3. Giuristi contro teologi: dalla morale al diritto.
5.1 Vattel: la guerra in forma nel secolo dei Lumi.
La famosa espressione ‘guerre en forme’, pronunciata da Emmerich de Vattel, consente di collocare il giurista svizzero fra coloro che più hanno contribuito alla sistemazione del moderno diritto internazionale.
All’epoca di Vattel, l’Europa si presentava quale ordinato sistema di Stati, che riusciva, pur a prezzo di guerre, a garantire un equilibrio di potere. La riflessione del giurista svizzero è dunque figlia di questo stato di cose.
Innanzitutto, egli non ha dubbi nel ritenere che il diritto di fare la guerra spetti esclusivamente al potere sovrano; che poi la guerra sia di carattere offensivo, difensivo o preventivo non influisce sulla sua natura di atto statale e giuridico.
Si tratta qui solamente di indicare in generale i diversi obiettivi per cui si prendono le armi [per rivendicare alcuni diritti, per difendersi da un nemico, per prevenire un torto]; obiettivi che possono fornire ragioni legittime o pretesti ingiusti, ma che quanto meno possono venire rivestiti di una veste giuridica99.
Dunque, per Vattel, perché una guerra sia en forme non deve rispondere a requisiti contenutistici – i
perché – bensì basta che abbia la forma della pura statualità. Vien da sé che oltre ai caratteri
superficiali, che rendono una guerra offensiva o difensiva, parimenti non è richiesto, alla guerra in forma, che essa risponda a dei parametri di giustezza.
97
Luca Scuccimarra, I confini del mondo, p. 288.
98
Alessandro Colombo, La guerra ineguale, pp. 105-206.
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Tutto ciò che è praticamente essenziale dipende […] esclusivamente dal fatto che la guerra è «una guerra in forma» […]. Nessuno ha il diritto di speculare sul carattere giusto di una guerra, né le parti in causa né i neutrali, a condizione che la guerra sia «in forma». Ogni «giustizia» si riduce a questa «forma» e ciò significa agli effetti politico-pratici nient’altro che le guerre che vengono condotte sul suolo europeo da Stati territoriali chiusi contro Stati territoriali chiusi a loro eguali – le pure guerre statali – sono qualcos’altro dalle guerre cui prende parte un non-Stato: ad esempio popolazioni barbariche o pirati. Così si esprime Vattel: un uomo di Stato che conduca a torto una guerra «in forma ufficiale» non fa torto a nessuno dal punto di vista del diritto internazionale, ma «pecca al massimo nei confronti della sua coscienza»100.
Schmitt, pur riconoscendo a Vattel il merito di aver sistematizzato il moderno diritto internazionale, ammette che il giurista, nella sua trattazione, conserva alcuni luoghi comuni riguardo alla guerra giusta nel senso della justa causa. In effetti, nel suo Le droit des Gens, Vattel spesso insiste sulla necessità che l’autorità statale conduca delle guerre solo se motivate da una giusta causa. Vediamo alcuni passi significativi a questo proposito:
Bisogna che la nazione, o il suo comandante in capo, abbiano dei motivi onesti e lodevoli che concorrano con le ragioni giustificative, per poter intraprendere la guerra, dal momento che non devono solamente proteggere la giustizia, in tutti i suoi aspetti, ma anche costantemente calibrare questi ultimi sul bene dello Stato. Queste ragioni dimostrano come il sovrano abbia il diritto a prendere le armi poiché ne ha una causa giusta; i motivi onesti mostrano che è appropriato e conveniente, nel caso specifico di cui si tratta, che egli usi il proprio diritto101.
Ancora:
Colui che intraprende una guerra, per motivi solo di utilità, senza giustificazioni, agisce senza alcun diritto e la sua guerra è ingiusta102.
La guerra non può essere giusta da ambo le parti. Una si attribuisce il diritto, l’altra glielo contesta; una si lamenta del torto, l’altra nega di averlo procurato. Sono come due persone che litigano sulla verità di una proposizione: è impossibile che le due opinioni contrarie siano vere allo stesso tempo103.
Secondo Schmitt, pur essendo questi passi molto espliciti, rappresentano comunque semplici espedienti retorici, vuoti topoi e luoghi comuni. Ciò che Vattel vuole dire riguardo alla giustezza di un conflitto inerisce al piano della moralità, ossia rimanda alla coscienza del singolo sovrano che decide di intraprendere una guerra; dal punto di vista del diritto, un sovrano che dia inizio alle ostilità guidato da motivazioni inadeguate o ingiuste non è condannabile. Su questo Vattel è stato altrettanto esplicito. Lo stesso Schmitt cita un passo del giurista, inequivocabile a questo proposito: «perfaite égalité de droits entre les nations, sans égard à la justice intrinsèque de leur conduite, dont il appartient pas aux autres de juger dèfinitivement».
100 Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 199. 101
Emmerich de Vattel, Le droit des Gens, 1758, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 89.
102
Ibid., p. 90.
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Ancora Vattel su questo punto:
se le nazioni sono uguali e indipendenti e non possono ergersi a giudici le une delle altre, ne consegue che in tutte le cause suscettibili di dubbio le armi delle due parti che si fanno guerra devono essere valutate entrambe legittime, almeno da un punto di vista esteriore e fino a quando la causa non sia definita104.
È inoltre evidente che Vattel conduca la sua argomentazione su due piani diversi, quello della morale e quello del diritto: se da una parte avanza considerazioni circa la giustezza di un conflitto, dall’altra è fermamente convinto che sia sufficiente per decretarne la legittimità che esso si presenti come una relazione interstatale. La definizione di ‘guerra giusta’, in Vattel, può dunque assumere un duplice significato: guerra condotta ex justa causa e guerra regolare.
[Alcune formalità] caratterizzano la guerra legittima e regolare (justum bellum). Grozio sostiene che, secondo il diritto delle genti, sono richieste due cose perché una guerra sia solenne, o regolare: la prima è che la guerra sia condotta da una parte e dall’altra per autorità del sovrano; la seconda è che sia accompagnata da alcune formalità. Queste consistono nella richiesta di un giusto risarcimento […] e in una dichiarazione di guerra […]. In effetti, secondo il diritto delle genti sono queste le condizioni necessarie perché una guerra sia legittima, ovvero perché le nazioni abbiano il diritto di farla. […] Chiamiamo questa guerra regolare anche guerra regolata, perché vi si osservano alcune regole prescritte o dalla legge naturale o adottate per consuetudine105.
Parimenti, guerra ingiusta (o illegittima) per Vattel sarà sia un conflitto iniziato per motivi futili e biasimevoli, sia una guerra informale, come i «brigantaggi, che si fanno senza l’autorità legittima o senza un motivo apparente o ancora senza formalità o solamente per saccheggiare»106
.
Spesso, i due piani, quello della moralità e quello del diritto, si intersecano nell’argomentazione vatteliana:
[il] diritto delle genti volontario […] non dà a colui le cui armi sono ingiuste un vero diritto, che sia in grado di giustificare la sua condotta e di rassicurargli la coscienza, ma solamente l’aspetto esteriore, e gli effetti, del diritto, e di conseguenza l’impunità fra gli uomini. […] Il sovrano le cui armi non siano autorizzate dalla giustizia non è dunque meno ingiusto né meno colpevole contro la sacra legge della natura. […] Così, secondo le leggi civili, un debitore può rifiutarsi di pagare il proprio debito, quando c’è la prescrizione; e tuttavia è manchevole davanti al proprio dovere. Approfitta di una legge, che ha lo scopo di prevenire una quantità eccessiva di processi; ma agisce senza possedere un vero e proprio diritto107.
Il diritto di fare la guerra è riconosciuto a tutte le autorità statali, le quali hanno pieno arbitrio sulle motivazioni; è però auspicabile, dice Vattel, che le stesse autorità facciano un buon uso di tale diritto. Se la legge non ha niente da dire sulle motivazioni addotte per iniziare un conflitto, la coscienza del sovrano deve ugualmente essere pulita.
104 Emmerich de Vattel, Le droit des Gens, 1758, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 91. 105
Ibid., p. 95.
106
Ivi.
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È comunque fuor di dubbio che per il giurista svizzero la moralità e la giustezza delle cause occupino un ruolo rilevante nel giudizio su una guerra. Ad essa, infatti, proprio perché è «una triste e sventurata risorsa»108
, bisogna far ricorso solo se guidati da motivazioni più che giuste.
L’umanità si ribella a quel sovrano che sparge il sangue dei suoi più fedeli sudditi senza necessità o senza motivi impellenti, e che espone il proprio popolo alle calamità della guerra quando potrebbe renderlo felice con una pace gloriosa e salutare. E se all’imprudenza e alla mancanza di amore nei confronti del proprio popolo aggiunge l’ingiustizia verso coloro che attacca, di quale crimine, o meglio di quale orribile serie di crimini non si rende colpevole? Accusato di tutti i mali inflitti ai suoi sudditi, si rende anche colpevole di quelli che causa a un popolo innocente. Il sangue versato, le città saccheggiate, le province devastata: queste sono le sue nefandezze. Non si ammazza un uomo, non si brucia una capanna, senza essere responsabili davanti a Dio e senza renderne conto all’umanità. Le violenze, i crimini, i disordini di tutti i generi, provocati dai tumulti e dall’uso sconsiderato delle armi, macchiano la sua coscienza e gli sono addebitati, poiché ne è il principale responsabile. Possa questo opprimente quadro impressionare i comandanti in capo delle nazioni, e ispirare nelle imprese belliche una cautela adeguata all’importanza della situazione109.
Queste considerazione non hanno comunque inficiato le riflessioni vatteliane nel loro complesso; lo stesso Schmitt, il quale aveva insinuato l’esistenza, nell’argomentazione del giurista, di alcuni retaggi del passato, è convinto che Vattel abbia completamente interiorizzato i precetti cardine dello
jus publicum europaeum, ossia che «la guerra formalmente corretta tra gli Stati è già come tale, in
quanto relazione interstatale, considerata egualmente giusta da entrambe le parti in tutti i suoi effetti giuridici […]»110
.
Infine, ad ulteriore conferma del fatto che Vattel sia un giurista-illuminista settecentesco – con tutto ciò che esso implica – ricordiamo la sua visione dell’Europa.
L’Europa costituisce un sistema politico, un corpo, dove tutto è legato dalle relazioni e dai diversi interessi delle nazioni che abitano questa parte del mondo. Non è più, come un tempo, un ammasso confuso di pezzi isolati, in cui ciascuno si credeva poco interessato alle sorti degli altri, e raramente si preoccupava per ciò che non lo toccava direttamente. L’attenzione costante dei sovrani a tutto ciò che accade, la diplomazia stabile e i negoziati continui fanno dell’Europa moderna una specie di repubblica i cui membri indipendenti, ma legati dall’interesse comune, si uniscono per mantenervi l’ordine e la libertà. È ciò che ha dato vita a questa famosa idea della bilancia politica, o dell’equilibrio del potere. Si intende con questo una disposizione della cose tale che nessuna potenza si trovi nella condizione di dominare in modo assoluto e di dettare legge alle altre. Il mezzo più sicuro per conservare questo equilibrio sarebbe far sì che nessuna potenza superasse di molto le altre, e che tutte, o almeno la parte maggiore, fossero più o meno uguali nella forza111.
108 Emmerich de Vattel, Le droit des Gens, 1758, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 87. 109
Ivi.
110
Carl Schmitt, Il nomos della terra, pp. 198-199.
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Da questo quadro è evidente come Vattel veda nel sistema degli Stati, faticosamente costruito ma finalmente giunto a compimento, la base sulla quale innestare qualsiasi discorso in ordine al diritto internazionale. L’equilibrio fra le potenze rappresenta l’ingrediente indispensabile per il corretto funzionamento dell’intero sistema, in quanto evita l’accentramento di potere nelle mani del più forte. Secondo Vattel – il quale, così facendo, si allinea alla corrente illuminista, sostenitrice della dottrina dell’equilibrio – il modo più sicuro per garantire il bilanciamento delle potenze europee consiste nel «formare delle confederazioni per fronteggiare i più potenti e impedire loro di dettare legge». Nell’eventualità di un conflitto fra due potenze rivali, il compito delle altre potenze consisterà nell’unirsi «alla più debole, come il peso che si getta sul piatto meno carico della bilancia per tenerlo in equilibrio con l’altro»112. All’equilibrio Vattel sembra perfino sacrificare le sue
considerazioni sulla giustezza di un conflitto; non ha importanza chi delle due parti in lotta possieda una justa causa belli: compito degli Stati europei è scongiurare che una potenza acquisti troppo potere rispetto alle altre.
Così concorda anche Schmitt:
Ogni importante guerra fra Stati europei riguarda di conseguenza tutti i membri della comunità statale europea. Ognuno può rimanere neutrale; ma può anche, in forza del proprio jus ad bellum sovrano, intervenire in qualsiasi momento. Si arriva da ultimo così alle guerre di coalizione e a trattative comuni nelle quali si afferma l’interesse comune all’ordinamento spaziale complessivo dell’equilibrio europeo. È così che si perviene ad una limitazione della guerra sulla terraferma europea113.