III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.
5. Dalla limitazione al divieto.
Di fronte all’immane catastrofe della Prima guerra mondiale venne meno la secolare fiducia nell’operazione di razionalizzare e limitare l’uso della violenza, compito finora assolto dallo Stato dello jus publicum europaeum.
La Grande Guerra aveva rivelato come le vecchie istituzioni non fossero più in grado di mantenere le loro promesse e come fosse necessario, non tanto limitare la guerra, ma abolirla del tutto.
Dal momento che la guerra si era rivelata un fenomeno disumano e irrazionale, razionalizzazione e umanizzazione non avrebbero più dovuto comprenderla, bensì bandirla una volta per tutte dalla società internazionale219.
Alla nozione di divieto si ispirarono, all’indomani della Prima guerra mondiale, gli esperimenti di sicurezza collettiva incarnati in un’inedita istituzione internazionale, la Società delle Nazioni. Nonostante il trattato costitutivo contenesse importanti princìpi per assicurare il mantenimento della pace – quali la difesa comune dei facenti parte alla Società contro un aggressore terzo, la risoluzione delle controversie internazionali attraverso la sottoposizione di esse al giudizio del Consiglio, la riduzione degli armamenti – l’intero operato della nuova istituzione fu destinato al fallimento.
I passi compiuti dal Patto nella direzione del ripudio della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali – e verso un ordine internazionale fondato sul rispetto del diritto, sulla cooperazione tra gli Stati e sulla capacità di risolvere i conflitti sfuggendo dal ricorso alla guerra – furono totalmente disattesi, salvo poche eccezioni. Basti pensare che, nel 1923, la Francia occupò il
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Luca Baldissara, Giudizio e castigo. La brutalizzazione della guerra e le contraddizioni della “giustizia politica”, in Luca Baldissara, Paolo Pezzino (a cura di), Giudicare e punire, p. 31.
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territorio della Ruhr, e l'Italia Corfù. La Germania, che pur aveva aderito al Patto nel 1926, si ritirò nel 1933, seguita dal Giappone a seguito della condanna della Società delle Nazioni dell'attacco alla Cina. Ulteriori fallimenti furono il mancato mantenimento della pace tra Bolivia e Paraguay sul Chaco Boreal tra 1932 e 1935 e il non aver potuto impedire la conquista italiana dell'Etiopia a partire dal 1935.
Anche Schmitt concorda sul giudizio complessivamente negativo sull’operato della Società delle Nazioni; secondo lo studioso tedesco, la pecca più grande dell’istituzione ginevrina fu quella di non essere stata in grado di assolvere, se non l’impegnativo compito di abolizione della guerra, almeno quello di una sua limitazione.
Abbiamo fin qui spesso ricordato come non l’eliminazione, ma la limitazione e la moderazione della guerra, ovvero l’esclusione della guerra di annientamento, costituisca il senso di ogni diritto internazionale. Sotto questo punto di vista la Lega di Ginevra non era assolutamente di alcun aiuto. La guerra non discriminante tra gli Stati, tipica del diritto internazionale europeo fino ad allora vigente, venne posta in questione mediante il concetto di sanzione, ma non venne affatto eliminata o soppressa apertamente. Di conseguenza la Lega fallì non solo di fronte al problema prioritario del disarmo, ma anche di fronte al compito di giungere a una limitazione della guerra nel suo complesso220.
Addirittura, Schmitt accusa l’istituzione di aver aperto la strada a forme di violenza bellica più pericolose, in quanto i suoi deboli ed inefficaci tentativi di abolire la guerra hanno impedito una più concreta e fattibile limitazione di essa.
Vanno qui nuovamente ricordate due verità: in primo luogo che il diritto internazionale ha il compito di impedire la guerra di annientamento, ovvero di limitare la guerra qualora questa sia inevitabile; in secondo luogo che un’abolizione della guerra, senza una sua autentica limitazione, ha come unico risultato quello di provocare nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, ricadute nella guerra civile e altre specie di guerre d’annientamento221.
Nonostante i giudizi da parte di molti commentatori sulla Società delle Nazioni non siano stati lusinghieri, è indubbio che essa ebbe il merito di incarnare l’aspirazione alla pace, così forte all’indomani della Grande Guerra. La volontà di abolizione della guerra permeò – oltre che l’istituzione ginevrina – l’intera società post-bellica e tutti i tentativi messi in atto per ripristinare l’ordine internazionale, duramente scosso dai recenti fatti bellici; Colombo propone alcune iniziative significative, quali:
la grande corrente pacifista diffusa nell’opinione pubblica e nel mondo intellettuale europeo per tutti gli anni Venti, e di cui la nascita stessa della disciplina accademica delle relazioni internazionali fu un’espressione caratteristica; […] i primi accordi collettivi, multilaterali e bilaterali, di riduzione concordata degli armamenti (come la Conferenza di Washington del 1920-21) o il divieto della guerra attraverso il diritto (come il Patto Briand-Kellogg del 1928);
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Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 309.
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l’adozione stessa di politiche estere dirette a evitare a ogni costo una nuova guerra, come la politica di appeasement della Gran Bretagna nei confronti della Germania di Hitler222.
Colombo ravvisa come, oltre alla fiducia nella possibilità di porre dei limiti alla guerra, «venne meno la fiducia stessa nella possibilità di opporre mediazioni giuridiche, estetiche o cerimoniali alla realtà – intesa, sempre di più, come ‘dura realtà’ di rapporti di forza (e di conflitti di classe)»223.
Di fronte alla passione novecentesca per lo smascheramento, non soltanto lo stato perse la dignità di magnus homo dello jus publicum europaeum per essere ridotto, invece, a «comunità illusoria» – oppure, in senso non polemico, a diaframma sempre più trasparente di un lavorio ininterrotto di burocrazie e decisori politici «in carne ed ossa», in collaborazione e in conflitto variabile tra loro. La stessa sorte che toccò allo stato toccò anche alla sua forma di violenza, la guerra. Liberata dagli «orpelli» e dalle «ipocrisie» del gioco politico-diplomatico europeo, essa avrebbe potuto finalmente essere quella che, in fondo, era sempre stata: un massacro senza fronzoli e, insieme, senza limiti, a cominciare da quello che aveva preteso di riservare agli stati il potere di dichiarare quando ci fosse e quando no «vera» guerra, invece di affidare tale riconoscimento alla realtà «pura e semplice» della violenza e dell’odio politico224
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