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Egemonia borghese e restrizione del suffragio.

4. La dottrina maggioritaria sulla rappresentanza nell’epoca liberale

4.3. Egemonia borghese e restrizione del suffragio.

Una prima crepa nel dogmatismo liberale si manifestava rapportando la teoria costituzionale avanzata dalla dottrina con la realtà della società, che si muoveva verso un pluralismo che faceva venir meno l’omogeneità di classe, quella borghese, tra i rappresentanti e i rappresentati. Il motivo del progressivo deterioramento dello Stato liberale era da addebitarsi principalmente all’estensione del suffragio che, in alcune esperienze, perdeva addirittura il carattere censitario addivenendo ad una forma di

la quale prevede che i deputati vengano eletti «in ciascun Stato federato». Secondo l’Autore dalla stretta logica della rappresentanza di tutto il Popolo sarebbe dovuta discendere l’individuazione di un rappresentante ogni porzione di residenti. In realtà la Costituzione imperiale tedesca prevedeva una suddivisione dei deputati per ogni Stato, anche oltre il criterio numerico. La preoccupazione dello studioso tedesco era evidentemente quella di evitare che nella Camera i rappresentanti portassero le esigenze e le richieste dei singoli Stati, che avevano già il loro luogo di approdo nel Senato federale.

121 Le parole, riportate da A. SAITTA, Costituenti e costituzioni, cit., p. 132, sono di Jean Joseph

Mounier, rappresentante del Terzo Stato durante il dibattito costituente francese per la Costituzione del 1791.

122 P. ROSANVALLON, Il popolo introvabile, cit., p. 58 s., il quale ricorda le parole del deputato Lainé

quando presentò il progetto di legge caratterizzato dallo scrutinio di lista in ogni dipartimento. Secondo Lainé «l’intrigo e la mediocrità possono avere la meglio in una cerchia ristretta, ma via via che la cerchia si allarga l’uomo deve avere qualità superiori per essere in grado di attirare l’attenzione e i voti».

suffragio universale maschile123.

Per questa dottrina124 il problema fondamentale era quindi quello di «superare la dicotomia rappresentati e rappresentanti e di conciliare la rappresentanza con l’unità dello Stato»125 che, appunto a causa dell’«erodersi della composizione “monoclasse” dei sistemi politici», aveva segnato il passaggio dello Stato verso uno «Stato aperto ad una pluralità di fini diversi»126. Tale superamento però trovava forte contrasto da parte della dottrina richiamata poiché, nonostante l’avanzamento delle norme di diritto positivo, si tendeva a rifiutare l’idea di rappresentare la frammentazione, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista del diritto positivo. Sul primo versante, si continuava ad insistere sulla circostanza che è la Nazione ad essere rappresentata e che la caratteristica di fondo della rappresentanza politica è da ravvisarsi nell’assenza di rapporto tra i rappresentanti e i rappresentati127. Dall’altro lato, veniva fermamente contestata la necessità di allargare il suffragio, poiché solo con il diritto al voto di talune classi, le migliori128, si poteva

123 Gli Stati continentali infatti tra gli ultimi decenni del 1800 e i primi del 1900 approvavano riforme

volte all’allargamento del suffragio maschile senza alcun vincolo di censo o di proprietà immobiliare. In Francia, oltre alla breve esperienza del 1793, l’estensione del suffragio avvenne con la riforma del 1848, in Italia nel 1918, nel Regno Unito con tre riforme nel 1832, 1867 e 1894, mentre in Germania si costituzionalizzò il suffragio universale maschile con la Costituzione del 1871. Sull’evoluzione del diritto elettorale si veda F. LANCHESTER, voce Voto (diritto di): a) Diritto pubblico, in Enciclopedia del diritto, v. XLVI, Giuffrè, Milano, 1993, p. 353, e ivi la ricostruzione storica della limitazione del suffragio che l’Autore racchiude fondamentalmente in due categorie: restrizione sulla base del censo o della proprietà terriera e restrizione sulla base delle capacità. Sull’incidenza del suffragio diretto sulla concezione della rappresentanza politica e sul ruolo del Parlamento si veda infra § 7.

124 Dottrina che A. DI GIOVINE e S. SICARDI, Rappresentatività e governabilità, cit., 118, qualificano

come dottrina che si rifà ad un «concetto autoritario di rappresentanza» e che appartiene fondamentalmente «al filone» di pensiero «Laband-Orlando-Romano».

125 A. BARBERA, La rappresentanza politica: un mito in declino?, cit., p. 858, il quale si riferisce a

questa dottrina qualificandola per l’appunto come «statalist[a]».

126 M. DOGLIANI, L’idea di rappresentanza nel dibattito giuridico in Italia e nei maggiori paesi

europei, in P. BALLINI (a cura di), Idee di rappresentanza e sistemi elettorali in Italia tra Otto e Novecento. Atti della terza giornata di studio “Luigi Luzzatti” per la storia dell'Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 36.

127 Come messo in evidenza da L. CARLASSARE, Problemi attuali della rappresentanza politica, cit.,

p. 40, continuare ad insistere sulla completa assenza di rapporto serviva ai teorici liberali per far sparire «gli interessi molteplici e in conflitto [presenti nella società]» facendoli confluire «dentro l’astrazione dell’interesse generale». Insistere sull’assenza di un rapporto sarebbe inoltre servito a garantire «l’omogeneità dell’interesse come espressione del dominio della borghesia, titolare esclusiva della rappresentanza politica» (G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, cit., p. 9).

128 V. E. ORLANDO, Principii di diritto costituzionale, cit., premettendo (p. 75) che «la teoria del

suffragio universale è falsa e pericolosa, in quanto sostiene il Diritto elettorale essere inseparabile dalla natura umana», aggiunge che non è possibile assegnare il diritto di voto a tutte le classi sociali poiché «dare rappresentanza ad una classe che non abbia la maturità politica necessaria […] nocerà alla vita pubblica» per concludere (p. 81 s.) che non essendo utile «ricercare un criterio positivo di capacità» attraverso una valutazione di «censo [e di] capacità intellettuale», è piuttosto utile «escludere certe categorie di incapaci». Secondo Orlando (p. 80 s.) la limitazione del suffragio non sarebbe in contrasto a quello che lo stesso

35 mantenere quell’astratta omogeneità del popolo che stava via via venendo meno. Il suffragio universale veniva osteggiato, in particolare, sostenendo la necessità di escludere dalla funzione elettorale le classi popolari, alle quali si addebitava il rischio di compromettere il buon funzionamento della rappresentanza politica129. Il bisogno di giustificare il suffragio ristretto può essere ricondotto all’esigenza di «una società semplice, omogenea al suo interno, scarsamente conflittuale, non scomponibile in interessi organizzati e in partiti»130 che sta alla base della concezione liberale della rappresentanza alla quale, forse, può rapportarsi anche una certa generale avversione nei confronti dei corpi intermedi, con particolare riferimento alle aggregazioni partitiche131.

La limitazione del suffragio, sul piano della teoria costituzionale, veniva giustificata partendo dal disconoscimento del diritto elettorale come diritto naturale, che avrebbe implicato, conseguentemente, il riconoscimento generale del diritto di partecipare alla determinazione dei rappresentanti132. Per negare l’esistenza di un diritto in capo ai

Autore identifica come il principio popolare, che è il principio sul quale si basa lo Stato rappresentativo, nel senso che «tutto il popolo deve essere ammesso alla funzione elettiva». L’Autore sul punto sembra cadere in una contraddizione insanabile, infatti, non si comprende come si possa, dal punto di vista prettamente teorico, ammettere contemporaneamente la rappresentanza popolare (di tutti) e la limitazione del suffragio. Più approfondita analisi, seppur anch’essa non priva di contraddizioni è offerta dello stesso V. E. ORLANDO, La riforma elettorale, Milano, Hoepli, 1883. Per una ricostruzione del dibattito nel periodo liberale sul tema del suffragio sia nelle Aule parlamentari che nel mondo accademico italiano, si veda A. RIDOLFI, La rappresentanza politica, il suffragio, ed i sistemi elettorali: profili storici del dibattito italiano dal 1848 alla prima guerra mondiale, in AA. VV., Il diritto tra interpretazione e storia: liber amicorum in onore di Angel Antonio Cervati, Roma, Arcane, 2010, v. IV, p. 251 ss.,

129 Sul punto si veda V. MICELI, Principii fondamentali di diritto costituzionale generale, Milano,

Società editrice libraria, 1898, p. 140, il quale contesta ai sostenitori del suffragio ristretto di non utilizzare un approccio giuridico per trovarne una giustificazione. Secondo Miceli questa dottrina si concentra eminentemente su un criterio politico, utilizzato solo perché «temono il predominio delle classi popolari». Favorevole alla restrizione del suffragio, proprio in virtù della possibilità che il Parlamento fosse composto prevalentemente dalla classe popolare, si veda M. SIOTTO PINTOR, Il sistema parlamentare rappresentativo. Mali e rimedi, Torino, Roux Frassati, 1895, p. 63, il quale asserisce che «non è utile ma nocivo che una Nazione proclami che l’ignoranza e la Scienza hanno ugualmente il diritto di governare il paese»

130 M. FIORAVANTI, Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, in A. SCHIAVONE

(a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, Bari, Laterza, 1990, p. 20.

131 Sul punto si veda F. MAZZARELLA, Una crisi annunciata. Aporie e incrinature dello stato liberale

di diritto, in Quaderni fiorentini, XLI, 2012, p. 273. Il rifiuto nei confronti dei corpi intermedi, in particolare dei partiti, era probabilmente alla base della generale ostilità della dottrina italiana alla modifica del sistema elettorale del 1919, che, introducendo lo scrutinio di lista, presupponeva una certa componente di aggregazione della classe politica attorno a dei soggetti partitici (cfr. M. FIORAVANTI, La genesi dello Stato liberale, in AA. VV., L’unificazione istituzionale e amministrativa dell’Italia, Bologna, 2010, p. 125).

132 Sul punto si veda M. SIOTTO PINTOR, Le riforme del regime elettorale. La dottrina della

rappresentanza politica e dell’elettorato, cit., p. 83, il quale addebita alla dottrina francese di aver introdotto il «principio della funzione contrapposto al principio del diritto naturale», al solo fine di combattere la tesi del principio del suffragio universale. Per la riconduzione del diritto elettorale alla categoria del diritto naturale si vedano J. LOCKE, Due trattati sul governo, Giappichelli, Torino, 1982, p. 297 ss., e J.J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 100 ss.

cittadini, la giuspubblicistica continentale europea respingeva la qualifica concettuale di

diritto elettorale, ma attribuiva all’atto elettivo la caratteristica di una mera funzione,

concessa ai cittadini da parte dello Stato o da parte della Costituzione133 ed esercitata nell’interesse dello Stato stesso134. Questa elaborazione comportava l’obbligatorietà del voto135 e la piena legittimità per lo Stato di limitare il potere elettorale nei confronti di alcune categorie di cittadini. La restrizione del suffragio infatti sarebbe stata di più difficile giustificazione se si fosse riconosciuto il diritto alla partecipazione politica statuale136.

4.4. Una visione problematica: la mancata individuazione del soggetto

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