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III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.

3. L’industria della morte.

Fra i tanti fattori politici, culturali e sociali che determinarono la messa in crisi della società internazionale moderna, almeno uno si rivelò costante ed in continua crescita: lo sviluppo e il perfezionamento degli armamenti. L’aumento della gittata, della precisione e frequenza delle armi da fuoco come l’invenzione di nuovi mezzi, quali i sommergibili, gli aerei e i mezzi corazzati, fornirono allo strumento bellico risorse prima inimmaginabili: il concetto di guerra limitata perdeva, inevitabilmente, la sua efficacia.

Non è neppure il caso di sottolineare quanto tali innovazioni abbiano aumentato il potenziale distruttivo della guerra, spostando in maniera decisiva l’equilibrio fra attriti e plasmabilità sul quale si reggeva il più elementare dei freni clausewitziani alla scalata all’estremo206.

La semplificazione e la standardizzazione delle armi da fuoco accorciarono enormemente i tempi di addestramento, cosicché le truppe potevano essere mandate al fronte dopo poche settimane di istruzione militare; lo spostamento delle truppe e dei materiali venne facilitato e velocizzato dalla diffusione delle ferrovie e, successivamente, dei veicoli e degli aerei da trasporto; «la crescita della gittata delle armi (moltiplicata all’ennesima potenza dall’avvento dell’aviazione e, più tardi, dei vettori missilistici) allargava lo spazio della vulnerabilità ben oltre i confini tradizionali della battaglia, fino a globalizzarlo pienamente con l’introduzione dei missili intercontinentali a testata nucleare»207; la crescita della produttività economica e il conseguente aumento demografico

consentirono una riproducibilità senza precedenti di materiali e uomini, destinati ad alimentare una guerra sempre più vorace e distruttiva. Le cifre dei morti, militari e civili, qualificano i conflitti novecenteschi come delle vere industrie di morte. Ernst Jünger, letterato reduce della Grande Guerra, ben esprime questo stato di cose:

[…] gli Stati si trasformarono in enormi fabbriche per produrre eserciti a catena e per inviarli poi, notte e giorno, sui campi di battaglia, dove un sanguinoso processo distruttivo altrettanto ultra-meccanizzato svolgeva il ruolo di consumatore208.

205 Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 238. 206

Ibid., p. 216.

207

Ivi.

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Se il confinamento della violenza era stato l’imperativo del vecchio ordinamento, con i preparativi della Prima guerra mondiale la società nel suo complesso venne trasformata in una gigantesca macchina per la produzione della violenza. Pace e guerra si confondono, essendo la prima mero momento di preparazione allo scatenamento della seconda.

L’immagine stessa della guerra come azione armata finisce per sfociare in quella, ben più ampia, di un gigantesco processo lavorativo. Accanto agli eserciti che si scontrano sui campi di battaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell’industria militare: l’esercito del lavoro in assoluto. Nell’ultima fase, già adombrata verso la fine della Guerra mondiale, non vi è più alcun movimento – foss’anche quello di una lavoratrice a domicilio dietro la sua macchina da cucire – che non possieda almeno indirettamente un significato bellico. In questo impiego assoluto dell’energia potenziale, che trasforma gli Stati industriali belligeranti in fucine vulcaniche si annuncia nel modo forse più evidente il sorgere dell’età del lavoro […]. Realizzare questo scopo è il compito della Mobilitazione Totale, un atto in cui il complesso e ramificato pulsare della vita moderna viene convogliato con un sol colpo di leva nella grande corrente dell’energia bellica209.

Se, nella guerra in forma della società internazionale classica, il tempo della guerra era nettamente separato da quello della pace, come pure i militari rappresentavano un mondo a parte rispetto alla società civile, «nell’età della tecnica la continuità tra pace e guerra fece piazza pulita di quello che restava della vecchia casta militare per incrinarsi, invece, in un tipo del tutto nuovo di combattente che Jünger esprime nella figura del ‘Lavoratore’ – un uomo che agisce secondo la stessa misura in pace e in guerra e che, non a caso, porta in guerra le esperienze di lavoro maturate in pace […]»210.

Il processo di industrializzazione che riguardò la produzione degli armamenti, fra le altre conseguenze, provocò anche un duplice processo di deconcentrazione e concentrazione del potere:

Da un lato, la produzione di armi di uso sempre più facile, costruite in modo tale da poter essere messe «nelle mani di tutti» […], spalancò la strada alla fuoriuscita della violenza dagli argini dello stato e alla rimilitarizzazione di frazioni crescenti della società, come nei fenomeni (non di rado concomitanti) della guerra civile e della guerra partigiana. Dall’altro lato, la corrente continua dell’innovazione tecnologica e il costo e la complicazione crescenti delle armi decisive (dall’aviazione ai mezzi corazzati all’arsenale missilistico e nucleare) alimentarono un movimento contrario verso la concentrazione del potere militare nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di grandi potenze […]211

. Inevitabilmente, una volta che la mobilitazione totale della società industriale ebbe trasformato la guerra, la battaglia smarrì anch’essa automaticamente i suoi tratti più caratteristici. Da momento culminante e decisivo della guerra e da scontro diretto fra le forze armate, essa divenne un elemento di cui si poteva fare a meno, preferendo utilizzare i nuovi armamenti che non necessitavano un contatto diretto fra i combattenti. Parallelamente, da evento circoscritto nel tempo e nello spazio, le battaglie novecentesche divennero sempre più lunghe (quella della Somme si protrasse per quattro

209

Ernst Jünger, La mobilitazione totale, 1930, in Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 220.

210

Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 222.

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mesi e mezzo, quella di Verdun addirittura per dieci) e spazialmente più grandi, a tal punto da rendere impossibile per il soldato raggiungerne i limiti e sfuggire dalla zona di uccisione.

Già con la Grande Guerra, le battaglie avevano perso il loro ordine formale, che vedeva i due schieramenti opposti affrontarsi in uno spazio geometrico circoscritto, ben visibili gli uni agli altri.

[…] a mano a mano che lo sviluppo del pezzo di artiglieria a tiro rapido costrinse il nemico a trincerarsi e il trinceramento costrinse l’artiglieria a posizionarsi fuori dal campo visivo e ad adottare il tiro indiretto, il campo di battaglia si svuotò di soldati pur essendo saturo di soldati. È l’esperienza, sulla quale avrebbe insistito tutta la memorialistica della Grande guerra, della Menscheenlere, il «deserto di uomini» della guerra di trincea: un’esperienza di spersonalizzazione estrema, prima di tutto, ma anche la condizione più lontana dalla visibilità reciproca necessaria a un duello ritualizzato – non più un «teatro» di guerra, ma uno spazio reso opaco dalla distanza e dalla mimetizzazione, all’interno del quale i contendenti non avrebbero più avuto la possibilità di guardarsi in faccia, anzi avrebbero fatto in modo di vedere senza poter essere visti e di colpire senza poter essere colpiti212.

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