3. Considerazioni critiche: oltre la polivalente nozione di eutanasia verso un “approccio per contesti”.
3.4. Il divieto di accanimento diagnostico-terapeutico
Come ultima notazione di ordine problematico-definitorio, conviene prendere in esame la nozione di accanimento diagnostico-terapeutico che viene frequentemente utilizzata nell‟ambito delle questioni bioetiche di fine-vita, senza però che vi sia chiarezza concettuale su di essa e sulle relazioni che la collegano all‟eutanasia.
Di accanimento terapeutico troviamo una definizione „giuridica‟54 nel codice italiano di deontologia medica del 16 dicembre 2006 che all‟art. 16 Foro it., 1988, IV, p. 292 ss. In altre ipotesi, è stata utilizzata la tecnica che potremmo definire
della “ricostruzione giudiziale della volontà dell‟incapace” in base alla quale la giurisprudenza ha ritenuto che la richiesta terapeutica espressa dal legale rappresentante potesse essere accolta solo se corrispondente alla reale volontà, ai desideri ed alle convinzioni dell‟interessato per come ricostruiti in via probatoria nel corso di un giudizio. Si veda la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti D‟America, 25 giugno 1990 Caso Cruzan e ux v. Director, Missouri Department of
Healthe al, 497 US 261 (1990), in Foro it., IV, 1991, p. 66 ss. Di essa si dà conto negli articoli di
A. SANTOSUOSSO, Il paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà
dopo Cruzan, e di G. PONZANELLI, Nancy Cruzan, la Corte degli Stati Uniti e il “right to die,
entrambi in Foro it., IV, 1991, p. 66 ss e 72 ss. Questa tecnica è stata seguita anche dalla Corte di cassazione italiana, nella sentenza della sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21748, pubblicata anche in
Il diritto i famiglia e delle persone, 2008, p. 64. Infine, in altri casi la decisione terapeutica relativa
ad una persona incosciente è stata assunta sulla base della tecnica che, per semplificare, chiameremo del best interest secondo la quale la valutazione di quale sia il miglior interesse del paziente è rimessa all‟esclusivo apprezzamento da parte dei medici della condizione clinica del soggetto, delle alternative terapeutiche e dei prevedibili effetti (benefici o futili) dei possibili trattamenti sanitari. Si veda per tale impostazione la sentenza della House of Lord 14,15, 16 dicembre 1992 – 4 febbraio 1993 Caso Airedale NHS Trust v. Bland, pubblicata in Bioetica, n. 2, 1997, p. 302 ss.
54 La questione del valore giuridico delle norme e dei codici deontologici è ancora controversa. Le regole di deontologia si atteggiano, anzitutto, come un regolamento ad efficacia interna indirizzate agli iscritti all‟organizzazione professionale per i quali esse sono cogenti, ma la tesi della capacità di tali regole di costituire una fonte esterna alla categoria professionale non trova un consenso unanime. In giurisprudenza, la tesi tradizionale negava l‟efficacia normativa „esterna‟ delle regole deontologiche: in questo senso v. Cons. Stato, sez. IV, 17 febbraio 1997, n. 122, in Dir. proc. amm., 1998, p. 193 ss.; Cass. civ., sez. II, 21 agosto 1985, n. 4460, in Giur. it., 1986, I, 1, p. 195 Cass. civ., sez. unite, 24 maggio 1975, n. 2104, in Giust. civ. mass., 1975, p. 969,ove si legge che “l‟ordinamento riserva alla categoria professionale ed agli organi che ne sono espressione, poteri di autonomia in relazione all‟individuazione delle regole di comportamento dei professionisti e poteri di c.d. autocrinia in sede di applicazione delle regole stesse. Queste, però, non assurgono a norme dell‟ordinamento generale, ma operano quali regole interne della particolare categoria professionale cui si riferiscono. Questa limitazione è coerente conseguenza di un più generale principio, condiviso dalla dottrina, secondo cui le fonti metagiuridiche non si trasformano, di regola, in fonti dell‟ordinamento giuridico generale, in difetto di espressa previsione legislativa” (Circa la dottrina cui si riferisce la motivazione v. A.M. SANDULLI,
Regole deontologiche e sindacato della Corte di cassazione, in Giur. civ., 1961, I, p. 616 ss; e
analogamente cfr. Cass. civ. sez. unite, 13 giugno 1989, n. 2844, in www. dejure.giuffrè.it, e 17 gennaio 1991, n. 401, in Foro it., 1992, I, c. 2243). La tendenza recente è invece nel senso del superamento della tradizionale connotazione in chiave esclusivamente corporativa della
stabilisce che “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall‟ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”.
In altre parole, l‟accanimento terapeutico, da cui il medico è tenuto ad astenersi, consiste nel perseverare con una cura inutile e sproporzionata rispetto ai prevedibili risultati che ha come unico effetto il mantenimento in essere delle funzioni biologiche del malato55. Nel parere del COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, 14 luglio
regolamentazione deontologica, in considerazione del fatto che questa viene a caratterizzarsi sempre di più per il perseguimento di finalità di interesse pubblico e, segnatamente, per finalità di tutela degli interessi dei soggetti terzi con cui si relazionano i membri della categoria, soprattutto quando l‟attività regolata incide su beni oggetto di garanzia costituzionale. In questo senso, la rilevanza delle regole deontologiche per l‟ordinamento generale può essere colta sotto diverse angolazioni, quali l‟integrazione e specificazione del contenuto delle clausole generali di ordine pubblico e buon costume, dei principi di diligenza e correttezza professionale (artt. 1175, 1776 c.c.) nel giudizio di responsabilità extracontrattuale e ai fini della valutazione della colpa in sede penale. Per questo orientamento si veda Cass., sez. I, 15 febbraio 1999, n. 1259, in Foro it., 1999, I, c. 2572, secondo la quale il codice deontologico è un parametro di correttezza professionale ai sensi dell‟art. 2598, n. 3, c.c., dunque la violazione della regola può fondare la colpa ai sensi dell‟art. 2043 cod.civ.; si veda altresì, di recente, Cass. S.U., 20 dicembre 2007, n. 26810, in www.
dejure.giuffrè.it, ove si legge che le norme dei codici deontologici costituiscono fonti normative
integrative di precetto legislativo, che attribuiscono agli Ordini Professionali il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all'ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla corte di legittimità. In dottrina v. G. DE MINICO, Regole,
comando e consenso, Torino, Giappichelli, 2004, p. 147, secondo il quale la norma deontologica
non potrà essere invocata da un soggetto terzo rispetto all‟organizzazione professionale, perché essa, “non esistendo per l‟ordinamento giuridico generale, non è titolo costitutivo di alcuna situazione soggettiva”. Diversamente per F.D.BUSNELLI Bioetica e diritto privato. Frammenti
di un dizionario, Torino, Giappichelli, 2001, p. 74, la normazione deontologica “non ha nel nostro
ordinamento rango di fonte del diritto”, ma “è tutt‟altro che indifferente in sede di interpretazione e applicazione del diritto”, in particolare relativamente al “comportamento secondo correttezza” di cui all‟art. 1175 cod. civ., ed alla diligenza di cui all‟art. 1176 cod. civ., che a norma del co. 2 “deve valutarsi con riguardo alla natura dell‟attività esercitata”. Sostiene invece espressamente che “le regole deontologiche non spiegano efficacia limitata agli aderenti alle categorie professionali”, N.LIPARI Le fonti del diritto, Milano, Giuffrè, 2008, p. 180. In dottrina, v. anche P.ZATTI (a cura di), Le fonti di autodisciplina. Tutela del consumatore, del risparmiatore, dell‟utente, Padova, Cedam, 1996; A.PATRONIGRIFFI, Diritto della persona e dimensione normativa nel codice di
deontologia medica, in L.CHIEFFI (a cura di), Bioetica e diritti dell‟uomo, Torino, Paravia, 2000, p. 247 ss;F.DURANTE,Salute e diritti fra fonti giuridiche e fonti deontologiche, in Pol. dir.,
2004, p. 563 ss; E.QUADRI, Codice di deontologia medica, in G. ALPA - P. ZATTI, Codici
deontologici e autonomia privata, Milano, Giuffrè, 2006, p. 70 ss.
55
In questo senso M. BARNI - G. DELL‟OSSO - P. MARTINI, Aspetti medico legali e
riflessi deontologici del diritto a morire, cit., p. 38 che affermano che l‟obbligo del medico di
curare si arresta di fronte all‟inutilità della terapia. Contra la teoria della futilità delle cure come limite per l‟agire medico, F. MANTOVANI, Aspetti giuridici dell‟eutanasia, cit., p. 78 ss; F. STELLA, Il problema giuridico dell‟eutanasia, cit., p. 1019. Per alcune definizioni del concetto di accanimento terapeutico si vedano S. SEMINARA, Riflessioni in tema di suicidio ed eutanasia, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 685-686; A. SANTOSUOSSO, Situazioni giuridiche critiche nel rapporto medico paziente: una ricostruzione giuridica, in Pol. dir., 1990, p. 194 ss; F.
MANTOVANI, Il problema della disponibilità del corpo umano, in L. STORTONI (a cura di),
1995, (p. 28-29), in termini analoghi, l‟accanimento terapeutico è definito “un trattamento di documentata inefficacia rispetto all‟obbiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un‟ulteriore sofferenza, in cui l‟eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obbiettivi della condizione specifica” e sono indicati come criteri per qualificare l‟“inutilità” di una terapia: “l‟inefficacia, la gravosità e la sproporzionalità rispetto ai prevedibili risultati”56.
Si pone il problema, allora, di individuare dei criteri lato sensu giuridici (cioè dotati di un apprezzabile grado di capacità descrittiva ed orientativa dei comportamenti umani) in base ai quali stabilire quando una cura è „inutile‟.
La distinzione che viene tradizionalmente invocata a tale scopo è quella fra mezzi ordinari/straordinari o fra mezzi proporzionati/sproporzionati57. Secondo la tesi più accreditata sia nel mondo medico che in quello giuridico, il criterio per determinare il carattere proporzionato o meno di un trattamento ha carattere circostanziale e muove dalla stima concreta dei costi e benefici e delle effettive possibilità di guarigione o di miglioramento della qualità della vita che sono prospettabili al paziente58.
La genericità di tali definizioni non aiuta certo la comprensione anche perché, per accettarle tout court, sarebbe necessario chiarire preventivamente cosa si intenda per „qualità della vita‟, concetto intorno al quale si scontrano visioni etiche assolutamente inconciliabili59.
Per tale ragione, pare opportuno provare a scandagliare la nozione e, seppur correndo il rischio di una qualche banalizzazione, individuarne un significato „operativo‟ giuridicamente utile. In tal senso, anche alla luce della definizione che ne dà il codice di deontologia medica, sembra possibile enucleare due diverse accezioni di accanimento terapeutico: una soggettiva e l‟altra oggettiva.
56 Si veda anche il documento dello stesso Comitato La terapia del dolore: orientamenti
bioetici, 30 marzo 2001, p. 45, ove si legge “L‟ accanimento terapeutico è il segno di una medicina
che ha perso il vero obbiettivo della cura: una medicina che non si rivolge più alla persona malata, ma alla malattia e che avverte la morte non come evento naturale ed inevitabile, ma come una sconfitta”. E da ultimo il parere, Dichiarazioni anticipate di trattamento, 18 dicembre 2003, tutti consultabili al sito www. governo.it/bioetica/pareri/html.
57
La distinzione si trova negli interventi di Pio XII raccolti in Discorsi ai medici, a cura di G. Angelini, Roma, Orizzonte medico, 1959.
58 Sul punto v. P. CENDON, La sospensione dei trattamenti vitali, in Pol. dir., 2002, p. 470.
59
La prima fa riferimento alla valutazione soggettiva del paziente. Ogni qualvolta siamo in presenza di una persona in grado di esprimere il proprio consenso e/o dissenso ai trattamenti sanitari (ovvero di un paziente che abbia lasciato una dichiarazione di volontà documentata circa le cure che intende accettare o rifiutare) la valutazione dell‟utilità di una terapia in riferimento al miglioramento della qualità della vita, non può che spettare al suo dominio esclusivo. In questo senso sono da considerarsi eccessivi o sproporzionati tutti quei trattamenti diagnostici e/o terapeutici percepiti come tali dall‟interessato60.
Pertanto, in presenza di un paziente capace di determinarsi il concetto di accanimento terapeutico acquisisce una connotazione residuale dal momento che la scelta terapeutica è assunta nel dialogo tra medico e paziente, all‟interno del quale le percezioni soggettive di quest‟ultimo prevalgono necessariamente anche contro le evidenze medico-scientifiche61. Il paziente può liberamente decidere se iniziare o continuare una terapia a prescindere dal giudizio di adeguatezza clinica e il rifiuto delle cure trova legittimazione indipendentemente dalla qualificazione di esse come accanimento terapeutico.
La nozione di accanimento terapeutico in senso oggettivo, invece, si basa esclusivamente sulla specifica condizione clinica del malato nonché sulla valutazione della capacità di una determinata terapia di provocare un miglioramento dello stato di salute psico-fisica dello stesso e, dunque, è necessariamente rimessa all‟apprezzamento medico.
Questa rileva, in particolare, nell‟ipotesi di pazienti „incompetenti‟ che non hanno espresso alcuna volontà ovvero in tutte quelle situazioni di urgenza in cui il consenso/dissenso al trattamento non può essere ottenuto o conosciuto e la prognosi (in particolare il suo carattere infausto) impone di decidere rapidamente.
Per tutto ciò, ci pare che la nozione di accanimento diagnostico-terapeutico acquisisca un‟efficacia „prescrittiva‟ solo in questa seconda accezione, quando
60
Così fra gli altri A. SANTOSUOSSO, Situazioni giuridiche critiche nel rapporto medico-
paziente: una ricostruzione giuridica, cit., p. 195 che giudica “terapie non appropriate per eccesso”
tutte quelle applicate senza il consenso del paziente; N. VICECONTE, Il diritto di rifiutare le
cure. Un diritto costituzionale non tutelato? Riflessioni a margine di una decisione del giudice civile sul caso Welby, in Giur. cost., 2007, p. 2376; S. SEMINARA, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. e proc., 2007, p. 1566.
61 Al più mantiene una propria utilità nella fase di formazione del consenso/dissenso informato quando il medico ha il dovere di agire tenendo in considerazione tale divieto nel comunicare al paziente le diagnosi cliniche, le possibili alternative terapeutiche, le loro prevedibili conseguenze.
diventa uno dei criteri di giudizio (in particolare, quello affidato al medico) nei procedimenti di assunzione delle decisioni terapeutiche relative ai soggetti privi di capacità decisionale che non hanno lasciato istruzioni sulle cure.
4. I possibili approcci giuridici alle scelte di fine-vita. I diversi significati