3. Considerazioni critiche: oltre la polivalente nozione di eutanasia verso un “approccio per contesti”.
3.1. Il diritto al rifiuto e alla rinuncia alle cure e la pretesa giuridica al suicidio medicalmente assistito.
Ciò che accomuna le due forme di eutanasia attiva e passiva è, innanzi tutto, l‟aspirazione che sta alla base della pretesa giuridica del paziente: la possibilità di scegliere come vivere i momenti finali della propria vita (che la malattia, e non la libertà individuale, sta conducendo al termine).
Oggi che le biotecnologie permettono di prolungare la vita, oltre (per non dire contro) il naturale ciclo biologico (si pensi ai casi nei quali molte delle funzioni biologiche del morente vengono artificialmente „surrogate‟ da macchine), i diritti coinvolti nelle questioni c.d. eutanasiche rappresentano delle libertà (negative) che si pongono contro le ingerenze della scienza e della tecnica sul corpo e sulla esistenza psichica della persona. Ma, come vedremo, proprio questa istanza di autodeterminazione intorno al valore „vita‟ è alla base delle principali resistenze all‟ammissibilità etica ed al riconoscimento giuridico delle pretese eutanasiche29.
In entrambi i casi, inoltre, la pretesa del soggetto si traduce in un atto di disposizione del corpo (o meglio della persona) i cui effetti non si esauriscono all‟interno della sfera soggettiva dall‟individuo interessato, ma coinvolgono anche soggetti terzi perché l‟attività necessaria per la sua esecuzione richiede quasi sempre l‟intervento di personale medico o para-medico30. Da questo secondo profilo deriva una delle obiezioni più forti al riconoscimento giuridico delle
29 Il primo e più ricorrente argomento addotto contro l‟eutanasia, infatti, è quello che fa leva sulla teoria della c.d. „indisponibilità‟ o „sacralità della vita‟ che ha avuto il suo contesto privilegiato nella tradizione ebraica e nella componente cattolica della tradizione cristiana. Cfr.
supra nota n. 25. Per l‟opzione pro life v. F. CAVALLA, Diritto alla vita, diritto sulla vita. Sulle origini culturali del problema dell‟eutanasia, in Riv. int. fil. dir., 1988, p. 16 ss; L‟A. ha esposto le
medesime tesi in ID, Diritto alla vita, diritto sulla vita. Alle origini delle discussioni
sull‟eutanasia, in Dir. soc., 2008, p. 1 ss. Sul tema si veda anche E. LECALDANO, Bioetica. Le scelte morali, cit., p. 53-60; P. BORSELLINO, Bioetica tra “morali” e diritto, cit., p. 317 ss. La
tesi è accolta anche in alcune prospettive etiche, per così dire, „laiche‟ che influenzano gli approcci giuridici alle questioni bioetiche di fine vita sulle quali torneremo di seguito nel § 4 e diffusamente nel capitolo III, § 5.
30 Per questa distinzione e per le conseguenze che ne derivano in ordine alla valutazione della liceità dell‟atto di disposizione del corpo e dell‟integrità psico-fisica v. R. ROMBOLI, La
pretese eutanasiche, dato che per l‟ordinamento riconoscere il diritto del paziente a rinunciare alle cure o ad essere aiutato a morire significa autorizzare un terzo a porre in essere comportamenti (attivi o omissivi) che hanno l‟effetto di provocare la morte, dissolvendo irrimediabilmente la „relazionalità‟ del rapporto medico paziente31.
Tuttavia, sono individuabili almeno due elementi che differenziano fortemente l‟eutanasia passiva da quella attiva, tanto da giustificare un diverso trattamento giuridico.
In primo luogo, nel caso dell‟eutanasia passiva l‟azione (od omissione) posta in essere dal medico consiste nel lasciare che la malattia faccia il suo corso naturale e quindi, nel permettere al paziente che lo desideri di non vivere clinicamente i momenti finali della propria esistenza, mentre nell‟altro caso la condotta del medico incide artificialmente sul ciclo biologico, provocando la morte innaturaliter o comunque anzi tempo32. In altre parole, con il rifiuto o la rinuncia consapevole alla terapia il soggetto chiede (allo Stato di assicurare) che la scienza medica e la tecnica si astengano dall‟invadere la sua sfera intima, il suo corpo, la sua persona, nei momenti finali dell‟esistenza.
Diversamente con una richiesta di eutanasia attiva l‟individuo chiede (allo Stato di permettere) che la scienza intervenga per causare la morte prima che la
31 Secondo una certa ricostruzione etica l‟eutanasia nelle sue varie forme è intrinsecamente „antirelazionale‟ perché compromette la „relazionalità‟ del rapporto medico-paziente, comportando necessariamente la prevaricazione di un soggetto sull‟altro. Infatti, se si riconoscesse al paziente un diritto alla buona morte a partire da una decisione soggettiva si dovrebbe far gravare sul medico l‟obbligo di porre in essere l‟azione eutanasica; in questo caso la volontà il paziente diverrebbe signora della coscienza del medico. Se, viceversa, al medico fosse riconosciuta la possibilità di rifiutare arbitrariamente la richiesta eutanasica del paziente, sarebbe in definitiva al medico che verrebbe attribuita una vera e propria potestà sulla vita del paziente. In entrambi i casi la simmetria relazionale tra i due soggetti verrebbe dissolta e la loro parità ontologica alterata, rendendo la situazione irrimediabilmente antirazionale e, dunque, antigiuridica. Per simili argomentazioni si vedano F. D‟AGOSTINO, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1996, p. 191; F. FRENI, Biogiuridica pluralismo etico religioso, cit., p. 133; A. D‟ALOIA, Diritto di morire? La problematica dimensione costituzionale della fine della vita, in
Pol. dir., 1998, p. 615. Contro questa impostazione altri autori ribattono che la richiesta di
eutanasia - qualora fosse riconosciuta dal diritto - non configurerebbe un obbligo insindacabile perché al medico potrebbe essere garantito il diritto di obiezione di coscienza. In secondo luogo, neppure il paziente rimarrebbe in balia della volontà contraria del medico perché il suo diritto sarebbe garantito imponendo all‟obiettore di indirizzare il paziente verso altri colleghi disponibili a dar seguito alla sua richiesta. D. NERI, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, cit., p. 150 ss.
32 In questi termini, A. D‟ALOIA, Diritto di morire? La problematica dimensione
costituzionale della fine della vita, cit., p. 615; ID, “Diritto” e “diritti” di fronte alla morte. Ipotesi ed interrogativi intorno alla regolazione normativa dei comportamenti eutanasici , in L.
malattia abbia irreparabilmente compromesso la sua personale concezione di dignità e di qualità della vita. Tale differenza non significa che la pretesa del paziente che avanza una richiesta del secondo tipo sia meritevole di minore considerazione sul piano sociale, ma da un punto di vista giuridico essa impone senz‟altro un‟autonoma riflessione ed una più ponderata soluzione.
Il secondo elemento, conseguenza del primo, che differenzia le due „forme‟ di eutanasia in esame sta nel fatto che la pretesa di „non essere curato‟ è oggetto di uno specifico diritto riconosciuto, anche a livello costituzionale, da gran parte degli ordinamenti giuridici occidentali33.
La richiesta di „essere aiutato a morire‟, invece, è garantita in pochissimi ordinamenti, mentre nella maggior parte dei casi è sottoposta a divieti assistiti da sanzione penale. La diversa estensione di riconoscimento è un dato che non può non essere considerato, quale espressione - forse - dell‟assenza di un bisogno sociale „urgente‟ o della mancanza di una coscienza sociale matura per affrontare questa tematica bioetica.
Alla luce di queste considerazioni, si ritiene che lo stadio attuale del dibattito etico e, soprattutto, l‟evoluzione degli ordinamenti giuridici impongano di abbandonare del tutto il binomio categoriale, giuridicamente improprio, di „eutanasia passiva/attiva‟ per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché si tratta di espressioni fuorvianti che, qualificando le situazioni dal punto di vista del soggetto che pone in essere il comportamento che cagiona la morte (omissione della terapia o distacco la macchina), focalizzano l‟attenzione sulla liceità o illiceità di tale condotta, facendo perdere di vista il cuore del problema: la libertà della persona di „scegliere la propria salute‟ e, conseguentemente, di essere se stessa anche nel momento finale della sua vita.
In secondo luogo, perché da un punto di vista simbolico continua a ricondurre alla controversa nozione di eutanasia alcune posizioni giuridiche che possono essere definite con specifiche categorie giuridiche.
Infatti, la nozione di eutanasia passiva individua situazioni e comportamenti che sono pacificamente definibili come espressioni del diritto del paziente di
33 Come avremo modo di considerare, il diritto al rifiuto o alla interruzione della terapia è riconosciuto da gran parte dei paesi europei (cfr. capitolo II) e nel nostro ordinamento trova fondamento nell‟art. 32, 2 co., della Costituzione. Su tali aspetti torneremo estesamente nei prossimi capitoli.
rifiutare o rinunciare alle cure in ogni fase della vita. Come avremo modo di osservare, in virtù dei principi che oggi presiedono la relazione fra medico e paziente, primo fra tutti il principio del consenso informato34, garantire efficacia a tale diritto, rientra fra gli obblighi del personale sanitario35.
Con la presente ricerca ci proponiamo quindi di verificare il modo in cui tale diritto è riconosciuto e disciplinato in alcuni Paesi europei, valutare il livello di riconoscimento e soddisfazione che raggiunge nel nostro ordinamento ed infine riflettere su ulteriori possibili modalità di attuazione.
34 Il consenso informato può essere definito come “l‟assenso che viene richiesto ai singoli pazienti dal personale sanitario prima di sottoporli ad accertamenti diagnostici o ad atti terapeutici o di coinvolgerli in una sperimentazione, dopo avergli fornito una adeguata informazione”, (C. BOTTI, Consenso, in E.LECALDANO,(a cura di), Dizionario di bioetica, Roma, Laterza, 2002, pp. 59 ss) e costituisce lo strumento di tutela ormai tradizionale della dignità e dell‟autonomia individuale in campo biomedico. Il principio fu codificato dal c.d. Codice di Norimberga che, nato dalle carte del processo svoltosi nell‟omonima città tedesca (in particolare, dalla sentenza finale del caso US v. Karl Brandt, consultabile in “www.mazal.org/NMT-HOME.html”) al termine della II guerra mondiale contro i medici nazisti, autori di torture e sperimentazioni sui detenuti nei campi di concentramento e di sterminio, traccia una linea tra la sperimentazione lecita e la tortura, facendo leva su alcuni punti chiave: il consenso a essere sottoposto a un esperimento, la necessità di una preventiva informazione sul fine per cui si effettua la sperimentazione, sulla durata della stessa, sui limiti previsti o possibili della terapia proposta, sulle possibili conseguenze cui ci si espone con la partecipazione alla sperimentazione. Il principio è stato poi ribadito con la Dichiarazione di Helsinki, adottata nella diciottesima Assemblea Generale della World Medical Association (WMA) nel 1964 (consultabile sul sito della World Medical Association, all‟indirizzo “www.wma.net/en/30publications/10policies/b3/index.html”) e successivamente recepito da altri atti internazionali dotati di efficacia giuridicamente vincolante, quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, secondo cui “nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico” (art. 7), la Convenzione sui diritti del‟uomo e la biomedicina, adottata nell‟ambito del Consiglio di Europa nel 1997 ed più di recente dalla Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell‟uomo, adottata dall‟Assemblea generale dell‟UNESCO nel 2005. Su questi aspetti si veda L. MARINI, Il diritto internazionale e
comunitario della bioetica, Torino, Giappichelli, 2006, p. 319 ss. Sul consenso informato la
letteratura giuridica è ormai sconfinata, senza alcuna pretesa di esaustività si rinvia ad alcune opere monografiche sull‟argomento: A. SANTOSUOSSO (a cura di), Il consenso informato. Tra
giustificazione per il medico e diritto del paziente, Milano, 1996; P. FUNGHI - F. GIUNTA (a
cura di), Medicina, bioetica e diritto. I problemi e la loro dimensione normativa, Pisa, Ed. ETS, 2005.
35 All‟inizio degli anni settanta, negli Stati Uniti d‟America, si afferma un filone di pensiero che mira a sostituire il rapporto „paternalistico‟ medico-paziente, in cui ad un solo soggetto, il medico, è riservato il ruolo di centro di valutazione e di decisione degli interventi da porre in atto, mentre all‟altro soggetto, il paziente, competa il ruolo di destinatario di decisioni e di interventi rispetto ai quali non è richiesta, per lo più, una sua partecipazione consapevole, con un diverso tipo di relazione terapeutica, in cui i soggetti agiscono entrambi come centri di valutazione e decisione, sul punto v. P. BORSELLINO, Bioetica tra morali e diritto, Milano, Cortina, 2009, p. 115; P. DONATELLI, Paternalismo, in E. LECALDANO, Dizionario di bioetica, Bari, Laterza, 2002, p. 212 ss. Il nuovo paradigma è ben rappresentato nel Codice di deontologia medica del 16 dicembre 2006 che all‟art. 20 prevede: “Il medico deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritto fondamentali della persona” e all‟art. 38 stabilisce che “Il medico deve attenersi, nell‟ambito dell‟autonomia ed indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa”. Su questi aspetti torneremo diffusamente nel corso del lavoro.
Quanto alla nozione di eutanasia attiva si osserva che, alla luce dell‟evoluzione giuridica contemporanea, con essa si fa riferimento alla pretesa giuridica del paziente, affetto da una malattia allo stato terminale o comunque irreversibile, di ottenere un‟assistenza sanitaria al suicidio.
Per comprendere di cosa si tratta occorre considerare un ordinamento ove tale questione ha ottenuto esplicito riconoscimento e regolamentazione giuridica, come ad esempio l‟Olanda36
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In via di prima approssimazione, si può anticipare che il codice penale olandese, al pari di quelli degli altri ordinamenti europei, sanziona l‟omicidio su richiesta (art. 293 c.p.) e l‟istigazione ed aiuto al suicidio (art. 294 c.p.), prevedendo rispettivamente una pena massima di 12 anni per il primo reato e di 3 anni per il secondo. Il riconoscimento giuridico del suicidio assistito è avvenuto prima per via giurisprudenziale e poi è stato sancito dal legislatore con la Legge
contenete le procedure di controllo per l‟interruzione della vita su richiesta e il suicidio assistito entrata in vigore il 1 aprile 2002, che, modificando il codice
penale attraverso l‟introduzione di una specifica causa di non punibilità per il medico, ha legalizzato i comportamenti che integrano l‟eutanasia diretta volontaria e l‟aiuto al suicidio sancendo espressamente che essi non sono penalmente rilevanti purché posti in essere nel rispetto dei requisiti sostanziali e procedurali stabiliti dal legislatore. Rimane reato l‟aver compiuto le medesime azioni in violazione delle prescrizioni legislative e per chi non sia il medico curante di fiducia del paziente. In particolare, la normativa prevede che il medico che somministra o prescrive un farmaco con l‟intenzione di porre fine alla vita di una persona su richiesta della stessa, nel rispetto dei criteri e delle procedure fissate dalla legge, non pone in essere una fattispecie penalmente rilevante. Inoltre, la legge impone una procedimentalizzazione delle pratiche eutanasiche che vengono così sottoposte ad uno stretto controllo pubblico.
In definitiva, avremo modo di considerare che gli ordinamenti che hanno legalizzato le c.d. pratiche di eutanasia attiva non riconoscono un generico „diritto a morire‟ o un „diritto alla buona morte‟, ma, in risposta ad un‟istanza diffusa nella società, hanno reso legale - a certe condizioni e per determinate categorie di
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pazienti - l‟assistenza sanitaria al suicidio e l‟hanno sottoposta a severi controlli pubblici.
Muovendo da questa prospettiva, nel presente lavoro considereremo le principali obiezioni mosse al riconoscimento giuridico del suicidio medicalmente assistito37, esamineremo il modo in cui è stato regolato, ove è espressamente riconosciuto, e ne valuteremo l‟ammissibilità alla luce dell‟ordinamento costituzionale italiano.