoli costruiscono identità plurali e diversificate. La vita nella metropoli si organizza anche attraverso un pervasivo sistema dei consumi, che stimola l’individuo a strutturare le proprie esperienze secondo un processo duplice e in apparenza contradditorio: egli anela a uniformarsi al flusso delle culture di massa, a standardizzare il proprio stile di vita per sentirsi parte di una comunità, ma, nello stesso tempo, desidera differenziarsi per rivendicare la propria unicità e difendersi dal pericolo dell’anomìa derivante dal mutamento sociale continuo. In questa
ottica l’esperienza può essere vista come un processo che comprende almeno due momenti: quello in cui si esperiscono momenti di vita e quello in cui a questo vissuto si conferisce un personale senso. Nella modernità e, in parte, nella postmodernità, ciò che, nell’esperienza individuale, si radicalizza è l’eccedenza, intesa come surplus di possibilità a cui il soggetto può accedere per sperimentare la propria identità. Questa molteplicità di possibili opzioni, se ha nella libertà di esperire il mondo e gli altri in maniera ampia e variegata il maggior pregio, d’altro canto presenta il rischio che l’individuo, in virtù delle infinite sfaccettature dell’agire sociale, faccia fatica a percepirsi come un soggetto unitario e continuo. Nella prospettiva simmeliana, studiare l’esperienza vuol dire comprendere le modalità con cui la cultura oggettiva e la cultura soggettiva interagiscono reciprocamente, in un processo dialettico in cui si collocano sia il fare esperienza (attraverso i sensi e la percezione) che l’avere esperienza (l’elaborare culturalmente i percetti).
È ancora alla teoria sociologica dell’esperienza di Benjamin, però, che dobbiamo tornare per collocare l’esperienza nel flusso della vita quotidiana. Come Simmel, anche Benjamin guarda all’esperienza non come deposito statico, ma come processo dinamico di elaborazione del vissuto finalizzato a conferire continuità e senso al presente. Nel saggio su Baudelaire, Benjamin sottolinea come il fare esperienza non richieda tanto l’investimento delle risorse attentive, quanto la distrazione, l’abbandono: mentre il vissuto esperito consapevolmente si deposita nell’intelletto come “morta collezione” (Jedlowski 1989: 38), è ciò che si deposita nella memoria involontaria a consentire al soggetto di richiamare i tratti dell’esperienza. L’esperienza vissuta con disattenzione si realizza concretamente mediante le abitudini che il filosofo natio di Charlottesburg definisce “l’armatura dell’esperienza”. Com’è evidente, le abitudini, in quanto azioni codificate e ritualizzate, sono dominanti nella vita quotidiana; l’individuo vi ricorre perché può risparmiare energie percettive da investire per rispondere ad altri stimoli sensoriali. È dunque proprio la vita quotidiana la dimensione ideale per l’esperienza, poiché l’atteggiamento prevalente nel quotidiano esibisce quei caratteri di distrazione utili affinché l’esperienza sedimenti: “questo atteggiamento fornisce la coltre di inconsapevolezza che protegge i vissuti dalla luce abbagliante della coscienza per il tempo necessario alla loro elaborazione” (Jedlowski 1989: 40). L’abitudine è solo la prima precondizione affinché, nella vita quotidiana, l’esperienza possa manifestarsi. Per l’intellettuale di origine ebraica, infatti, un secondo momento necessario è la capacità del soggetto di estraniarsi da quanto ha vissuto, di percepirlo come altro da sé, come oggetto
estraneo, di cui riappropriarsi, in un terzo momento indispensabile, attraverso il linguaggio. In una simile prospettiva sociologica, i contenuti dell’esperienza non sono gli avvenimenti eccezionali e i fatti memorabili, ma quanto ci consente, nella banalità e nella noia della ripetizione giornaliera, di conferire un senso al presente. Se, dunque, intendiamo l’esperienza in termini processuali come qualcosa in grado di unire l’insieme delle sfere dell’agire individuale e attribuirgli significati, possiamo concepire la frattura che si insedia tra esperienza e senso comune. Nella storia del pensiero sociologico, tra i primi autori a riflettere sul senso comune va annoverato Alfred Schütz che, negli Scritti sociologici, analizza lo sfondo intersoggettivo della vita quotidiana. Lo studioso evidenzia che il mondo della vita quotidiana “esisteva prima della nostra nascita, di esso avevano fatto esperienza altri, i nostri predecessori, e (...) lo avevano interpretato come un mondo organizzato” (Schütz 1979: 7-8). Questo mondo esibisce dunque due qualità agli occhi del soggetto: la solidità della realtà esperita e l’organizzazione degli oggetti che ne fanno parte. Da questa constatazione ne deriva un’altra: il mondo della vita quotidiana appare come costitutivamente intersoggettivo, costruito da un’azione collettiva di più soggetti. Il sapere di senso comune, allora, si basa sulla reciprocità di prospettive (ossia la consapevolezza che gli oggetti del mondo sono accessibili alla conoscenza di altri soggetti con cui condivido la realtà quotidiana), sull’origine sociale della conoscenza (una minima parte della conoscenza perviene al soggetto attraverso l’esperienza individuale, tutto il resto è trasmesso medianti i canali delle agenzie di socializzazione: famiglie, istituzioni, scuola) e sulla distribuzione sociale delle informazioni (poiché nessuno sa tutto, ma tutti sanno qualcosa, è indispensabile ricorrere agli altri). L’impianto teorico di Schütz viene arricchito da altri due fenomenologi, Peter Berger e Thomas Luckmann (1997), che, ne La
realtà come costruzione sociale, aggiungono che la realtà della vita quotidiana è strutturata
secondo un ordine temporale e spaziale, che non dipende dalla volontà dell’individuo. Riassumendo, in quest’accezione fenomenologica il sapere di senso comune è visto come una presenza data per scontata della realtà, oggettiva, spaziotemporalmente organizzata e, infine, di natura intersoggettiva. Jedlowski (2010) interpreta il senso comune, in un’accezione differente, come una memoria, come pensiero che dà il mondo per scontato e, soprattutto, come una costruzione, ovvero come il frutto di una serie infinita di accordi. Vista come un processo intenzionale fondato sull’accordo intersoggettivo, la nozione di senso comune perde il carattere di inintenzionalità (cioè di conoscenza data per scontata) che aveva nelle formulazioni di Schütz e Berger. Inoltre Jedlowski individua due
caratteristiche del senso comune su cui convergono quasi tutte le teorie sociologiche: il suo carattere pragmatico e il suo costituirsi come sfondo di presupposti dati per scontati che rendono possibile la vita comune. Tuttavia, non tutte le componenti del senso comune possono essere ridotte a una matrice pragmatica. È Bruce Bégout (2005) ad evidenziare la natura “dubbiosa” e incerta dell’esperienza quotidiana, dovuta alla fragilità di ogni nostra “presa” sulla realtà. L’esperienza si trova sul precipizio della infinità di significati che può assumere l’esistenza quotidiana. Ma questa “vertigine dell’infinito - il sospetto cioè di una radicale indeterminatezza dell’esistenza, di un suo eccesso costitutivo rispetto alla nostra capacità di attribuirvi senso - è proprio ciò che il senso comune è chiamato a fugare” (Jedlowski 2007: 10-11). All’apertura costitutiva ed insopprimibile dell’esperienza, pronta ad accogliere la ricchezza e i rischi derivanti dal contatto con le forme mutevoli del reale, deve provvedere, per Bégout, qualcosa che delimiti le vie di fuga del possibile e garantisca la sopravvivenza di uno spazio ordinato, leggibile, condiviso: il senso comune. La dialettica tra senso comune ed esperienza non è mai risolta una volta per tutte, poiché ogni dispositivo predisposto alla formazione del senso comune si nutre delle energie dialettiche tra questi poli opposti.
Un’ultima caratteristica dell’esperienza individuale, ben evidenziata da Jedlowski (2010), è la sua natura intrinsecamente processuale (ciò che ne alimenta la dialettica inesausta con il senso comune) e duplice. L’esperienza è infatti l’insieme dei vissuti che il singolo esperisce nella vita quotidiana, ma anche l’insieme dei significati che attribuisce a questi vissuti. Il soggetto matura esperienza mentre vive, ma non è scontato che sia consapevole dell’esperienza che sta maturando; quindi la dimensione esperienzale può manifestarsi in maniera sfuggente al soggetto stesso che la abita.
Questo rapidissimo excursus nelle principali teorie sociologiche dell’esperienza e del senso comune (su cui si rinvia a Terenzi 2002) si è reso necessario per chiarire i confini entro cui il concetto di esperienza, da una prospettiva sociologica, serve a dar conto delle modalità di relazione tra soggetto e ambiente sociale. Nel momento in cui l’ambiente sociale è saturato dai media e, come abbiamo cercato di argomentare nel cap. 3, la vita quotidiana stessa può essere esperita principalmente attingendo ai mezzi di comunicazione, allora il concetto di esperienza costituisce, a nostro avviso, uno strumento epistemologico essenziale, non più soltanto per illuminare le modalità di interazione tra gli spettatori e il film (esperienza filmica), ma più radicalmente per illustrare la svolta antropologica attraverso cui i soggetti, dentro/con/nei media, esperiscono nuove modalità
di percepire i soggetti e gli oggetti del mondo contemporaneo attraverso varie forme di relazione (esperienza mediale).