Accanto alla netta rottura con il passato avvenuta in Francia, non va però dimenticata l’evoluzione del parlamentarismo inglese, che si è sviluppato più gradualmente nel momento del passaggio dalla rappresentanza privatistica alla moderna rappresentanza politica. Le radici del Parlamento inglese sono da far risalire alla promulgazione della Magna Carta nel 1215, nella quale si prevedeva «il principio del consenso generale […] necessario per la legittimità dell’imposizione di una tassa, in particolare se imposta con la pretesa della straordinarietà»70.
Dal punto di vista della concezione della rappresentanza, all’interno del Parlamento inglese, in particolar modo in riferimento al mandato imperativo, già nel 1571 i rappresentanti dei Commons votarono un bill con il quale veniva introdotto il principio per cui ogni rappresentante dei comuni non avrebbe rappresentato il solo collegio di
68 Se da un lato la Costituzione del 1795 prevedeva limiti meno stringenti della Costituzione del
1791, poiché venivano considerati cittadini coloro che pagavano «un contributo diretto, fondiario o personale» (art. 8), la stessa riproduceva le più stringenti regole contributive per poter essere eletti dalle Assemblee primarie come elettori (art. 35) previste dalla Costituzione del 1791. Le forti limitazioni all’elettorato passivo continueranno ad essere presenti anche nelle successive Costituzioni francesi che si sarebbero susseguite tra la fine XVIII e l’inizio del XIX secolo. Come ricorda P. ARDANT, La rappresentanza e i partiti politici, in Rivista di Diritto Costituzionale, 1988, p. 159, nella Francia del 1814 «nei tre quarti dei dipartimenti erano presenti meno di cento persone eleggibili».
69 Costituzione francese del 1795, art. 52 comma 3: «I membri del Corpo legislativo non sono
rappresentati del dipartimento che li ha nominati, ma di tutta la Nazione, e non può essere dato loro alcun mandato».
70 M. FIORAVANTI, La Magna Carta nella storia del costituzionalismo, in Quaderni Fiorentini,
elezione ma tutto il regno71. L’introduzione di tale principio era una conseguenza dovuta
anche all’abbandono della regola per la quale ogni borgo doveva eleggere un membro appartenente alla propria comunità, in favore di un’elezione volta a individuare «le persone abili e capaci» che dovevano essere preferite «senza alcun riguardo al loro domicilio»72.
Dal punto di vista della struttura teorica della rappresentanza, alla base del parlamentarismo inglese, sono ravvisabili consonanze e difformità rispetto all’esperienza costituzionale francese o, più in generale, dell’Europa continentale. Da un certo punto di vista sembrerebbe che nella stessa direzione dei rivoluzionari francesi si muovessero, qualche anno prima, i teorici inglesi. In particolare Edmund Burke sosteneva, nel suo famoso discorso agli elettori di Bristol, che il Parlamento dovesse essere «una assemblea deliberativa di una unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero»73. Le parole di Burke sembrano indirizzarsi verso una concezione di rappresentanza non dissimile a quella maturata nel corso dell’esperienza francese. Se si guardano però le posizioni assunte da Burke nel corso della sua carriera politica, sembra che lo stesso si muovesse in due direzioni distinte e tra loro apparentemente inconciliabili. Da un lato, come noto, in Burke vi è la forte critica nei confronti del mandato imperativo, inteso nella sua accezione più ampia sia di istruzioni vincolanti sia di facoltà di revoca del mandatario/deputato da parte del mandante/elettore74. Oltre alla critica nei confronti del
71 Cfr. C.H. MCILWAIN, Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 90 ss. In
questo senso anche le parole di Edward Coke sul finire del 1600: «sebbene un rappresentante sia scelto per una particolare contea [...], tuttavia quando [...] siede in parlamento egli serve l'intero regno» (citato da H. F. PITKIN, The concept of representation, Berkley, University of California press, 1967, p. 245). Per una ricostruzione del parlamento inglese sotto la reggenza di Elisabetta I, che vide un periodo proficuo per l’istituzione parlamentare si veda G.R. ELTON, The Parliament of England 1559-1581, Cambrige, Cambrige University press, 1986.
72 V. MICELI, Il concetto giuridico della rappresentanza politica, cit., p. 137 s.
73 E. BURKE, Speeches at His Arrival at Bristol and at the Conclusion of the Pool, trad. it., in L.
ORNAGHI, Il concetto di “interesse”, Giuffrè, Milano, 1984, p. 221, dalle parole di Burke, pur notoriamente avverso ai moti rivoluzionari francesi, sembrerebbe che lo statista inglese arrivi, da questo punto di vista, alle medesime conclusioni che stanno alla base della teoria rivoluzionaria francese. Sul concetto di rappresentanza in Burke si veda, per tutti, B. ACCARINO, Rappresentanza, Bologna, il Mulino, 1999, p. 59 ss.
74 L’aspra critica nei confronti del mandato non deve però far pensare ad una sua regolamentazione
legislativa nel Regno Unito nel 1774, anno dello speech agli elettori di Bristol. In questo senso si veda G. AZZARITI, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, cit., p. 27, nota 10, il quale ritiene che la posizione di Burke «costituisce più l’affermazione di un principio già da tempo presente nell’esperienza costituzionale inglese». Inoltre, dalle considerazioni di Burke, non sembra neppure che l’esigenza di un mandato imperativo fosse stata sollevata dai cittadini del collegio, i quali infatti, non chiedevano al proprio rappresentante di dover riferire in Parlamento delle indicazioni specifiche da loro elaborate.
23 mandato giuridico, Burke sembra muovere un’aspra contestazione anche nei confronti di un mandato di natura politica. Burke, infatti, difende la propria completa libertà, che impedirebbe di farsi portatore di qualsiasi tipologia di interessi del collegio elettorale. L’assenza di una concezione politica degli interessi, o delle necessità, del proprio collegio è talmente presente in Burke, al punto da ammettere di non essere a conoscenza delle esigenze dei propri elettori e di non averli quasi mai incontrati durante la fase della campagna elettorale75. Da questa posizione si può scorgere, anche in Burke, una questione relativa agli interessi di cui deve propria farsi portatore il rappresentante – quelli generali – in antitesi agli interessi del collegio.
La posizione di Burke è però più problematica e meno dogmatica rispetto a quella presente nella fase politica della rivoluzione francese. Burke sembra consapevole che il ruolo del deputato deve essere, contemporaneamente, quello di rappresentante della nazione e quello di rappresentante del collegio. Questa consapevolezza porta lo statista inglese a sostenere che la rappresentanza politica virtuale76, dallo stesso Burke fortemente sostenuta, «non può avere una vita lunga o sicura esistenza, se non ha un substrato nel reale, [pertanto] il membro [del Parlamento] deve avere una qualche relazione con gli elettori»77 e – aggiunge – che l’interesse generale non è altro che un interesse derivante
75 E. BURKE, Speeches at His Arrival at Bristol and at the Conclusion of the Pool, cit., p. 314 ss. 76 Le considerazioni di Burke sulla rappresentanza virtuale portano H. F. PITKIN, I due volti della
rappresentanza, in D. FISICHELLA (a cura di), La rappresentanza politica, Giuffrè, Milano, 1983, p. 214, a ritenere che «Burke non pensava che il rappresentante avesse granché a che fare con la consultazione dei rappresentanti o col fare ciò che essi vogliono». La rappresentanza virtuale era sostenuta da Burke in particolare per legittimare il Parlamento inglese nell’addebitare tassazioni ai coloni americani che, ovviamente, non trovavano una propria rappresentanza all’interno del Parlamento inglese. La rappresentanza virtuale era stata utilizzata per legittimare la prima vera imposizione fiscale dell’Inghilterra nei confronti dei coloni avvenuta con l’approvazione dello Stamp Act del 1765. Tale atto tuttavia aveva trovato nello Stamp Act Congress americano una forte contestazione, in quanto i coloni, più vicini all’idea di una rappresentanza reale, ritenevano che senza rappresentanza un Parlamento non potesse imporre delle imposizioni fiscali. Su quest’ultimo aspetto si vedano B. BAILYN, G. S. WOOD, Le origini degli Stati Uniti, Milano, Mondadori, 2007, p. 266 ss. In merito allo Stamp Act e all’opposizione americana si veda J. P. REID, Constitutional history of the American Revolution. The Authority to Tax, Madison, University of Wisconsin press, 2003, p. 200 ss. In generale sulla rappresentanza virtuale dal punto di vista dei coloni ID., The Concept of Representation in the Age of the American Revolution, Chicago, Chicago University press,1989, p. 50 ss. Sulla rappresentanza virtuale in Burke, che giunse ad estendere lo stesso concetto anche nei confronti della capacità rappresentativa del Monarca e della House of Lords, si veda l’accurata analisi di J. CONNIFF, The Useful Cobbler: Edmund Burke and the Politics of Progress, New York, State University of New York Press, 1994, spec. p. 157 ss.
77 E. BURKE, Letter to Sir Hercules Langrishe (1782), in R. B. MCDOWELL, W. B. TODD (a cura di),
The Writings and Speeches of Edmund Burke, Vol. 9: I: The Revolutionary War, 1794-1797, II: Ireland, Oxford, Oxford University Press, 1991. Il testo in inglese dell’affermazione di Burke suona così «cannot have a long or sure existence, if it has not a substratum in the actual. The member [of the Parliament] must have some relation to the constituent».
da una serie di interessi «diffusi [che] vanno presi in considerazione, comparati, ricomposti»78. Da queste ultime due affermazione «si coglie chiaramente una marcata consapevolezza del tessuto pluralistico» inglese79, poiché, nonostante l’idea dell’esistenza di un unico interesse generale80, si fa espressamente richiamo a un rapporto con gli elettori, strumento attraverso cui possono entrare nel Parlamento istanze politiche diverse. Per afferrare a fondo le parole di Burke e le apparenti antinomie che in esse si possono riscontrare, bisogna considerare che il panorama inglese risultava profondamente diverso rispetto a quello continentale. L’assenza di una rappresentanza medioevale per classi ma esclusivamente per borghi81 aveva comportato un’evoluzione diversa dell’istituto rappresentativo. Il parlamentare già in epoca medioevale era il rappresentante di un borgo nel quale erano diverse le classi sociali presenti. Anche nel periodo medioevale mancava quell’omogeneità tra rappresentante e rappresentato tipica della società cetuale82, che ha permesso alla società inglese di non avvicinarsi ai capisaldi teorici dell’esperienza continentale: la rappresentanza della Nazione e la volontà o l’interesse generale83.