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Si vis libertatem et iustitiam para bellum.

III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.

1. Dallo jus publicum europaeum alla guerra giusta: il percorso italiano.

1.2 Vittorio Emanuele Orlando: l’uomo politico di fronte al «monumentale cimento».

1.2.3 Si vis libertatem et iustitiam para bellum.

Una così titanica ed epocale impresa non poteva giocarsi che contro un nemico altrettanto eccezionale e fuori da ogni comprensione umana; un nemico presentato come intrinsecamente portatore di ideali perniciosi, al quale addossare l’intera colpa del conflitto.

Questa volontà di dipingere l’antagonista come il male assoluto, ricordiamo essere tipica del passaggio dalla concezione del justus hostis a quella del bellum justum: la guerra può divenire giusta solo se il nemico è ingiusto (o presentato come tale).

Nelle parole di Orlando si rintracciano agilmente tutti i tratti sopra esposti.

La rigida categorizzazione, propria della teoria della guerra giusta, che attribuisce ad una soltanto delle due parti in lotta la giustizia della causa, viene da Orlando addirittura estremizzata, presentando il conflitto come una lotta fra le forze del Bene e quelle del Male.

Allorché potrà farsi un giorno la sintesi dell’intimo contenuto spirituale di questo mai veduto cataclisma umano, io penso, o signori, che questa guerra apparirà come un gigantesco episodio della lotta tra le forze del Bene e le forze del Male281.

Tratti ferini e mostruosi – «domare una belva»282 «mostruosamente accampat[a] nel cuore

dell’Europa»283 – nonché una perfidia «marca di fabbrica genuinamente tedesca»284, completano la

descrizione del nemico.

279 V. E. Orlando, Dopo il crollo russo (Camera dei deputati, 12 febbraio 1918) in Discorsi, p. 123. 280

V. E. Orlando, La guerra giusta e necessaria (Palermo, 24 novembre 1915), in Discorsi, p. 35.

281

V. E. Orlando, Esaltazione del Belgio (Roma, 10 giugno 1918), in Discorsi, p. 208.

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Parallelamente, gli alleati francesi, inglesi e americani (nonché gli stessi italiani), sono lodati, non soltanto perché naturalmente detentori delle più alte virtù guerresche – quali l’abnegazione, lo spirito di sacrificio, l’eroismo – , bensì e soprattutto perché sorretti da «una grande forza ideale»285

. La giustizia della loro causa rende i poderosi sforzi del nemico sterili e destinati inesorabilmente alla sconfitta. Il conflitto ha dimostrato che la materialità delle forze dispiegate in campo non ha possibilità di vincere contro la superiorità di un ideale.

Che, se sotto colpi, sia pure formidabili, quella minaccia restò annientata e la macchina cadde in frantumi, senza trovare in sé alcuna risorsa che la sorreggesse, ciò dimostra ch’essa doveva ben essere qualche cosa d’innaturale e di mostruoso. Il meccanismo più perfetto, se una molla è rotta, se una ruota non funziona, non è più altro che materia bruta ed inerte; mentre l’idea, anche se oppressa, anche se sopraffatta, trova, nella divina sua essenza, misteriose energie di reazione vittoriosa286.

Ed ancora:

Ma pari alla grande idea è la fede che ci sostiene e ci anima, mentre, malgrado le avversità contingenti, malgrado i sacrifici tremendi, noi sentiamo che v’è più forza in questa idea che in tutta la brutale violenza del nemico. Nessuna violenza è mai valsa a soffocare le idee che sono apparse grandi, auguste, decisive sul mondo. Sono esse le vere, le sole conquistatrici287.

Non deve sorprendere, quindi, che solo al nemico si imputino, oltre che la responsabilità di aver scatenato il conflitto, le più orrende atrocità.

Noi [il nemico] lo avevamo cercato e combattuto a viso aperto sui valichi e sulle sponde dello sciagurato confine, nel leale cimento della guerra, dove pur nella reciproca strage il soldato rispetta il soldato che gli sta di fronte. Ma il nostro nemico più vede la vittoria onorevole sfuggirgli e più la sua rabbia cresce, più si acuisce la sua perfidia, più l’odio suo spietatamente si disfrena contro gli’inermi, sperando di asservirci con la intimidazione collettiva. E l’abbiam visto procedere man mano all’uso insidioso delle nostre insegne, alle finte rese dissimulanti l’aggressione, al disumano infierire verso la sanità militare, alla stupida distruzione di capolavori di arte e di bellezza, al bombardamento di città indifese ed aperte. Ma noi resistevamo e vincevamo egualmente […]288.

Se il rispetto delle regole, la lealtà, la lontananza dagli eccessi sono presentati come tratti distintivi delle forze dell’Intesa, l’odio e la vendetta, che inevitabilmente si nutrono per un nemico così mostruoso, vengono sublimati dal più alto ideale della giustizia. Come se le atrocità compiute

283

V. E. Orlando, La situazione interna ed internazionale dell’Italia (Palermo, 12 maggio 1921), in Discorsi, p. 430. Vedi anche A. Salandra, I discorsi della guerra, p. 151, dove, in relazione al nemico, si parla di «mostruosa impalcatura imperiale».

284

V. E. Orlando, I problemi del dopo-guerra e la situazione politica e militare (Senato del Regno, 4 marzo 1918), in Discorsi, p. 164.

285 V. E. Orlando, La Vittoria (Camera dei deputati, 20 novembre 1918), in Discorsi, p. 277. 286

V. E. Orlando, La Vittoria (Camera dei deputati, 20 novembre 1918), in Discorsi, p. 277.

287

V. E. Orlando, Il terzo anniversario della guerra d’Italia (Roma, 24 maggio 1918), in Discorsi, p. 199.

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dall’esercito del Bene si tramutassero in azioni punitive e perdessero quindi il carattere di vendetta spietata e irrazionale. L’odio si tramuterà in amore, la vendetta in giustizia.

Noi combatteremo senza odio e non per vendetta come chi sa di perseguire un suo diritto: ma finché gli orecchi nostri saranno disperatamente straziati dalle invocazioni e dagli urli delle nostre donne affoganti, ma finché dinanzi ai nostri occhi appariranno volti di madri improvvisamente impazzite dal terrore ed esangui, piccole mani di bimbi nostri levate verso Dio, e poi tutto un mostruoso viluppo di persone e di cose che scompare nell’impassibile seno del mare, oh fino ad allora combatteremo con odio e per vendetta, combatteremo fino all’ultimo centesimo delle nostre sostanze e sino all’ultima goccia del nostro sangue, non solo per vincere un nemico ma per domare una belva. E vinceremo. E il nostro odio sarà seme di amore fra i popoli che tendono a più civili forme di vita: e la nostra vendetta resterà al cospetto della storia quale atto e ammonimento di solenne giustizia289.

Il ristabilimento della giustizia rappresenta, infatti, lo scopo ultimo del conflitto. Non poteva essere diversamente, se l’operato del nemico, nonché la sua stessa essenza, viene considerato come una completa violazione di tutte le norme esistenti.

La vittoria dell’Intesa, attraverso l’annientamento del nemico, ristabilirà l’ordine infranto ed inaugurerà una nuova era, di giustizia e libertà.

Ed ecco in queste due parole, nelle quali si compendia la storia più generosa e più gloriosa delle generazioni umane, in queste due mirabili, magiche parole – giustizia e libertà – sta la intima, la profonda ragione della nostra guerra comune, sta l’aspirazione della vittoria, che sarà e dovrà essere comune290.

Una vittoria, oltre che giusta, necessaria: se le forze dell’avversario dovessero avere la meglio, l’esistenza stessa del diritto sarebbe in pericolo.

Tutto dipende dalla vittoria: anche, e specialmente, la esistenza stessa del diritto. La vittoria tedesca significherebbe che le convenzioni si possono impunemente violare ogni qualvolta questo convenga; che la necessità – e basta che tale la conclami chi vi abbia interesse – libera da ogni legge; che misura del diritto è soltanto la forza d’imporlo col ferro e col fuoco; insomma, si costituirebbe così tutto un nuovissimo «Corpus juris», del quale i commentatori più efficaci non potrebbero reclutarsi se non negli ergastoli291.

Violazione di convenzioni, abuso della necessità bellica, diritto del più forte: queste sono le turpi azioni del nemico da sanzionare; solo una sua sconfitta eviterà che esse diventino la norma nei futuri rapporti fra gli Stati. Orlando sembra persino ipotizzare precise responsabilità, di coloro che hanno messo in pratica il diritto del più forte senza temere conseguenze. Così tuona l’uomo politico a guerra da poco conclusa:

289

V. E. Orlando, La guerra giusta e necessaria (Palermo, 24 novembre 1915), in Discorsi, p. 50.

290

V. E. Orlando, Il terzo anniversario della guerra d’Italia (Roma, 24 maggio 1918), in Discorsi, pp. 197-198.

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[…] nel mondo etico, la forza non è già sorgente di maggiori diritti, bensì di maggiori responsabilità, e, quindi, di maggiori doveri292.

Responsabilità e doveri che non possono non discendere dalla «criminosa follia di un uomo, o di pochi uomini»293, a quali si imputa la colpa di aver causato l’immane catastrofe.

In queste parole non è difficile scorgere un riferimento, anche se velato, al Kaiser tedesco e, presumibilmente, alla gerarchia militare tedesca. Nella raccolta dei discorsi orlandiani (che comprende numerosi resoconti dell’attività della delegazione italiana alla Conferenza di Pace di Versailles, della quale lo stesso Orlando fece parte) non è però stato possibile rintracciare alcun riferimento preciso alla questione – pur sollevata nell’ambito delle trattative di pace – del giudizio al Kaiser Guglielmo II e ai militari tedeschi macchiatisi di crimini di guerra. Sarà interessante indagare la posizione espressa da Orlando, a distanza di più di un decennio, sullo spinoso problema della punibilità e del governante tedesco e dei combattenti. Vi dedicheremo spazio nel capitolo successivo.

1.2.4 «Da giurista a giurista»: esame del tentato processo al Kaiser.

Nel 1937 – placatisi ormai i venti bellicosi del primo conflitto mondiale, ma pronti a spirare di nuovo di lì a breve –, lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, ancora attivo nella vita politica italiana, pubblicò uno saggio dall’eloquente titolo Il processo del Kaiser294. Esaminiamone prima il

contenuto, per poi trarre le conclusioni del caso.

Ciò che salta all’occhio, anche da un’analisi superficiale del breve testo, è la profonda discrepanza delle teorie lì esposte dai sentimenti e dai propositi esternati in occasione dei discorsi pubblici del periodo 1915-1921. Lo stesso Orlando, nel saggio del ’37, afferma di svolgere le sue considerazioni in qualità di giurista e con il preciso intento di rivolgersi a giuristi; niente di più lontano, quindi, dai discorsi svolti in qualità di uomo politico in occasioni pubbliche (e in frangenti così particolari quali la contingenza della guerra). Il nostro stupore per le divergenze riscontrate nei due testi dovrebbe essere già assai ridotto da questa costatazione, se non fosse che esse sono davvero molto profonde e all’apparenza incolmabili. Esaminiamole.

Il giurista, prima di entrare nel merito della confutazione su basi giuridiche del processo al Kaiser, si interroga circa le condizioni nelle quali era maturata la volontà punitiva. Pur giustificando la richiesta pressante, da parte di quelle popolazioni che più avevano subito le sofferenze della guerra, di un giudizio nei confronti di coloro che più furono responsabili di tali sofferenze, l’autore

292

V. E. Orlando, La Vittoria (Camera dei deputati, 20 novembre 1918), in Discorsi, p. 286.

293 Ibid., p. 287. 294

V. E. Orlando, Il Processo del Kaiser, ed. orig. in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di Giovanni Vacchelli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1937; noi citeremo da V. E. Orlando, Scritti varii di diritto pubblico e scienza politica, Giuffrè, Milano, 1940.

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non comprende come i governanti di tali popolazioni avessero potuto assecondare se non fomentare un tale stato d’animo collettivo.

Come è possibile che anomalie e deformazioni di tal gravità [la volontà di processare il Kaiser] siano avvenute nel sentimento universale di popoli così civili, come quelli che furono vittoriosi nella grande guerra e che si presume abbiano voluto le condizioni della Pace? E se anche possa comprendersi che siano talvolta senza freno le passioni che accendono l’animo delle moltitudini, come va considerata l’azione degli uomini rappresentativi e responsabili? Esercitarono essi verso quelle passioni un’azione moderatrice o preferirono, invece, secondarle?295

L’autore sembra aver dimenticato la sua passata esperienza di uomo politico di primo piano durante e immediatamente dopo il conflitto, quando dall’alto di pulpiti incitava il popolo italiano a combattere contro un nemico incarnazione del male e a pretendere giustizia da esso. Nonostante egli riconosca l’eccezionalità che caratterizzò il periodo in cui si avanzavano le richieste di punizione dei responsabili tedeschi, appare comunque grottesca la sua invettiva contro gli uomini di Stato dell’Intesa:

Si era dunque per tal modo formata presso i popoli stessi come una coscienza collettiva, secondo la quale i tedeschi nella condotta della guerra si erano resi colpevoli di veri e propri crimini contro l’umanità: onde si comprende e sino ad un certo punto si giustifica che di tali delitti fosse richiesto il castigo, meno come atto di vendetta che di giustizia. […] Meno si spiega ed ancor meno si giustifica come gli uomini di Stato rappresentativi di quei popoli non abbiano avuto un sufficiente senso della loro responsabilità che si poneva verso quello stato d’animo delle moltitudini, e del dover loro di rendersi conto degli ostacoli che si frapponevano, evidenti ed insuperabili: al contrario invece, essi non frenarono, ma forse secondarono quello stato d’animo, per fini elettorali e politici296

.

Ricordiamo come Orlando, nei suoi discorsi pubblici del periodo bellico, non si pronunciò esplicitamente sulla necessità di condurre a giudizio il Kaiser e la gerarchia militare tedesca; ma sempre esplicito e presente era il richiamo alla responsabilità del nemico, al quale, solo, si attribuiva la somma colpa di aver scatenato il conflitto e di aver compiuto atti particolarmente atroci e disumani. Non dovrebbe quindi sorprendere se il popolo, che per anni aveva subito la martellante propaganda bellicista del governo, a guerra finita pretendesse che si desse seguito ai propositi di punizione del nemico.

Continui e ripetuti i riferimenti all’«ambiente di psicologia collettiva»297 nel quale maturarono i

progetti di un giudizio dei responsabili, con lo scopo di evidenziare l’inopportunità di procedere in quel senso.

Ad ogni modo, quel che importa è la constatazione, come di un fatto materiale, di quello che era lo stato d’animo dei paesi dell’Intesa man mano che si aggravavano le sofferenze di guerra, stato d’animo che esplose con particolare violenza alla fine di quell’apocalittico periodo298.

295

V. E. Orlando, Il processo del Kaiser, in Scritti varii di diritto pubblico e scienza politica, p. 96.

296

Ibid., p. 98.

123

Ed ancora:

[…] troppo eccezionali furono certe situazioni per essere comprese da chi non ci si trovò. Così, dunque, per quanto gravi possano apparire ad ogni giurista (del passato, del presente e del futuro) le deviazioni da elementari regole di giustizia e di diritto […] che riveleremo a proposito delle questioni agitate circa il processo del Kaiser e dei dipendenti di lui, considerati come autori e responsabili degli orrori della guerra, ciò malgrado sarebbe pure ingiusto un giudizio che non tenesse conto dello stato d’animo, individuale e collettivo, da cui quei sentimenti furono determinati299.

Importa bensì per ora […] di tener sempre presenti le condizioni di ambiente in cui quella iniziativa ebbe origine […]. Quello stato d’animo di folla ha qui la stessa importanza e la stessa funzione del coro nella tragedia eschilea300.

Il giurista scarica le sue pesanti critiche – circa l’incapacità di comprendere e smorzare i sentimenti della folla – soprattutto sugli alleati di ieri – inglesi e francesi –, così caldamente lodati nei Discorsi, quando ancora infuriava la lotta contro il nemico comune. Tale critica è funzionale per esaltare «quel senso di misura che è un nobile contrassegno della nostra razza»301 (la latina, ma, in

questo caso, italiana), che si rese manifesto in occasione della Conferenza di Pace, quando venne sollevata la questione della punibilità del Kaiser.

Dopo aver sottolineato l’impraticabilità della strada punitiva secondo considerazioni di carattere generale, Orlando esamina il contenuto specifico delle accuse mosse contro la gerarchia militare tedesca e contro l’imperatore Guglielmo II, per confermarne l’insussistenza giuridica.

Innanzitutto, in relazione agli atti compiuti durante lo svolgimento delle ostilità

Infiniti ed atroci furono gli orrori della guerra; e i peggiori fra essi (basti ricordare quelli della guerra sottomarina e dei bombardamenti delle città aperte) erano stati attribuiti ai tedeschi, in maniera da determinare una violenta reazione immediata di rancori e odii, specie nei paesi che maggiormente ne avevano sofferto. Che di tali atti, alcuni non sussistano, altri siano stati deformati da esagerazioni, è probabile. Che nell’attribuirli a ferocia belluina, a premeditata barbarie, non si sia tenuto sufficientemente conto delle ragioni che si fan valere dall’altra parte per scusarne la portata, può anche ammettersi. […] Che, però, anche ammettendo tutto ciò, ne resti annullato il giudizio iniziale intorno ai metodi di guerra tedeschi, sarà tanto più difficile consentire quanto più i tedeschi stessi dell’efficacia risolutiva di quei loro metodi in certo senso si eran vantati e forse ancora si vantano302.

Pur non potendo nascondere la brutalità di alcuni atti compiuti dai tedeschi, appare evidente come Orlando tenda a relativizzare e sminuire la portata dell’intera gestione del conflitto da parte dell’allora nemico germanico. Niente di più lontano dalle condanne proferite negli anni del conflitto, nelle quali, oltre a dipingere il nemico come il male assoluto, gli si attribuivano anche le più orrende azioni.

298

V. E. Orlando, Il processo del Kaiser, p. 98.

299 Ibid., p. 97. 300 Ibid., p. 101. 301 Ibid., p. 98. 302 Ibid., p. 97.

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Con l’esame dell’articolo 228 del Trattato di Pace, Orlando pronuncia la definitiva assoluzione di quei militari tedeschi considerati criminali di guerra:

Tanto meno può considerarsi come seriamente proponibile l’altra questione intimamente connessa [al giudizio del Kaiser], e che è regolata dalla stessa parte VII del Trattato, cioè della persecuzione penale contro persone che facevano parte della gerarchia militare tedesca. A proposito del quale secondo argomento valgono tutte le ragioni che stan contro la persecuzione del Kaiser, ma con questa ragione in più: e cioè che i subordinati obbedivano ad un comando, attuavano incarichi che erano stati loro affidati secondo le leggi del loro Paese e verso cui si poneva un loro preciso dovere di obbedienza. Che l’atto ordinato dal Superiore sia antigiuridico anzi addirittura delittuoso non può essere giudicato dall’inferiore, se non quando tale giudizio rientri nella competenza che direttamente spetti all’inferiore stesso. Una tale distinzione, molto sottile, ben si può dire che non trovi mai luogo nell’ordinamento militare. In questo caso, non è mai concepibile che l’inferiore abbia la capacità di discutere l’ordine del suo superiore e rifiutarsi di obbedirvi: meno che mai in tempo di guerra! Il pretendere dunque di far punire da un tribunale di stranieri ex-nemici un militare che ha eseguito ordini dei suoi capi comunque abbia adempiuto ai compiti affidatigli, costituisce giuridicamente un’aberrazione; per giudicarla tale, non occorre alcun sforzo d’intelligenza: basta un’elementare sensibilità giuridica303.

Ammettiamo pure che militari tedeschi abbiano tenuto una condotta non del tutto rispettosa dei principi di umanità e che si siano quindi macchiati di atrocità: ciò non è comunque sufficiente per una loro incriminazione; il loro status di subordinati – che presuppone che essi agiscano dietro ordini dei loro superiori – esclude a priori la responsabilità (e l’eventuale colpabilità) per le loro azioni, «comunque abbia[no] adempiuto ai compiti [loro] affidati».

Con considerazioni di tal genere, Orlando liquida la questione della colpabilità e punibilità dei militari tedeschi, per passare all’argomento principe del saggio: il processo al Kaiser.

Il giurista condivide le obiezioni – ormai divenute tipiche – circa la perseguibilità penale dell’ex- Imperatore tedesco: «1) mancava la norma di diritto che determinasse che quel dato atto o quella data omissione costituisse un reato; 2) mancava la pena ed ogni criterio per determinarla; 3) mancava il giudice»304

.

In relazione al primo punto, l’autore si sofferma sulla precisa definizione del delitto imputato al Kaiser: «offesa suprema contro la morale internazionale e l’autorità sacra dei trattati». Nelle considerazioni dell’autore circa la natura di questa imputazione, emerge, con lampante evidenza, la lacuna esistente fra le denunce pronunciate in occasione del conflitto e la loro fattiva applicazione una volta che esso fu terminato.

Orlando racchiude in sé tutta questa contraddizione: se negli anni caldi in prossimità e durante il conflitto, era consuetudine imputare al nemico le più gravi violazioni – quali l’infrazione dei trattati e delle convenzioni – ma anche atti semplicemente contrari alla morale, sorprende come poi, a guerra finita, ogni tentativo di giudicare e punire chi tali infrazioni avesse commesso si infrangesse

303

V. E. Orlando, Il processo del Kaiser, p. 101.

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contro l’effettiva impreparazione del diritto internazionale a far fronte a tali questioni. Invece di denunciare l’incompletezza delle norme internazionali ed invocarne una loro implementazione, sorprende che gli stessi che hanno tuonato contro l’illegittimità di certi atti compiuti dal nemico durante la guerra, si limitino (oltre che a minimizzare la portata degli atti stessi) a denunciare e criticare ogni tentativo di dar seguito alle denunce un tempo espresse. Lo stesso popolo che si era incitato a combattere in nome della giustizia e per il bene dell’umanità, viene ora incolpato di fomentare sentimenti irrazionali di vendetta contro quel nemico che poco tempo prima veniva dipinto come un pericolo mortale.

È fuor di dubbio che, in relazione al processo al Kaiser, mancasse una precisa norma che

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