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La Rivoluzione francese e l’esperienza napoleonica.

L’Europa settecentesca era un sistema di Stati con frontiere nettamente tracciate, al cui interno i sovrani esercitavano un potere senza limiti. I loro rapporti reciproci, come le guerre126 che spesso li

coinvolgevano, erano condotti all’insegna di chiare norme di diritto internazionale.

Gli sconvolgimenti a questo sistema ordinato di relazioni furono dovuti in massima parte al venticinquennio di guerre quasi ininterrotte, dal 1792 al 1815, tra la Francia rivoluzionaria e i suoi vicini.

La Rivoluzione francese fu il primo vulnus inferto allo jus publicum europaeum; nessun sconvolgimento di carattere territoriale – lo scenario rimane europeo – e dunque nessun nuovo nomos della terra127. Nemmeno le innovazioni tecnologiche giocarono un ruolo decisivo nello

sconvolgere gli schemi e le strategie belliche.

A mutare è il significato intrinseco della guerra: non più affare di Stato, bensì affare di popolo, essa acquista una forte valenza ideologico-politica. Ideali astratti quali libertà, uguaglianza, nazionalità divengono il grido di battaglia delle folle rivoluzionarie. L’elemento bellico, caricato di una tale valenza politica, tornò a somigliare alla conflittualità priva di limiti delle guerre di religione europee.

La guerra divenne quindi un affare di popolo, come succede ogni volta che si alza la febbre politica e come successe con la Rivoluzione francese. «In quella come in ogni occasione analoga, gli obiettivi politici tornarono bruscamente ad ampliarsi e “l’elemento della guerra, sbarazzandosi da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua naturale violenza” [Clausewitz, 1832]»128

. Carlo Galli condivide il giudizio sull’eccezionalità dell’evento rivoluzionario francese.

Le finalità ideologiche del conflitto, la pretesa che la guerra realizzi una verità ideale, una libertà nuova, rendono la guerra nuovamente «giusta» tanto verso il nemico interno quanto verso quello esterno. Che l’immane potenza della nazione in armi faccia giustizia di avversari privi di legittimità, che non sono iusti hostes ma ideologicamente

125

Carlo Galli, Guerra, p. XVIII.

126 Nel periodo fra la Pace di Westfalia e la Rivoluzione Francese le guerre erano generalmente causate da questioni di

successione e da tentativi di modificare l’equilibrio di forze fra le potenze europee; tali conflitti avevano comunque il carattere di guerre limitate, coerenti con i dettami dello jus publicum europaeum.

127 È significativo il fatto che Carl Schmitt, nel suo Il nomos della terra, non dedichi particolare attenzione al fenomeno

rivoluzionario francese e all’avventura napoleonica; nell’economia del suo lavoro, tali eventi non appaiono troppo significativi, in quanto non legati ad un particolare e nuovo ordinamento territoriale.

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squalificati, che la guerra da faccenda di Stato divenga fatto sociale e di popolo, che serva a ridisegnare non le carte geografiche ma le carte costituzionali e ideologiche d’Europa, dentro e fuori la Francia, conferisce a questa nuova guerra un dinamismo, un’aggressività, un’assolutezza, una coralità, che – insieme alla presenza del genio, del condottiero politico-militare, Napoleone – costituiscono appunto i cardini della guerra assoluta129.

Giusta è la guerra a difesa (e di esportazione) degli ideali della Rivoluzione.

Michael Howard ci fa notare come i progressi tecnologici non furono così determinanti nel decretare il successo delle armate rivoluzionarie, nemmeno quando esse furono sotto il comando di Napoleone.

C’erano state, è vero, importanti innovazioni in campo tattico; tutte però, senza eccezioni, erano state ampiamente discusse e, almeno parzialmente, messe in pratica nei decenni precedenti le guerre della Rivoluzione da comandanti e teorici dell’arte militare. Fra tutte queste […]: l’articolazione dei corpi d’esercito in divisioni; una maggiore mobilità nell’impiego dell’artiglieria da campagna […]; la sostituzione della linea con la colonna d’attacco […]130.

Gli stessi progressi nell’armamento della fanteria, come il moschetto munito di baionetta a collare, risalivano alla fine del Seicento.

Nessuna nuova arma giustificò il successo delle armate rivoluzionarie; gli eserciti che fronteggiarono la Francia erano più o meno dotati del medesimo equipaggiamento militare.

Solo quando la Rivoluzione fu costretta a difendersi nel 1792 dagli eserciti d’invasione nemici fu evidente l’elemento di novità; poiché soltanto una piccola parte dell’esercito monarchico era rimasta fedele al governo rivoluzionario, provocando scarsità di fanteria addestrata e disciplinata, si fece «di necessità virtù».

I vuoti nei ranghi [vennero] colmati con volontari che non avevano nessuna intenzione di accettare la disciplina tradizionale, supponendo che vi fosse stato il tempo necessario per applicarla. […] Essi combattevano da uomini liberi per difendere la libertà; e per gli uomini liberi il modo più naturale di combattere è un miscuglio di scaramucce individuali e una colonna di attacco in massa al grido à la baionette! Naturalmente questo era l’unico modo possibile per impiegare uomini che avevano maneggiato il moschetto non più di due o tre volte prima della battaglia; e bisogna dire che non funzionò affatto male131.

Quando nel 1793 l’afflusso dei volontari si era esaurito, con legge apposita del 23 agosto si posero i francesi «in stato di requisizione permanente per il servizio militare». Alla fine del 1794 l’esercito rivoluzionario poteva contare su oltre un milione di uomini; l’obiettivo era ottenere una schiacciante superiorità numerica su ogni campo di battaglia.

Howard cita le parole e i motti di Lazare Carnot, l’organizzatore dell’esercito rivoluzionario, per esemplificare lo stato d’animo dominante in Francia in quei frangenti.

129

Carlo Galli, Guerra, pp. XVIII-XIX.

130

Michael Howard, La guerra e le armi nella storia d'Europa, p. 144.

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Agir toujours en masse!, agire sempre in massa, era la sua parola d’ordine: «Basta con le manovre, basta con l’arte militare; occorrono soltanto fuoco, acciaio e patriottismo!». Quella componente di assoluta ferocia che si era quasi del tutto perduta di vista nel Settecento, divenne ora predominate. «La guerra è violenta di per sé – scriveva Carnot – Bisogna condurla a oltranza o tornarsene a casa». Finché il terrore era all’ordine del giorno nel paese, a fortiori avrebbe dovuto regnare sovrano sul campo di battaglia. «Il nostro scopo è lo sterminio – tale era il suo incitamento – lo sterminio fino alle estreme conseguenze». Le guerre non erano più moderate e non decisive132.

Da queste parole ben si intuisce come gli eventi rivoluzionari segnarono effettivamente il crollo di alcuni capisaldi fondanti lo jus publicum europaeum; guerre di popolo, coscrizione di massa, ideali emancipatori, guerre di sterminio: tutto ciò sembra screditare il tentativo attuato dal diritto internazionale di regolamentare, limitare e professionalizzare il fenomeno bellico, facendolo ritornare alla barbarie del secolo delle guerre di religione. Ma la Rivoluzione francese fu anche il primo assaggio e il presagio della guerra totale novecentesca.

Alessandro Colombo così evidenzia i caratteri propri del periodo rivoluzionario che più fanno presagire il paradigma delle guerre future.

Prima della Rivoluzione francese, l’estraneità dei popoli governati rispetto alle decisioni sulla pace e sulla guerra trovava almeno il proprio corrispettivo nell’estraneità dei primi alle violenza della seconda. […] La caduta della separazione e l’irruzione del popolo nell’universo della guerra non può avvenire in un senso senza travolgere (presto o tardi) anche l’altro. A mano a mano che la guerra di gabinetto lascia posto alla guerra di popolo, l’idea che quest’ultimo debba restare al riparo dalla violenza perde plausibilità, si indebolisce e, in certe condizioni, scompare del tutto. Anche quando i tempi non sono ancora maturi, la guerra «totale» sta già preparando il proprio terreno133.

Napoleone si trovò a disporre degli ideali e degli strumenti rivoluzionari, ai quali applicò il suo genio, politico e militare ad un tempo. Fra il 1801 e il 1805 egli organizzò gli eserciti francesi seguendo uno schema che sarebbe stato adottato da tutte le forze militari europee nei centocinquant’anni seguenti, affinando e perfezionando la tattica degli eserciti rivoluzionari:

un sistema capace di un decentramento quasi illimitato pur mantenendo un comando supremo unico. L’esercito fu suddiviso in corpi d’armata, ciascuno composto di due oppure tre divisioni, di fanteria o di cavalleria, forti di circa 8000 uomini ciascuna. Ogni divisione di fanteria comprendeva due brigate, ogni brigata due reggimenti, ogni reggimento due battaglioni134.

La tattica richiamava quella che era stata propria delle armate rivoluzionarie: orde di uomini, all’apparenza prive di disciplina e di organizzazione, si scagliavano contro eserciti “settecenteschi”, professionali e ben schierati.

Un nugolo di fanti leggeri e tiratori scelti precedeva il corpo principale allo scopo di disorganizzare la resistenza nemica. L’artiglieria prendeva d’infilata le linee nemiche; poi colonne di fanteria forti di decine di migliaia di uomini

132

Michael Howard, La guerra e le armi nella storia d'Europa, pp. 151-152.

133

Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 112.

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caricavano ripetutamente ed entusiasticamente alla baionetta, finché non si creava un punto debole contro il quale Napoleone poteva concentrare il tiro di artiglieria e lanciare le proprie riserve. Usate senz’arte contro truppe solide e schierate su forti posizioni […], tattiche del genere avrebbero potuto equivalere ad un suicidio135.

Così non fu. La forza d’urto dell’esercito napoleonico non trovava ostacolo nelle ordinate truppe avversarie: dopo ore di bombardamento e fuoco sparso, ogni velleità di controllo sulla battaglia veniva meno e il nemico era costretto ad un’ignominiosa fuga.

Presto, i punti di forza delle armate rivoluzionarie si tramutarono, per Napoleone, in fattori negativi, che decretarono il suo disastro:

con il ripetersi delle guerre e lo scadimento di qualità dei coscritti, le tattiche di Napoleone si ridussero a una specie di ostinato martellamento demolitore. Le truppe arruolate dopo il 1806 non ricevettero alcun addestramento alla marcia ed alla manovra; tutt’al più qualche istruzione di tiro. I rudimenti indispensabili li imparavano dai compagni anziani durante le marce di trasferimento136.

Le battaglie che seguirono, pur vittoriose, costarono al generale un numero crescente di perdite. Alla fine, gli eserciti avversari – avendo intuito la difficoltà di Napoleone ad approvvigionare un esercito che poteva contare anche centinaia di migliaia di uomini e avendo ormai compreso la sua tattica vincente, basata sulla ricerca della battaglia decisiva – in occasione della campagna russa del 1812 permisero al generale corso una penetrazione nel paese più profonda di quanto il suo sistema di rifornimenti fosse in grado di sopportare, evitando al contempo di ingaggiare battaglia. Il freddo e la fame fecero il resto per decretare la sconfitta.

Nonostante la disfatta sul campo e il conseguente tramonto dell’astro napoleonico, alle altre potenze europee fu evidente che l’esperienza rivoluzionaria prima, e quella napoleonica dopo, rappresentarono un punto di non ritorno nell’evoluzione dell’arte di fare la guerra; inoltre, si comprese che «l’evidente scatenarsi di energie nazionali all’interno della Rivoluzione francese non [fu] un fenomeno transitorio, ma un cambiamento fondamentale destinato a trasformare le relazioni sia politiche che militari fra le società europee»137.

Sebbene dal 1814 in poi la preoccupazione principale delle classi di governo europee consistette nel cautelarsi da una ripetizione dell’esperienza napoleonica, cancellando fintanto la memoria del venticinquennio appena trascorso, fu presto evidente come un ritorno al passato sarebbe stato impossibile: gli eserciti compresero ben presto che le guerre totali e prive di limiti del periodo rivoluzionario avevano segnato la nascita di un nuovo paradigma, che si sarebbe perfezionato con le guerre totali novecentesche. I continui progressi tecnologici, che segnarono tutto il XIX secolo, fornirono il supporto materiale a questa evoluzione.

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Michael Howard, La guerra e le armi nella storia d'Europa, p. 161.

136

Ivi.

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