Gran parte di quello che facciamo nella nostra vita quotidiana passa per noi e per gli altri sotto silenzio. L’atteggiamento di naturalezza con cui affrontiamo le giornate è dato dall’ovvietà delle nostre azioni, quasi automatiche e ripetitive, senza le quali sarebbe difficile districarsi nelle operazioni di routine.
Quello che viene dato per scontato può essere considerato come senso comune, l’insieme di ciò che ognuno considera ovvio. Una definizione di questo tipo, se può sembrare all’apparenza banale, nasconde delle difficoltà di lettura. Per descriverlo in maniera più esaustiva, il senso comune può essere considerato «un insieme di conoscenze, di regole, di abitudini e di convinzioni che non hanno bisogno di essere interrogate, e che formano il substrato della nostra esistenza. Si tratta di presupposti taciti del nostro agire quotidiano, tanto più efficaci quanto meno sono tematizzati»74. Peter L. Berger e Thomas Luckmann ritengono il senso comune «la conoscenza che io condivido con altri nelle normali, autoevidenti routine della vita quotidiana»75. In quest’ultima asserzione sono
contenute le problematiche più grandi che riguardano il senso comune, e, ancora più importante, quest’affermazione contiene al suo interno la distinzione tra senso comune, esperienza e cultura. Il senso comune certamente non può coprire tutto ciò che facciamo o pensiamo, ma corrisponde a una sorta di pensiero collettivo all’interno del quale ci troviamo immersi. Una prima problematica sorge in merito allo scarto che c’è tra senso comune e il sapere di ciascuno. Il filosofo Martin Heidegger scriveva che il pensiero collettivo non ha soggetto, è in qualche modo anonimo: io penso come si pensa, dico quello che si dice, faccio quello che si fa76. Se è vero che quello che io so
- poiché - a ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici”, in Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, op. cit. p.20.
71 P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, op. cit. p. 68. 72 H. G. Gadamer, Verità e metodo, op. cit. p. 87. 73 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, op. cit. 74 P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, op. cit. p. 19.
75 P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, op. cit. p. 44. 76 M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1966.
proviene in parte dalla cultura della collettività a cui appartengo, è altrettanto vero che ciò che so ha a che fare anche con il mio vissuto personale. La mia biografia costituisce il punto di vista da cui io percepisco anche tutto il sapere di cui dispongo in quanto condiviso.
Ai fini del nostro discorso ciò che è importante sottolineare è che tra quella che si può delineare come la nostra soggettività77 (intendendo con questo termine la capacità di prendere le distanze da ciò che è dato, attraverso la formulazione di un dubbio) e il senso comune (una sorta di tacito sapere in cui il dubbio non emerge) si apre lo spazio dell’esperienza.
Il rapporto tra scienza e senso comune è oggi abbastanza chiaro e si fa forza di un concetto assimilato e assunto solo nel corso del tempo; ogni volta che la scienza costruisce un modello «si perde informazione, si rinuncia, in modo più o meno volontario e consapevole, a una parte dell’informazione potenziale contenuta nel fenomeno. É una perdita importante, spesso irreversibile, come quando si traccia la mappa di un territorio. Bisogna, almeno, essere sempre consapevoli che la mappa non è il territorio. Studiare il modello può essere utile, ma non è mai come studiare la realtà fenomenica»78. Questa consapevolezza che i modelli sono stereotipi,
necessari per riuscire a condurre un’esistenza normale, la si deve al principio di indeterminatezza introdotto nel 1930 da Werner Karl Heisenberg79. Sapere che lo stereotipo è già presente nel nostro sguardo nel momento in cui si osserva qualcosa, significa sapere che la nostra percezione è in qualche modo una messa in forma della realtà, una selezione dei tratti e non la realtà stessa.
Anche la sociologia non può fare a meno di “risentire” del principio di indeterminatezza.
Clifford Geertz tenta infatti di definire il senso comune come «qualcosa che sta davanti ai nostri occhi in modo così naturale che è quasi impossibile vederlo»80. La naturalezza è quella sottolineata anche prima per la quale, oltre a un sentimento di ovvietà, il senso comune rimanda a una normalizzazione di questa ovvietà, come a dire che una cosa è ovvia e sensata proprio perché ovvia. Ripercorrendo brevemente il sentiero sociologico tracciato su questo tema, ci si accorge che il concetto è, lungo il corso del tempo, piuttosto sfuggente.
Il positivismo si è curato poco del senso comune, concepito più come un ostacolo. Così Emile Durkheim scriveva «se esiste una scienza della società, si può ritenere che essa non consista in una semplice parafrasi dei pregiudizi tradizionali, ma che ci faccia vedere le cose diversamente da come appaiono al volgo. Lo scopo di ogni scienza è infatti quello di compiere scoperte, e ogni scoperta disturba più o meno le opinioni tramandate. A meno quindi di non prestare al senso comune, in sede sociologica, un’autorità che da tempo esso non possiede più nelle altre scienze – e non vediamo da
77 Per un approfondimento sul concetto di soggettività, cfr. F. Crespi, Azione sociale e potere, Il Mulino, Bologna, 1989. 78 G. Longo, Presentazione a P. Bozzi, Fisica ingenua, Garzanti, Milano, 1990, p. 8.
79 Heisenberg introducendo nella fisica subatomica il principio d’indeterminazione, rivoluzionò la relazione tra osservatore e osservato. L’osservazione viene riconosciuta come qualcosa di simile all’interpretazione.
dove potrebbe venirgli – lo studioso deve prendere la decisione di non lasciarsi intimidire dai risultati ai quali giungono le sue ricerche, quando sono condotte metodicamente»81. Ma come ha sottolineato bene Hans Georg Gadamer, avere quelli che lui stesso chiama pre-giudizi fa parte del nostro appartenere alla storia. Inseriti in una collettività determinata, in un preciso periodo della storia, noi dipendiamo dagli innumerevoli giudizi passati che diventano in qualche modo nostro bagaglio conoscitivo, funzionanti come giudizi preventivi in grado di dare forma alla nostra realtà82. In quest’accezione il senso comune agisce come una sorta di contenitore di memoria sociale dalla quale possiamo attingere risorse indispensabili al nostro stare insieme agli altri, dando il mondo per scontato. Risulta essere quindi una costruzione sociale83.
Nella filosofia classica è rintracciabile la presenza di un sistema organico di certezze primarie in cui i primi principi sono intimamente connessi all’esperienza. Questo sistema vive in una condizione di conoscenza irriflessa, immediata ma non irrazionale; vi è presente una realtà intuita ma non messa a tema.
La nozione di sensus communis è tardolatina e risale a Tommaso d’Aquino, dove l’uso del termine latino sensus indica una funzione intellettuale che non solo viene conservata nelle età seguenti, ma anzi si arricchisce recuperando concetti e termini della classicità latina. Marco Tullio Cicerone usava il termine consensio communis per indicare le nozioni etiche comunemente accettate; Giambattista Vico riprende il termine sensus communis definendolo «regola tanto di ogni prudenza che di eloquenza», generata dalla «somiglianza dei costumi fra le nazioni. Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutta una nazione, o da tutto il genere umano»84. Gadamer nella prima parte di “Verità e metodo”, si rifà alla definizione di senso comune inteso come memoria sociale che riversa in una conoscenza pratica i contenuti definiti dalla tradizione, trasmessi da una generazione alla successiva. Poi in un’altra sezione dello stesso volume il pensatore tedesco arriva a delineare il senso comune in maniera molto diversa, cambiandone i contenuti. Da istruzioni per vivere e comprendere si passa a un insieme di significati depositati entro la tradizione linguistica di una comunità. Dalla dimensione pratico-normativa del senso comune si passa a quella cognitiva. Riprendendo Heidegger, il senso comune diventa il
81 E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Comunità, Milano, 1979, p. 5. 82 Cfr. P. Jedloski, Il sapere dell’esperienza, op. cit.
83 Come esplicita Alfred Schutz, la realtà viene normalmente esperita dagli individui entro la cornice di un insieme di strategie cognitive che fissano il mondo come ricorrenza di situazioni tipiche. Sul piano pratico, queste tipizzazioni corrispondono alla routine entro le quali noi agiamo per la maggior parte del tempo nella nostra vita quotidiana, in connessione ai ruoli che ricopriamo e alle istituzioni cui ci riferiamo. Per cui, essere immersi in esse corrisponde ad essere immersi negli orizzonti di senso (cultura) dei gruppi a cui apparteniamo. Cfr. C. Schutz, in A. Izzo (a cura di),
Saggi Sociologici, Torino, UTET, 1979; P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino,
Bologna, 2000; P. Jedlowski, Fogli nella valigia. Sociologia, cultura, vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2003. 84 G. Vico, Scienza Nuova, volume II, 1744.
«comune possesso di determinati pregiudizi»85 e parteciparvi significa prendere parte alla storicità dell’individuo. Se si accetta questa definizione di senso comune come qualcosa di costruito socialmente all’interno di una comunità, da un punto di vista sociologico ne rimangono inesplorati i confini entro i quali prende sviluppo. La sociologia fenomenologica tende a sottolineare come il senso comune sia tale, diventi tale, nel momento in cui viene dato per scontato. Secondo Schutz «il senso comune è il tipo di conoscenza e di pensiero che sospende il dubbio riguardo alle definizioni della realtà condivise all’interno di un gruppo sociale, in relazione alle necessità pratiche della vita di ogni giorno»86. La sospensione del dubbio possiede, secondo l’autore, delle radici antropologiche. Affidiamo al mondo una scala tonale realistica che ci permette di non rimanere immobili davanti ai potenziali interrogativi sulla vita in generale. Ci dedichiamo inoltre a delle tipizzazioni, intendendo con questo termine delle semplificazioni atte a ridurre la complessità, fondamentali per classificare cose, persone, gesti, riconoscibili all’interno del mio mondo sociale. Con questa sfumatura importante, il senso comune diventa conoscenza più atteggiamento, atteggiamento del dare per scontati i tipi di fenomeni che ho imparato a riconoscere87.
L’etnometodologia, sulla base delle considerazioni sorte all’interno della sociologia fenomenologica, si è posta l’obbiettivo di indagare da dove provenga la costruzione sociale del senso comune; o meglio, dando per scontato il fatto che il senso comune sia una costruzione sociale finalizzata a sospendere il dubbio, ha ipotizzato che il dubbio non fosse poi così lontano dalla vita quotidiana e che fosse una “non – presenza” sempre latente il cui emergere crea non pochi problemi88. Gli approcci che abbiamo considerato possiedono dei punti in contatto riassumibili nell’affidare al concetto di senso comune un carattere pragmatico finalizzato a stabilire un accordo fra soggetti e nell’assegnarli un ruolo base tale da rendere possibile la vita in comune. La lettura che se ne può dare è duplice: vincolo e risorsa allo stesso tempo, il senso comune rimanda da una parte a una tradizione e a regole consolidate, dall’altra rende possibile la comunicazione e l’interazione con gli altri, adattandoci di volta in volta ai contesti e alle situazioni. Ma il punto fondamentale che si è già tentato di fare emergere e che sembra ben identificato dall’etnometodologia come dalla sociologia fenomenologica, è considerare l’atteggiamento che dà il mondo per scontato come un elemento essenziale del concetto di senso comune89. Il dimenticarsene può compromettere una fondamentale distinzione analitica tra i concetti di senso comune, tradizione e cultura, questi ultimi ben più ampi rispetto al primo. Così se sia la cultura che la tradizione possono considerarsi
85 E. Gadamer, Verità e metodo, op. cit. pp. 325-326.
86 Cfr. A. Schutz, Saggi sociologici, in P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, op. cit. p. 32. 87 P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, op. cit.
88 Negli anni ‘60 Harold Garfinkel, fondatore dell’etnometodologia, docente alla University of California, proponeva ai suoi studenti dei compiti paradossali finalizzati a produrre la rottura nel tessuto delle assunzioni di senso comune che sostengono la convivenza, evidenziando la fragilità della costruzione sociale.
costruzioni sociali, non possono intendersi come universo di assunti dati per scontati. Come sottolinea Geertz quindi «il senso comune rappresenta le questioni - vale a dire, certe questioni e non altre - come quello che sono nella semplice natura del caso. Sulle cose viene gettata un’aria di è naturale, un senso di “la cosa sta in piedi”(…) sono descritte come inerenti alla situazione, aspetti intrinseci della realtà, il modo in cui vanno le cose»90.
Oggi però sembra piuttosto complicato parlare di senso comune a fronte di una crescente differenziazione sociale che rende le società complesse. La segmentazione in una serie di sfere, di istituzioni e di cerchie dotate ciascuna di saperi, pratiche e valori parzialmente dissimili tra di loro, comporta il bisogno, la necessità dello sviluppo di una appartenenza plurima. L’individuo delle società complesse appartiene a una molteplicità di sfere che si intersecano. Questo comporta una simultaneità a molti sensi comuni, e non a uno solo. Il lavoro del senso comune si presenta allora come un lavorio, un tessere incessantemente i panni di una realtà multiforme che per essere compresa ha bisogno di essere semplificata.