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Il concetto chiave di soggettività collettiva

Soggettività, pertinenza, teoria della conoscenza

4.1. Il concetto chiave di soggettività collettiva

Com’è noto agli studiosi, ma come molti lettori di questo libro pos- sono avere intuito, dietro la definizione apparentemente tecnica della struttura e del funzionamento del segno c’è qualcosa di strettamente imparentato con una teoria della conoscenza. In questo senso si cita anche spesso il fatto che i curatori del Corso di linguistica generale abbiano posto in apertura, dopo due brevi capitolini introduttivi, l’importante discussione di Saussure sull’oggetto di studio della lin- guistica. Viene sottolineato in quelle pagine che l’oggetto di una di- sciplina non è sempre immediatamente e automaticamente fornito dai fatti. In particolare, in un passo di cui forse solo Luis Prieto ha colto la rilevanza, il maestro ginevrino dice che vi sono altre scienze che ope- rano su oggetti dati in partenza, e che proprio per questo possono as- sumere, rispetto a tali oggetti, differenti punti di vista. Ma in linguisti- ca non è così. A uno sguardo immediato, gli oggetti, nell’ambito del linguaggio, sono molti e disparati: i suoni fisici prodotti dai parlanti, gli strumenti per esprimere le idee, le componenti individuali e quelle sociali… aspetti tanto diversi che nessuna disciplina scientifica po- trebbe prenderli tutti insieme come proprio oggetto di ricerca. Si tratta dunque di definire una scelta tra le tante possibili; nel caso di Saussu- re, si tratta di scegliere quell’insieme di convenzioni prodotte dal cor- po sociale che egli designa tecnicamente con il termine langue. La scelta è soggettiva, certamente, tanto da poter dire che nel caso della linguistica l’oggetto di studio è in un certo senso creato dal punto di

Non c’è dubbio che già questo sia un gesto di rottura verso le conce- zioni scientifiche dell’Ottocento, ma l’allontanamento di Saussure dall’oggettivismo che fino a poco prima aveva dominato l’epistemologia generale delle scienze va molto al di là di questo. Il fondatore della semiotica sociale è del resto da questo punto di vista perfettamente in linea con i suoi tempi, perché tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento molte delle nuove scienze umane, o loro cor- renti importanti, rendono chiaro di non essere più scienze di oggetti, ma

scienze della soggettività. Viene certo subito in mente il caso della psi-

canalisi, ma sono alcuni indirizzi delle scienze sociali a compiere il sal- to più decisivo. Le discipline etno-antropologiche ci convincono, in fondo per la prima volta, di vivere in un mondo in cui le cose non pos- sono essere definite una sola volta, da un solo punto di vista, elaborando esplicitamente l’idea di “cultura” come luogo di una soggettività condi-

visa. Quello che ci appare più strettamente conforme alla prospettiva

implicita nella teoria saussuriana del segno è però l’idea per cui la cul- tura agisce come dispositivo che regge la relazione tra i membri del gruppo e il reale: perché questa relazione è pensata nei termini di un’interazione collettivamente e soggettivamente codificata.

La visione più interessante, e più vicina alla semiotica, è in questo senso quella espressa da Émile Durkheim, in particolare nel libro su Le

forme elementari della vita religiosa (1912), nel quale di fatto si affron-

tano questioni chiave relative al rapporto tra la dimensione sociale e la dimensione dei linguaggi, delle rappresentazioni e dell’immaginario. La concezione del linguaggio proposta da Durkheim ha tanti punti di con- tatto con quella di Saussure da aver fatto pensare che non si sia trattato di semplici sviluppi paralleli. È stato più volte rilevato (ad esempio da Antoine Meillet, che di Saussure era stato allievo, ma l’idea è condivisa per esempio anche da Eugenio Coseriu, e da altri studiosi) che il modo in cui il fondatore della semiologia guardava alla dimensione sociale, il suo riferimento privilegiato al concetto di comunità, la sua insistenza sulla pressione che un pensiero collettivo esercita sugli individui, sono di fatto molto vicini alla definizione di fatto sociale quale la troviamo nella teoria di Durkheim. Su questa base, Witold Doroszewski (1933) sosteneva l’idea di una vera e propria filiazione diretta della visione saussuriana dall’insegnamento durkheimiano.

L’ipotesi di una filiazione diretta non sembra la più convincente, anche perché porterebbe a trascurare quanto tali aspetti del pensiero saussuriano vengano di fatto a sviluppare idee già da tempo aleggianti

in ambito linguistico.1 Parleremmo piuttosto di uno sviluppo molto si- gnificativamente coincidente, ma in buona misura svoltosi in forma indipendente e sulla base di ragioni interne alle due differenti linee di sviluppo disciplinare. Questo è tanto più verisimile se consideriamo che il testo per noi più decisivo di Durkheim, Les formes élémentaires

de la vie religieuse, uscì solo nel 1912, anno precedente la morte di

Saussure, testimoniando un’elaborazione di pensiero che ebbe dunque a svolgersi sostanzialmente in parallelo.

L’inclusione formale del nome di Durkheim tra i soci fondatori dell’impresa semiotica potrebbe essere in effetti giustificata, tanto più tenendo conto che da Durkheim discende quella scuola francese, lega- ta all’Année Sociologique, di cui hanno fatto parte da subito autori si- gnificativi per la semiotica come Marcel Mauss e Henri Hubert, e in cui poi si è inserita la visione di quello studioso cardine che è stato Claude Lévi-Strauss. Come ho avuto occasione di scrivere qualche anno fa (Ferraro 2008), per quanti sono oggi interessati a una conce- zione della semiotica come scienza sociale, la figura di Durkheim è quella non solo di un valoroso “antenato totemico” ma soprattutto di un prezioso “anello di congiunzione” fra visione semiotica e main-

stream delle scienze sociali.