• Non ci sono risultati.

Guerra-tribunale: criminalizzazione del Kaiser e Processo di Lipsia.

III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.

6. Ritorno alla justa causa.

6.1 Guerra-tribunale: criminalizzazione del Kaiser e Processo di Lipsia.

In due articoli del trattato di Versailles, che pose fine al conflitto mondiale, è possibile notare le più significative innovazioni riguardanti il concetto di guerra: l’articolo 227, che pone sotto accusa l’imperatore Guglielmo II e l’articolo 231, relativo alle responsabilità di guerra della Germania. Prima di passare alla loro analisi, è necessario soffermarsi sull’articolo 228, significativo perché, contrariamente agli altri due citati, non contiene sostanziali mutamenti rispetto al diritto internazionale fino a quel momento vigente.

L’articolo in questione riguarda il riconoscimento, da parte del governo tedesco, del diritto delle Potenze alleate e associate di condurre dinnanzi a tribunali militari le persone accusate della commissione di atti in violazione delle leggi e degli usi di guerra. Come si nota, questa disposizione prevede la punizione delle offese contro lo jus in bello, quali erano state previste dalla Convenzione

226

Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 254.

92

dell’Aja del 1907. Il concetto di guerra che traspare da questo articolo non è in contrasto con le normative del diritto internazionale classico: il crimine di guerra (compiuto durante le ostilità) presuppone sempre e comunque che la guerra sia lecita e giusta da entrambe le parti.

L’unica innovazione rispetto allo jus publicum europaeum contenuta nell’articolo 228 riguarda «l’obbligo, per lo Stato vinto, di consegnare allo Stato nemico i propri cittadini che fossero stati criminali di guerra. Viene così introdotto un serio mutamento fondamentale riguardante un istituto primario del diritto, l’amnistia. Fino a quel momento (1918) una clausola d’amnistia era normalmente immanente a ogni trattato di pace, sia in forma esplicita di accordo, sia in forma tacita quale conseguenza derivante dall’essenza di una pace conclusa tra partner che si riconoscevano reciprocamente. Ora, con la discriminazione del vinto, si rompe con tutto ciò. Il mutamento di significato è inequivocabile»228.

L’articolo 231229 presenta degli interessanti spunti di riflessione: la Germania viene definita

responsabile per tutti i danni e le perdite causate ai suoi avversari, in quanto ha loro imposto una guerra (guerra che si qualifica come un’aggressione).

Nonostante non si giunga ad una condanna esplicita della guerra di aggressione e di conseguenza essa non venga definita un crimine (basti pensare che l’articolo 231 si trova sotto il titolo

Reparations e non sotto quello di Penalties, a confermare la sua natura più economico-finanziaria

che non giuridico-penale), è indubbio che esista una correlazione fra le responsabilità della Germania e lo scatenamento della guerra. Quest’ultima, oltre ad avere la caratteristica di essere una guerra di aggressione, sembra assumere anche i tratti dell’ingiustizia. Potremo riformulare l’articolo 231 in questi termini: poiché la Germania ha intrapreso una guerra ingiusta, costringendo i suoi avversari a rispondere all’aggressione, essa – e soltanto essa – è completamente responsabile di tutti i danni e le perdite causate.

È evidente che siamo di fronte, se non ad un completo rovesciamento del concetto di guerra tipico dello jus publicum europaeum, quantomeno ad un suo progressivo deterioramento. Lo stesso Schmitt, in relazione all’articolo 231 del trattato, si interroga sulla questione:

siamo già di fronte a un completo mutamento di significato della guerra? Si è già compiuto il passaggio dal concetto politico di guerra del diritto internazionale interstatale europeo a una guerra discriminante, vale a dire giusta da una parte e ingiusta dall’altra? E può in questo contesto vedersi nel termine aggression il precedente della già perfetta criminalizzazione della guerra di aggressione?230

228

Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 339.

229 «Gli Alleati e i Governi Associati affermano, e la Germania accetta, la responsabilità della Germania e dei suoi

alleati per aver causato tutte le perdite ed i danni che gli Alleati ed i Governi Associati e i loro cittadini hanno subito come conseguenza della guerra loro imposta dall'aggressione della Germania e dei suoi alleati».

93

È indubbio che, con il Trattato di Versailles, vengano fatti i primi passi verso la criminalizzazione della guerra d’aggressione, nonché verso la totale affermazione della guerra discriminante.

Passiamo adesso all’articolo 227, relativo alle responsabilità del Kaiser Guglielmo II. Innanzitutto, notiamo come il detto articolo compaia nella parte settima del trattato, sotto il titolo

Penalties. Come nota Schmitt, in questo caso, diversamente dall’articolo 231, «la qualifica di

un’azione come punibile è espressamente dichiarata già nell’intitolazione. La criminalizzazione è qui intenzionale»231.

Così recita l’articolo: «Le Potenze alleate e associate accusano pubblicamente Guglielmo II di Hohenzollern, già Imperatore di Germania, per crimine supremo contro la morale internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati». La parola crimine è qui utilizzata non nell’accezione consueta, ossia per indicare una violazione dello jus in bello (alla quale si era adeguato l’articolo 228 del presente trattato), bensì per indicare un’indeterminata violazione nel campo della moralità e della politica, compiuta da un capo di Stato.

Schmitt non può far a meno di constatare come questo articolo violi in tutto le regole del diritto internazionale fino a quel momento vigente.

A quel tempo, nel 1919, non era difficile criticare e confutare questo art. 227 tanto sotto il profilo del diritto internazionale vigente quanto sotto quello del diritto penale. Il diritto internazionale europeo non conosceva una giurisdizione internazionale di uno Stato riconosciuto o sul capo riconosciuto di un altro Stato sovrano. Par in parem non habet jurisdictionem. Secondo la concezione dominante, l’unico soggetto di diritto internazionale, anche nel caso di un delitto internazionale, era lo Stato in quanto tale. Il delitto internazionale non significava dunque affatto un crimine nel senso del diritto penale statale. La guerra veniva rigorosamente concepita come una relazione da Stato a Stato, e non tra individui o gruppi. A condurla, sotto il profilo del diritto internazionale, non erano i singoli uomini e neppure il capo di Stato personalmente, ma lo Stato in quanto tale. Il nemico era justus hostis, veniva distino cioè dal criminale. […] Fu così che l’art. 227, che chiamava in causa una persona determinata, Guglielmo II, per una fattispecie tanto indeterminata e minacciava una pena egualmente indeterminata, conservò in sé la carica di odio tipica di un diritto eccezionale dichiaratamente personalizzato232.

Non stupisce – continua Schmitt – se il tentativo di condurre il Kaiser di fronte ad un tribunale internazionale non ebbe alcun esito; le stesse potenze alleate, di fronte al diniego dell’Olanda a concedere l’estradizione di Guglielmo II, lasciarono cadere la questione.

Un esito parzialmente diverso l’ebbe l’articolo 228, relativo alla punizione dei responsabili tedeschi di violazioni dello jus in bello. Di fronte all’ondata di risentimento che si scatenò in Germania quando si cercò di far rispettare il suddetto articolo – che prevedeva la consegna ai paesi vincitori

231

Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 339.

94

dei responsabili, per sottoporli a procedimenti giudiziari – la preoccupazione per possibili sviluppi in senso rivoluzionario di tale risentimento impedì l’osservanza di quanto disposto dall’articolo. Nel 1920 la Germania avanzò la controproposta, accettata, di processare gli imputati davanti alla Corte suprema di Lipsia. Della lista redatta dalle potenze vincitrici, contenente 854 nomi di cittadini tedeschi accusati di crimini, soltanto 54 comparvero sul banco degli imputati di Lipsia. Di questi, alcuni vennero assolti, molti altri si videro irrogare pene modeste. La vicenda si concluse nel 1922, con il rifiuto dei paesi vincitori di riconoscere le sentenze emesse dalla Corte di Lipsia.

Nonostante l’evidente fallimento dei propositi giudiziari espressi nel Trattato di Versailles, è indubbio che lo sdegno per le violenze perpetrate durante il Primo conflitto mondiale produsse «la diffusione negli ambienti giuridici [e non solo] di una concezione che nei processi intravedeva la possibilità di promuovere un’idea del diritto internazionale come strumento di pace»233.

La guerra del 1914-18, con il suo tragico portato di morte e distruzione, oltre ad accrescere nell’opinione pubblica il desiderio di individuare e punire i responsabili, mise in campo la questione dei crimini di guerra, la quale dimostrerà tutta la sua rilevanza nel successivo conflitto mondiale.

La questione dei crimini di guerra nel conflitto 1914-18 pone sul tappeto tutti i problemi che di lì a vent’anni si riproporranno, amplificati e moltiplicati da un conflitto ancor più tragico e sanguinoso: l’inadeguatezza delle norme esistenti a giudicare un tipo del tutto nuovo – nella quantità ed estensione, se non nella qualità – di crimine di guerra, perché inedita è la forma assunta dalla guerra stessa; conseguentemente, il problema della retroattività, non concepita nella tradizione giuridica europea, di una norma necessaria a sanzionare un esercizio della violenza non previsto (e praticato da tutti i belligeranti, ma imputato solo ai vinti); l’emergere di una cultura giuridica favorevole a stabilire regole di diritto internazionale e a stabilire organismi e strumenti atti ad applicarlo; il conflitto di questi orientamenti e delle esigenze di una vasta politica della punizione con gli orizzonti delle scelte politiche e delle concrete necessità del dopoguerra […]; il deludente esito di processi nei quali a discarico degli imputati appare l’argomento della necessità di eseguire ordini superiori […]234.

La Grande Guerra rappresentò il primo banco di prova dei tentativi di regolamentare le pratiche belliche, concretizzatisi nel decennio precedente con la firma delle Convenzioni. I combattimenti, le trincee, le prese di ostaggi, i bombardamenti e i campi di prigionia – elementi ormai entrati a far parte della realtà della guerra – dimostrarono tutti i limiti della volontà di umanizzazione dei conflitti.

La prima guerra mondiale non manca di dimostrare i limiti di questa logica. Tuttavia questo impegno in favore del diritto di guerra, del diritto nella guerra, non è un’utopia. Corrisponde a un’esigenza pregnante espressa durante la seconda metà del XIX secolo attraverso la firma di convenzioni successive, attraverso la creazione della Croce rossa. La prima guerra mondiale metterà d’altronde in evidenza, sotto una luce cruda, questa tensione tra l’aspirazione al

233

Luca Baldissara, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della “giustizia politica”, in Luca Baldissara, Paolo Pezzino (a cura di), p. 37.

95

mantenimento di regole del diritto nelle guerra, come tracce ultime di umanità, e la realtà dei combattimenti, delle trincee, delle prese d’ostaggi , dei bombardamenti o dei campi di prigionia. Il ruolo del diritto è dunque allo stesso tempo immenso e irrilevante. Immenso perché è una delle frontiere tra l’umanità e la sua negazione. Irrilevante perché, nei suoi obiettivi, alberga un ripiego – regolamentare la guerra senza poterla impedire – e nei fatti, è incapace di impedire l’irreparabile235.

Outline

Documenti correlati