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Cultura alta, cultura di massa, cultura popolare

Capitolo 2: L’insostenibile leggerezza dell’industria culturale

2.1 Cultura alta, cultura di massa, cultura popolare

La prima metà del secolo scorso fu l’ideologia anticapitalistica a influenzare gran parte della produzione teorica del tempo. Nella seconda metà degli anni ’40, gli esponenti della Scuola di Francoforte descrivevano l’individuo della società di massa come manipolato dal sistema e partecipe di una cultura di massa mercificata. Tempo libero, arti e cultura, filtrati dall’industria culturale, controllavano le coscienze individuali rendendo gli uomini succubi del sistema stesso, anonimi e conformisti. La società industriale, orientata a produrre individualismo sfrenato e allo stesso tempo, massificazione degli individui, fondava «la strumentalità della cultura di massa» che, come scriveva Max Horkheimer, «serve a rafforzare la pressione della società sull’individuo, precludendogli ogni speranza di preservare la propria individualità, di salvarla dalla disintegrazione […] così la retorica dell’individualismo, imponendo modelli d’imitazione collettiva, rinnega quello stesso principio cui a parole rende omaggio»151. Ne “La dialettica dell’illuminismo”, il filosofo tedesco, insieme al compagno di studi Francortese Theodor Adorno scriveva: «Ogni singola manifestazione dell’industria culturale torna a fare degli uomini ciò che li ha già resi l’industria culturale intera. E a impedire che questo processo di riproduzione semplice dello spirito possa mai dare luogo a quella allargata, vegliano tutti i suoi agenti, dal produttore fino alle associazioni femminili»152. Il controllo sugli individui veniva esercitato dall’industria culturale attraverso il

divertimento (amusement); l’ideologia borghese, operando una separazione tra utilitas e necessità da una parte, bellezza e piacere estetico dall’altra, rendeva la cultura un campo specifico distaccato dalla vita quotidiana153. La cultura, sottomessa alle esigenze dell’ideologia dominante, aveva il compito di integrare tutti gli elementi sociali con contenuti devianti, partecipando all’omogeneizzazione della società e all’imposizione subdola dell’ideologia dominante. L’individuo a una dimensione protagonista di una repressione sublimata, indottrinato dai mass-media, diventava schiavo sublimato154. Jean Baudrillard, sulla scia del pensiero della scuola di Francoforte, arrivò a formulare negli anni Settanta una teoria critica sul consumo che esplicitava il rapporto mistificato tra struttura economica e struttura sociale155. La sua analisi, orientata al sistema degli oggetti e del

151 M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino, 1969, p. 137. 152 M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1982, p. 134.

153 Cfr. H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione, Einaudi, Torino, 1999. Questo campo culturale viene definito dal filosofo tedesco“cultura affermativa”.

154 Cfr. Marcuse, L’uomo ad una dimensione, op. cit.

155 L’analisi del reale effettuata da Baudrillard, muovendosi su diversi piani paralleli e sviluppandosi attraverso differenti regioni del sapere, intreccia discipline tra di loro indipendenti ricercando proprio nell’intercambiabilità del piano d’osservazione, una maggior completezza e una più precisa circoscrizione dell’oggetto di volta in volta in esame. Come scrive Paltrinieri, infatti, “l’opera di Baudrillard deve la sua importanza al fatto che rappresenta una sintesi completa e puntuale del rapporto tra struttura economica e struttura sociale, rapporto che si cela dietro il sistema del

consumo, era volta a dimostrare come il consumo fosse uno strumento di potere e di controllo sociale. Secondo il pensiero del sociologo la società stratificata, divisa in classi, parlava tramite gli oggetti: «La circolazione, l’acquisto, la vendita, l’appropriazione dei beni e degli oggetti/segni differenziati costituiscono oggi il nostro linguaggio, il nostro codice, per cui l’intera società comunica e si parla»156. La logica esistente era quella della differenziazione per cui gli oggetti erano materiale per uno scambio di tipo simbolico all’interno di relazioni tra individui che percepivano i rapporti sociali in termini di differenze.

Pierre Bourdieu ha fornito una lettura particolare del legame tra cultura e società introducendo l’interessante divisione delle dimensioni del capitale, quest’ultimo responsabile della differenzazione sociale dovuta alla diversità tra le strutture patrimoniali complessive dei soggetti appartenenti alle varie classi sociali.

Ogni classe infatti è per lo studioso il risultato dell’accumulo di tre capitali: quello economico, quello culturale e quello sociale. Dalla combinazione di queste tre dimensioni del capitale, inteso come insieme di risorse e di poteri effettivamente utilizzabili, dipende l’appartenenza ad una classe determinata. Secondo l’autore il capitale culturale può essere convertito in capitale economico o può agire in contrapposizione con esso nelle lotte tra le frazioni «in continuo conflitto per occupare posti superiori all’interno della classe e nell’ambito della struttura di classe nel suo complesso»157. Vi è, infatti, uno scontro continuo all’interno della classe dominante (classe dominante che secondo Bourdieu è divisa in due componenti: la prima è basata sul capitale economico, la seconda sul capitale culturale) su quale forma di capitale debba essere utilizzata ai fini della distinzione158: il capitale economico o quello culturale. Quest’ultimo inerisce alla cultura trasmessa dall’ambiente familiare e a quella acquisita attraverso l’accesso al sistema educativo: il capitale culturale di cui si dispone sarà tanto più elevato maggiore è il tempo e il denaro impiegato a istruirsi, e quanto più le istituzioni educative di cui si fa parte sono considerate d’élite. Scriveva Bourdieu: «Le statistiche mostrano che l’accesso alle opere culturali è privilegio della classe colta; ma questo privilegio ha tutte le apparenze della legittimità. Infatti da esso sono esclusi soltanto coloro che si escludono»159. La pratica culturale, sosteneva il sociologo, aumenta il bisogno, che s’intensifica quanto più viene

consumo e sul quale si è fondata, sin dall’inizio, tutta la tradizione sociologica dei consumi”. Eppure, sebbene l’autore sia un forte critico della società dei consumi, non è solo di consumo che egli tratta, né è possibile rileggere la sua opera alla luce delle ideologie anticapitalsitiche.

156 J. Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 101. 157 E. Di Nallo, Quale marketing per la società complessa?, FrancoAngeli, Milano, 1998, p. 138.

158 La distinzione troverà nel concetto di habitus la possibilità di definire stili di vita differenti e distintivi.

L’habitus viene definito dall’autore come “capacità di produrre pratiche ed opere classificabili, e capacità di distinguere e di valutare queste pratiche e questi prodotti”, in P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, p. 174. Inoltre l’habitus costituisce il gusto. Quest’ultimo permette di costruire uno specifico immaginario sociale a cui corrisponde un certo stile di vita.

159 P. Bourdieu, A. Darbel, L’Amore dell’arte: le leggi della diffusione culturale. I Musei d’arte Europei e il loro

realizzato. Il “bisogno culturale”, a differenza dei “bisogni primari”, è prodotto dall’educazione. La scuola crea “il bisogno culturale”, ma fornisce anche i mezzi per soddisfarlo per cui alle ineguaglianze scolastiche corrispondono le ineguaglianze davanti alle opere di cultura. Il «profitto di distinzione», è, «proporzionale alla rarità degli strumenti necessari ad appropriars[i]»160 dei diversi prodotti culturali. Le opere culturali sono gerarchizzate in maniera sottile, per cui solo alcuni hanno i mezzi per appropriarsi dell’arte “difficile” e avere il privilegio di assaporarne le raffinatezze. A questo punto si può distinguere arti “alte”, “basse” e di medio livello e queste definizioni sono date da coloro la cui pretesa di legittimità si basa sugli anni d’istruzione - formale o informale - investiti per possedere questo tipo di conoscenze. L’istruzione permette di imparare a distanziarsi dalle cose, di avere un atteggiamento contemplativo e valutativo, di possedere, diceva Bourdieu, un’estetica Kantiana161.

Il consumo dei beni della cultura alta (arte, narrativa, opera, filosofia), suggeriscono Baron Isherwood e Mary Douglas, deve essere posto in relazione ai modi in cui altri beni culturali più comuni quali l’abbigliamento, il cibo, gli svaghi, sono gestiti e consumati. Entrambi s’iscrivono in un medesimo spazio sociale e tracciano le linee dei rapporti sociali. Le classi di consumo vengono, secondo questi autori, definiti sulla base del consumo di tre serie di beni: i prodotti principali, come il cibo, che corrispondono al settore di produzione primaria; i prodotti tecnologici che corrispondono al settore di produzione secondaria; quelli d’informazione corrispondenti alla produzione terziaria, in cui rientrano istruzione, svago, arti e attività culturali. Coloro che si trovano all’apice della struttura sociale avranno non solo il più alto livello di guadagni, ma anche competenze maggiori nel giudicare i beni dell’informazione e nell’apprezzare la produzione terziaria perché avranno investito più degli altri nel capitale simbolico e culturale. Nell’ambito della produzione e del consumo artistico dunque, una delle partizioni più classiche attraverso cui si è riprodotta la disuguaglianza sociale è quella tra cultura d’élite e cultura popolare162. Il sistema arte, attraverso la declinazione del gusto e dei canoni estetici, crea confini, barriere, sistemi di chiusura sociale, partecipa alla creazione e perpetuazione di identità disuguali e concorre alla esclusione legittimata dei gruppi marginali.

Nonostante il nesso immediato che può essere scorto tra arte e ideologia, è necessario sottolineare la profonda autonomia di cui il sistema arte dispone nella riproduzione dell’ideologia. L’arte, come afferma Annalisa Tota, è contemporaneamente un’attività ideologica e il prodotto dell’ideologia.

160 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna, 1983, p. 233.

161 Daniel Miller definisce l’estetica kantiana come una “un’estetica di rifiuto, il rinunciare al piacere immediato che deriva da un’appropriazione evidente e sensuale per conseguire un’appropriazione più coltivata e astratta attraverso una completa comprensione”, in D. Miller, Material Culture and Mass Consumption, Basil Blackwell, Oxford, 1987, p. 149.

162 Ciò si è rivelato per molto tempo vero nel caso della società americana, come si evince dagli studi di Gans, e nel caso di quella francese esaminata da Bourdieu.

Ciononostante essa resta una sfera autonoma. Il modo in cui l’ideologia di un gruppo sociale si rispecchia in un prodotto artistico è influenzato e determinato da quella che Janet Wolff163 definisce

mediazione estetica. La forma dell’opera d’arte è determinata dalle convenzioni estetiche che si

hanno in una determinata società e dalle condizioni tecnologiche, materiali e istituzionali vigenti per la produzione artistica del periodo. Wolff critica le teorie neomarxiste che presuppongono l’esistenza di un rapporto lineare tra ideologia e arte164: le idee che prevalgono in un dato contesto sociale sono quelle della classe dominante che detiene il controllo non solo dei mezzi di produzione materiale ma anche di quelli simbolici e culturali. Per riuscire a far questo la classe dominante dovrebbe essere estremamente coesa, un gruppo omogeneo che produrrebbe e riprodurrebbe incessantemente l’ideologia necessaria a legittimare lo status quo165.

In realtà la complessità della società contemporanea inizia a inficiare questa teoria per due ragioni: la prima consiste nella difficoltà di trovare criteri validi su cui fondare i processi di esclusione ed inclusione sociale; la seconda riguarda l’impossibilità di identificare una classe dominante, dal momento che appare evidente l’esistenza di più gruppi sociali che competono tra loro, negoziando il potere reciproco166. Così nelle società contemporanee si presenta la necessità di sostituire il concetto di classe dominante, ormai obsoleto, con quello più appropriato e plurale di confini culturali o

cultural boundaries, inteso come partizioni create e ricreate socialmente attraverso continue

negoziazioni che hanno lo scopo di legittimare l’ineguale distribuzione delle risorse.

Nell’opera più nota di Karl Mannheim, “Ideologia e utopia”, l’ideologia è indagata come sistema di pensiero che si fonda su valori e metri interpretativi che sono statuiti e validi all’interno di quell’unico sistema. L’individuo, afferma il sociologo ungherese, tende a concepire la realtà secondo un punto di vista che rispecchia interessi, cultura, sensibilità e peculiari capacità del gruppo sociale determinato a cui appartiene.E ancora di più: ogni individuo vede e interpreta la realtà in base alla propria situazione esistenziale. Egli è situato proprio in virtù della propria appartenenza a un gruppo sociale. Come a dire che l’appartenenza a una nazione, a un gruppo etnico o a una generazione può essere determinante quanto la collocazione di classe167. L’autore arriva così a indagare la genesi delle formazioni differenziate di cultura e i motivi della loro proliferazione

163 Cfr. J. Wolff, The Social Production of Art, Macmillan, London, 1981.

164 Queste teorie ritengono che le idee, le convinzioni e le credenze degli attori sociali siano connesse alle condizioni materiali di esistenza.

165 Per questa visione monolitica della classe dominante cfr. R. Collins, Women and the Production of Status Cultures, in M. Lamont, M. Fournier, Cultivating Differences. Symbolic Boundaries and the Making of Inequality, University Press, Chicago, 1992, pp. 213-231.

166 Piuttosto che utilizzare il concetto di classe dominante, nelle società contemporanee risulta più appropriato quello di

confini culturali o cultural boundaries, intesi come partizioni create e ricreate socialmente attraverso continue

negoziazioni, che hanno lo scopo di legittimare l’ineguale distribuzione delle risorse. Cfr. M. Lamont, M. Fournier,

Cultivating Differences. Symbolic Boundaries and the Making of Inequality, Chicago University Press, Chicago, 1992.

nell’epoca moderna168. Considerazioni utili in relazione al fatto che non sia più possibile ricondurre le basi materiali delle ideologie esclusivamente alla classe sociale provengono dal filone degli studi sulle subculture. Il concetto stesso di subcultura, almeno per come viene declinato dagli autori della corrente dei Cultural Studies, sovverte di fatto ogni appartenenza di classe.