III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.
1. Dallo jus publicum europaeum alla guerra giusta: il percorso italiano.
1.2 Vittorio Emanuele Orlando: l’uomo politico di fronte al «monumentale cimento».
1.2.1 Si vis pacem para bellum.
Innanzitutto, l’opera persuasiva di Orlando, circa l’opportunità dell’entrata in guerra, fa proprio l’argomento, ormai diffuso, che la pace rappresenterebbe un momento della vita dei popoli sterile di grandi eventi, nonché corruttore dei più alti valori. La stessa agiatezza economica, che spesso accompagna i periodi di assenza di conflitti, rappresenterebbe il terreno di coltura ideale per il diffondersi di atteggiamenti e mentalità controproducenti per il bene dello Stato:
Di poi, la fortuna economica che in questi ultimi anni aveva arriso all’Italia, determinando se non la ricchezza in senso assoluto, l’arricchimento in senso relativo, aveva sviluppato le qualità, ma anche i difetti dei popoli mercantili e delle Società industriali. Con compiacimento, se non con gloria, si citava il rapido incremento degl’indici della ricchezza economica, onde poi si alimentavano ed acuivano, introno alla ripartizione dei profitti, gare e contese fra città e città, tra regioni e regioni, tra classi e classi. E in tutti i modi si veniva sempre più rallentando ed estenuando la virtù coesiva dell’attaccamento al gruppo statale […]268.
La volontà di un sempre maggiore arricchimento anteponeva, quindi, il benessere dell’individuo a quello della collettività.
267 Uno dei più conosciuti discorsi di V.E. Orlando è intitolato proprio La guerra giusta e necessaria; nell’intera prosa
orlandiana i due aggettivi compaiono molto spesso in associazione al sostantivo ‘guerra’, quasi ad assumere il valore di epiteto. Per una conferma della grande dote orlandiana nell’eloquenza, accentuata dalla contingenza bellica, vedi anche Vittorio Emanuele Orlando. Una biografia, Mostra documentaria, Archivio storico Senato della Repubblica, 2002, pp. 40-43, p. 52 e seg.
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V. E. Orlando, La guerra giusta e necessaria (Palermo, 24 novembre 1915), in Discorsi per la guerra e per la pace, pp. 26-27.
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E a questa mentalità economica, che esaltava le deficienze dell’egoismo individuale e municipale o di classe e deprimeva quelle del generoso sacrificio verso la suprema idea collettiva di Patria, si era venuta confermando una mentalità politica, che preferiva girare l’ostacolo anzi che affrontarlo, comporre le questioni anzi che risolverle, preoccuparsi della tranquillità presente anzi che delle ragioni dell’avvenire. […] una mentalità, insomma, che era potuta corrisponder bene a quelle date situazioni, ma che, certamente, era assai più atta ad aumentare la virtù della prudenza che quella dell’eroismo, ad assicurare la comodità piuttosto che la gloria269.
Prudenza, egoismo, interessi personali per ottenere tranquillità e comodità; contro altruismo, eroismo e disinteresse per ottenere il benessere della collettività e la gloria dello Stato: questi i pesi sulla bilancia per misurare vantaggi e svantaggi dei due fenomeni della pace e della guerra. Tutto lascia intendere che, se i periodi di pace sono necessari per garantire prosperità economica, è in occasione dei conflitti che dai popoli sgorgano le migliori qualità. La guerra viene presentata come il salutare e benefico – nonché ineludibile – rito di passaggio da un’era di immaturità della vita dello Stato ad una di maggiore consapevolezza, nella quale ogni energia del singolo agisce con il solo fine della grandezza statale.
Non a caso, allo sforzo bellico si attribuisce l’importante funzione di completare il progetto di unificazione nazionale: se, come vedremo meglio in seguito, la guerra renderà all’Italia quelle terre che naturalmente le appartengono – completando così i disegni risorgimentali –, parimenti essa assolverà l’importante compito di rendere finalmente gli italiani una nazione, coesa e solidale, per mezzo delle sofferenze e dei sacrifici patiti in comune sul campo di battaglia.
Mai, da secoli, sin dalla caduta di Roma, era così disceso in campo il popolo italiano; mai avevamo sentito così interamente nostro, così tutto nostro questo esercito, che riassume quanto di più generoso e di più nobile costituisce la Patria. Ogni terra d’Italia gli ha dato i suoi uomini; ognuna vanta in esso la propria virtù e la propria fierezza; ma per esso brilla una medesima luce devota, palpita una medesima trepida speranza dalla cerchia delle Alpi alle estreme sponde ioniche, dai dispersi casolari alla Reggia, centro dei nostri cuori. L’unità nazionale era talvolta apparsa quale un edificio di pietre semplicemente sovrapposte; il sangue fraternamente sparso dallo Stelvio all’Isonzo è stato il cemento, che renderà l’opera definitiva. Come si spiega questa misteriosa virtù, onde il pericolo accomuna gli uomini assai più della gioia: e il sacrificio e le sofferenze insieme durate li legano assai più della facile vita, in maniera indissolubile?270 Lo spirito di corpo (e di nazione) che matura sul campo di battaglia, oltre a favorire il successo delle operazioni militari, avrà un benefico effetto spendibile anche una volta tornata la pace.
Con toni che ci fanno ricordare Del Vecchio, vediamo come la pace auspicata venga sempre dipinta come una conseguenza della guerra, e non tanto come condizione con un valore a sé. Essa, se considerata nella sua astrattezza ed idealità, è anzi tratteggiata come un momento caratterizzato da fiacchezza ed inoperosità, nonché da egoismo e disinteresse per la cosa pubblica. Solo come conseguenza ultima della guerra – e ricordiamo come i conflitti che si inseriscono all’interno della
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V. E. Orlando, La guerra giusta e necessaria (Palermo, 24 novembre 1915), in Discorsi, p. 27.
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teoria della guerra giusta mirino sempre al conseguimento della pace – essa è apprezzata; sarà al termine del conflitto – durante la pace, quindi – che si potranno stimare e mettere a punto i risultati ottenuti mediante e grazie la mobilitazione bellica. Lo spirito di sacrificio, la fratellanza, l’abnegazione e l’eroismo dimostrati nelle trincee diverranno, una volta terminato il conflitto, le virtù fondanti una nazione nuova, che avrà ricevuto dalla guerra il battesimo di fuoco.
Se l’«anima latina», incline al sogno e alla poesia e, «per sua natura[,] più aperta al fascino di generose utopie»271, durante i periodi di pace si è lasciata sedurre dalla prosperità e dalle promesse
di una futura ed eterna vita pacifica – perdendo quelle virtù virili e benefiche che fanno di un popolo una potenza –, con la guerra ha potuto imparare – o dimostrare di possedere già –, anche se latenti, tutti quei valori che rendono i popoli superiori agli altri.
I grandi dolori passano attraverso la vita degli individui, come possenti soffi di purificazione; così le grandi sventure collettive possono, pei popoli che ne sono colpiti, costituire una rude ed efficace scuola di disciplina e di dovere272. E ancora:
[…] dopo tre anni di guerra, dopo l’immeritata sciagura di Caporetto, voi, qui convenuti da ogni parte, potrete attestare di aver trovato una Italia, certo alquanto diversa dall’Italia dell’antica maniera, i cui incanti della natura e dell’arte eran ricercati dai sognatori, dai poeti e dagli innamorati, un’Italia fatta più austera dall’aspra e sana scuola del dolore, ma un’Italia in piedi, animata dallo stesso fervore, dallo stesso entusiasmo, dalla stessa fede con cui nel maggio del 1915 proclamò la sua guerra273.
In conclusione, possiamo affermare come l’utilizzo della dicotomia guerra-pace – la quale ammanta di sacralità l’esperienza bellica e ne mette in evidenza le conseguenze benefiche, e parallelamente scredita la pace, presentandola tutt’al più solo come conseguenza della guerra – assolva l’importante e preliminare compito di persuadere la popolazione a vivere l’esperienza bellica di buon grado, con la consapevolezza di contribuire al compimento di un disegno più grande.