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Il cristallo e il fumo

Capitolo 3: Verso un capitalismo simbolico

3.1 Il cristallo e il fumo

La scuola francese di antropologia spiega la transizione fra le due forme di capitalismo del ‘900, fordismo e post-fordismo, utilizzando due immagini antitetiche, il cristallo e il fumo. «Il cristallo è la grande impresa fordista, con la sua struttura lineare, razionale e capace di una produzione industriale che proietta il suo ordine interno al di fuori dei grandi stabilimenti industriali, sulla

259 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, 2000, p. 75.

260 V. Codeluppi, La convergenza tra produzione e consumo, in V. Codeluppi, R. Paltrinieri (a cura di), Il consumo

come produzione, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 12; Cfr. V. Codeluppi, Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

261 Cfr. E. Di Nallo, “Gestire le contraddizioni: la RSI nella società dei consumi”, in R. Paltrinieri e M. L. Parmiggiani (a cura di), Sostenibilità ed etica, Carocci, Roma, 2005; E. Di Nallo, R. Paltrinieri (a cura di) Cum Sumo. Prospettive di

società, sull’assetto politico e sui mercati degli stati, proprio come il cristallo emana luce all’esterno, grazie alla sua struttura lineare e pietrificata. Il fumo, al contrario, si diffonde nell’aria nascondendo i contorni di tutto ciò che lo circonda, espandendosi nello spazio, offuscandone i luoghi in modo transitorio, poiché in continuo movimento, come le industrie post-fordiste che si decentralizzano nei luoghi capaci di contenerle, anche per brevi periodi, senza per questo ordinare ciò che le circonda, slegate quasi dai territori sui quali si fermano. La fissità del cristallo è così sostituita dalla vivacità del fumo»262.

La metafora del cristallo coglie in maniera efficace non solo il passaggio tra due diversi modi di produrre, ma esprime bene un cambiamento a tutto tondo che evidenzia come vi sia omologia tra le strutture di produzione e quelle secondo le quali si organizzano i gruppi sociali di una data società263.

Il fordismo può essere considerato come la filosofia che ha permeato la realtà economica e sociale del primo Novecento. Max Weber264, con la teoria della razionalità strumentale sinottica, è il

riferimento teorico da cui prendiamo spunto. L’attore sociale, secondo questa teoria, pone in atto comportamenti razionali basati sull’adeguamento dei mezzi ai fini. L’uomo weberiano è in grado di produrre un ordine alla realtà che lo circonda, ed è capace di imporre tale logica all’ambiente circostante. È un soggetto forte, cosciente di ciò che desidera e dei diversi strumenti a disposizione; è un uomo che decide in modo isolato ciò che è meglio per lui, attraverso un ragionamento che si concentra su un calcolo razionalmente orientato. La fabbrica fordista può essere considerata come l’esempio in chiave economica degli ideali sopra esplicitati. Lo stesso vale per il sistema economico fordista, caratterizzato da una suddivisione funzionale delle mansioni, una logica del lavoro centralizzata (in termini di spazio e tempo), un tempo di lavoro metrico, un indiscutibile senso di dominio sulla natura da parte dell’uomo e un uso indiscriminato della tecnologia come soluzione ottimale per la risoluzione di ogni problematica presente e futura. L’indiscusso declino del fordismo265 e del modo in cui aveva plasmato istituzioni e modi di vivere degli individui, apre la

262 M. Revelli, La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, pp. 68-69. 263 Sul concetto di omologia strutturale, cfr. E. Di Nallo, Il significato sociale del consumo, op. cit.

264 M. Revelli, G. Cremaschi, Liberismo o Libertà: dialogo su capitalismo globale e crisi sociale, Editori Riuniti, Roma, 1998, pag. 74.

265 La data simbolica della nascita del fordismo è il 1914, anno in cui Henry Ford introduce l’aumento del salario di 5 dollari al giorno, primo tentativo di stabilizzare il mercato dei prodotti di serie e una manodopera sottoposta ai ritmi ripetitivi della catena di montaggio all’interno della grande impresa fordista, struttura burocratica e altamente gerarchizzata. Tuttavia, soltanto dopo la seconda guerra mondiale, gli accordi di Bretton Woods nel 1944, permettono un ulteriore allargamento del commercio internazionale accanto alla formazione dei mercati di massa nazionali che in questi anni garantiranno alti investimenti e grandi produzioni alle imprese. Sono gli anni del “compromesso democratico” raggiunto attraverso una regolazione del mercato da parte dello stato con strumenti keynesiani e politiche di welfare state che rendono stabile nel lungo periodo il regime di accumulazione fordista e il modo di regolazione politico-sociale, con un impegno degli industriali a cedere parte del surplus allo stato per le spese sociali.

Con altrettanto impegno della forza-lavoro ad accettare la forma di produzione fordista in cambio di stabilità, riduzione della disoccupazione e protezione sociale.

strada al paradigma266 post-fordista, quest’ultimo non semplicemente riducibile a ciò che si discosta dal modello precedente ma rappresentante qualcosa di più267. Fondamentale caratteristica del post- fordismo è infatti in primo luogo la complessità268, gestibile grazie ai nuovi mezzi tecnologici, organizzativi e culturali.

Il modello fordista, definito «spazio dei luoghi»269, era un territorio in cui i processi più importanti (produzione industriale, identità collettiva, distribuzione e riproduzione) avvenivano in uno stesso luogo in cui spazio politico e spazio economico coincidevano, mutando funzioni e strutture l’uno dall’altro. In questo contesto, la produzione seguiva una razionalità de-territorializzata e de- storicizzata. Il fordismo classico, basato su un’idea scientifica del sapere produttivo, concepiva la produzione un processo completamente artificiale, scientificamente controllato e indifferente al contesto270. Tutto secondo il progetto di Ford e Taylor doveva essere oggettivo, computabile e controllabile. La ferrea programmazione della produzione fordista rispondeva a una domanda generalizzata di beni di consumo di massa. Il mercato del lavoro era caratterizzato da una netta divisione tra attivi e inattivi, occupati e disoccupati. All’interno delle fabbriche il lavoro veniva parcellizzato sulla catena di montaggio e il salario, la stabilità e la responsabilità venivano ordinate lungo una curva di progressione che l’individuo percorreva specializzandosi in un determinato tipo di mansione, attraverso l’accumulo di esperienze nel tempo. Tutto questo si faceva garante di una stabilità e di un percorso lineare con riflessi nella vita quotidiana, all’interno della quale i progetti economici si legavano a progetti personali e famigliari. Questo tipo di percorso narrativo lineare si

Tuttavia, alla fine degli anni ’60, la saturazione dei mercati di massa, la crisi petrolifera e la crisi del grano, accanto all’aumento del debito nei paesi industrializzati, costringono le imprese a scontrarsi con le rigidità degli investimenti delle economie di scala e con quelle di una forza-lavoro poco disposta ad accettare licenziamenti e riduzione delle spese sociali, divenute nel frattempo strumento di legittimazione politica dei governi al potere. Una rigidità che le imprese percepiscono come limite all’accumulazione di capitale e che per questo viene superata con l’introduzione della flessibilità. La saturazione dei mercati di massa costringe le imprese ad abbandonare la produzione fordista dei beni di serie e ad intraprendere un tipo di produzione flessibile che permette alle aziende di adattarsi alle mutevoli esigenze di mercato, con una diversificazione dei prodotti e una accelerazione dei tempi di rotazione dei consumi.

266 Il concetto di paradigma indica, secondo la nota tesi formulata dal filosofo della scienza T. Kuhn, quei “modelli teorici condivisi da una determinata comunità scientifica e accettati come universalmente validi da questa in quanto capaci di affrontare una serie di problemi di prassi scientifica (teorie, strumenti, applicazioni) formulati secondo un linguaggio scientifico da tale comunità”. Il paradigma è quindi un’articolazione sistematica tra un insieme di strumenti pratici e concettuali, una definizione a priori dell’oggetto e delle sue regole di manipolazione sperimentale, un modello che rappresenta in maniera adeguata il gioco tra concetti e possibilità di sperimentazioni. In altre parole il paradigma è un modo di percepire la realtà; così, se per un verso costituisce la base esplicativa per una serie di fenomeni, dall’altra circoscrive un limite d’area oltre il quale gli eventi non sono più accoglibili e interpretabili. Cfr. T. Kuhn, La struttura

delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1978, pp. 213-226.

267 Cfr. E. Rullani, L. Romano, Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo venturo, Etas Libri, Milano, 1998. 268 Sul tema della complessità rimandiamo al capitolo 1 paragrafo 1.8.

269 M. Revelli, “Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e postfordismo”, in P. Ingrao e R. Rossanda (a cura di), Appuntamenti di fine secolo, Roma, Manifestolibri, 1995, pp. 206-216.

esprimeva in ambito lavorativo con il termine carriera e con il termine carattere271 nell’ambito della vita quotidiana: entrambi i settori garantivano la stabilità e la sicurezza ontologica descritta da Antony Giddens272. In questo modo il fordismo assumeva tutti i tratti dell’autoritarismo, con un potere centralizzato e responsabilizzato in grado di risolvere problemi. Controllo totale delle dinamiche di mercato e della produzione, completa autosufficienza, crescita indefinita dei volumi produttivi (economie di scala) e standardizzazione, erano i principi su cui si fondava il sistema fordista. Come sostiene Jeremy Rifkin, «In un’era di proprietà e di mercati intrisi di valori materiali, essere onnipresenti era ciò che rendeva l’uomo simile a dio; ed essere in grado di espandere la propria presenza fisica, impadronendosi quanto più possibile dell’esistenza materica, era ciò a cui tutti tendevano. Si trattava realmente, come cantava Madonna, di un material world»273.

Ma a partire dagli anni ’60 il mercato viene destrutturato e riorganizzato, introducendo la flessibilità necessaria per rispondere all’accelerazione dei tempi di rotazione del capitale e dei consumi274.

Carriera e carattere vengono sostituiti da occupazione e personalità. L’occasionalismo della

produzione just-in-time post-fordista stravolge il concetto di lavoro. «Il lavoro astratto semplice che dai tempi di Adam Smith era considerato come la fonte del valore, è sostituito da lavoro complesso. Il lavoro di produzione materiale, misurabile in unità di prodotto per unità di tempo, è sostituito dal lavoro detto immateriale, al quale non sono più applicabili unità di misura classiche»275. La

271 La parola, come sostiene Rifkin, rappresentava la secolarizzazione dei valori espressi dall’etica protestante del lavoro e una riaffermazione di quel genere di valori legati alla produzione, considerati di importanza fondamentale per la crescita del capitalismo e del regime di proprietà.

272 Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994. 273 Cfr. J. Rifkin, L’era dell’accesso, op. cit.

274 La crisi dell’occupazione, dei sistemi tradizionali di regolazione del mercato del lavoro e del welfare state, hanno aperto a ricercatori e amministratori due nuove prospettive di analisi e di ricerca: una sul tema della flessibilità ed una sugli effetti di trasformazione strutturale indotti dal processo di terziarizzazione in atto nei sistemi produttivi. Gli autori Minardi e Lusetti, nella loro opera “Luoghi e professioni del loisir” individuano, a partire da queste trasformazioni dei sistemi produttivi e soprattutto delle grandi innovazioni tecnologiche, due concetti chiave: informazione da un lato e tempo libero dall’altro. L’informazione, in stretta connessione con l’innovazione tecnologica, ha permesso, infatti, la ristrutturazione e la rivalutazione delle professionalità e dei sistemi tecnici di produzione rimasti immodificati per troppo tempo. L’informatizzazione e l’automazione si sono trasformate in un vero e proprio fattore di produzione, capace di dare nuovo valore ai processi produttivi. Il tempo libero, invece, da una parte rappresenta per gli individui il risultato di un processo di liberazione di tempo di lavoro, facilitato appunto dall’innovazione tecnologica e dalla rivoluzione dell’informazione e, d’altra, la possibilità di compiere quelle attività e dedicarsi a quei consumi che generano domande di beni relazionali e di prestazioni di servizio per il benessere individuale e lo scambio simbolico. Le trasformazioni del lavoro introdotte con l’innovazione tecnologica hanno determinato un effetto di liberazione di forza lavoro, ma soprattutto hanno creato nuovo tempo, un tempo liberato, di particolare importanza per i mutamenti sociali e culturali che a sua volta induce. Il tempo liberato è un tempo diverso che non coincide esattamente con il riposo né con il tempo necessario alla riproduzione sociale e culturale né con gli spazi temporali prodotti dalla maggiore flessibilità del lavoro. Il tempo liberato è quella dimensione nella quale l’individuo può costruire il proprio percorso d’identità e di differenziazione, dove può cercare forme di rappresentazione del sé e di nuova legittimazione sociale, sfuggendo ai criteri di conformità, a istituzioni già stabilite, a luoghi e spazi programmati per lo sviluppo di attività socialmente e funzionalmente utili. Il tempo liberato starebbe anche alla base dell’insieme delle attività volontaristiche e solidaristiche che si sogliono ricondurre al settore dell’economia sociale. Si vedano in proposito le tesi di G. Aznar, Lavorare meno

per lavorare tutti. Venti proposte, Bollati Boringhieri, Torino, 1993; J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano, 1995. Sul tempo libero si veda anche il

capitolo 4 paragrafo 4.10 di questo elaborato di tesi.

comunicazione - considerata “disturbo” nel fordismo - diventa fattore strutturante nel post- fordismo, attraverso un enorme flusso d’informazioni che percorre (in entrambe le direzioni) le fasi di produzione, distribuzione, vendita dei prodotti. La forza-lavoro si trasforma e lo fa comunicando attraverso un bagaglio di capacità e conoscenze sempre più vasto.

Le tecnologie telematiche e la velocità dei nuovi trasporti capovolgono lo spazio dei luoghi trasformandolo in «spazio dei flussi»276 in cui la contiguità territoriale viene sostituita dalla connessione tra i luoghi di produzione e spazio globale in cui agiscono forze economiche, finanza mondiale e multinazionali, capaci di un potere decisionale che trascende quella dello stato. Il territorio politico ed economico, che vedeva coincidere stato e grandi aziende, lascia il posto a un nuovo territorio formato da reti, un network che lega le piccole imprese alle multinazionali e al capitale mondiale277.

La transizione in corso, caratterizzandosi per l’assenza di un’organizzazione coerente, per la sua duttile apertura e indeterminatezza, si mostra lontana dalla rigidità della catena di montaggio e vicina alla metafora della rete; quest’ultima è particolarmente adatta per esprimere i caratteri di un nuovo capitalismo fatto di apertura, connessione, condivisione, relazione, tutti elementi che ne sottolineano anche e soprattutto la dimensione principale, ovvero quella cognitiva278.

I comportamenti collettivi, non più regolati da un severo sistema gerarchico, si basano sempre di più sulla cooperazione, sulla comunicazione e sulla condivisione di esperienza e conoscenza. I punti di forza del post-fordismo sembrano essere robusti presupposti cognitivi e relazionali in grado di permetterne lo sviluppo nella complessità. Ciò che viene valorizzato all’interno di questo sistema (con configurazione, come abbiamo già sottolineato, a rete) sono la capacità di apprendimento e la capacità di trasmettere e diffondere conoscenza. Così il post-fordismo riserva i suoi investimenti più importanti non più alle strutture fisiche o ai sistemi proprietari, ma allo sviluppo di sistemi cognitivi. Se da una parte l’individuo percepisce fortemente la crisi della rappresentanza e la perdita delle sicurezze279 un tempo garantite dalle istituzioni e dalla negoziazione fordista, dall’altra, gli innumerevoli contesti che l’uomo si trova a gestire, il passaggio veloce tra cornici di senso che configurano i rapporti con gli altri, lo porta a esprimere liberamente creatività e potenzialità, non essendo più schiacciato dai grandi sistemi e dai meccanismi anonimi della razionalità sistemica. L’individuo ora è esposto al rischio, ma i soggetti sono chiamati a costruire nuove relazioni, nuovi

276 Cfr. M. Castells, Nello spazio dei flussi, Carocci, Roma, 2006.

277 Nell’economia dell’immateriale riemerge l’importanza del territorio, la riscoperta dei saperi e delle conoscenze legate a esso, il concetto di capitale sociale e la nascita dei distretti industriali dove il territorio funge da “collante”, da mediatore cognitivo. Cfr. E. Rullani e L. Romano, Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo venturo, op. cit. 278 “Nell’economia delle reti tutte le proprietà divengono oggetto di rapporti di accesso piuttosto che di scambio. La proprietà di beni materiali diventa sempre più marginale per l’esercizio del potere economico, mentre quella di beni immateriali si sta trasformando nella forza dominante di un sistema economico fondato sull’accesso. La relazione di franchising è lo specchio delle modalità organizzative della new economy”, in J. Rifkin, L’era dell’accesso, op. cit. 279 Cfr. M. Revelli, “Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e postfordismo”, op. cit.

linguaggi, nuovi significati del produrre e del consumare280. Il sistema produttivo post-fordista pone infatti come suo concetto chiave quello di flessibilità281, indispensabile per affrontare la nuova competizione globale. La razionalità economica dell’era industriale è entrata totalmente in crisi282, la cultura post-fordista obbliga i suoi attori ad abbandonare rigidi progetti e strategie e a investire sull’innovazione, ad “appoggiare” la cultura del rischio283 che investe non solo il campo dell’economia ma anche i comportamenti sociali, esigendo la messa in gioco e l’accettare le sfide della società globalizzata.

La lettura che Christian Marazzi284 propone del passaggio dal fordismo al post-fordismo è particolarmente interessante. L’autore assimila questo passaggio a una svolta linguistica dell’economia, necessaria per modificare tempi e modi di produzione. È la comunicazione che permette di sostenere il rovesciamento tra produzione e consumo, offerta e domanda, ed è sempre grazie alla comunicazione che il processo produttivo può diventare sempre più flessibile. Nel post- fordismo la forza lavoro deve, infatti, essere in grado di leggere il flusso continuo delle informazioni, saper lavorare comunicando e sapersi adattare a ritmi e mansioni sempre nuove, non solo nell’ambito della produzione ma nell’azione sociale; sono anche le identità ad essere messe al lavoro e non più solo le competenze professionali. Se la conoscenza è sempre stata una risorsa importante per il funzionamento del sistema economico285, oggi ne è divenuta la parte essenziale286, la più rilevante del nuovo processo produttivo.

280Rifkin a questo proposito parla dell’accettazione di una nuova coscienza proteiforme perché indispensabile per un meccanismo di adattamento alla complessità e alla mutevolezza delle realtà del mondo postmoderno, ma allo stesso tempo richiama l’attenzione del lettore sul potenziale effetto mutilante che tutto ciò può avere sul comportamento umano. Cfr. J. Rifkin, L’era dell’accesso, op. cit.

281 Dagli anni Novanta a oggi si sono sviluppati numerosi dibattiti sul tema della flessibilità; in primis, le nuove caratteristiche del mondo del lavoro, investito da questo concetto e dalla conseguente precarietà, si prestano a una duplice lettura: da una parte vengono sottolineate l’autonomia, l’adattabilità e la mobilità del lavoro, dall’altra la condizione generatrice d’incertezza e precarietà. La flessibilità oggi non è però considerata problema solo per il mondo del lavoro ma sembra comportare un mutamento significativo della percezione di sé, visto che uomini e donne sperimentano quotidianamente la difficoltà, se non l’impossibilità di trasformare le “proprie esperienze in narrazioni continuate”. Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita, Feltrinelli, Milano, 2001. Su questo punto si veda anche A. Gortz, L’immateriale, op. cit.

282 L’intera cultura d’impresa che prevedeva la possibilità di pianificare gli investimenti produttivi, la possibilità di progettare lo sviluppo su cicli di lungo periodo, la possibilità di calcolare costi e rendimenti futuri, la possibilità sul piano individuale di progettare la propria carriera professionale e di appoggiarsi e conformarsi a pratiche produttive istituzionalizzate, oggi non esiste più. L’azienda vincente sarà dunque oggi quella che riuscirà a meglio muoversi nella complessità grazie alla flessibilità, alla capacità di prendere decisioni in tempi rapidi, risolvere problemi inaspettati, scegliere tra diverse possibilità d’investimento, comunicare con l’ambiente in tempo reale e apprendere da esso.

283 Cfr. R. Sennet, L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita, op. cit.

284 Cfr. C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

285 Basti pensare che perfino la produzione dell’homo sapiens è stata considerata un’attività “sapiente”, perché si distingueva da tutte le altre attività produttive, naturali o animali, in quanto impiegava nel lavoro le capacità intellettuali del cervello umano.

3.2 L’immateriale

Ci troviamo d’accordo con Michele La Rosa287 quando esalta l’importanza che un autore come Karl Marx possiede anche nell’ambito della letteratura scientifica e culturale e, ancora di più, quando insieme ad altri studiosi288 ne sottolinea la straordinaria capacità di intuire la trasformazione che il capitalismo avrebbe subito ad opera del «general intellect»289. Marx infatti fu in grado di identificare il ruolo produttivo del «sapere sociale generale», inteso come rete di relazioni e