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Luis Prieto e la soggettività della conoscenza

Soggettività, pertinenza, teoria della conoscenza

4.4. Luis Prieto e la soggettività della conoscenza

Alla centralità del concetto di pertinenza si rifà anche un altro degli autori chiave per la sociosemiotica, l’argentino Luis Prieto (1926- 1996), autore tra gli altri di un libro che s’intitola appunto Pertinenza

e Pratica (Prieto 1975). La nostra riformulazione del modello saussu-

riano del segno deve anche molto alle sue dettagliate messe a punto, ma qui ci riferiamo soprattutto alle sue riflessioni d’ordine culturale ed epistemologico. Egli ribadisce che l’onnipresente azione del principio

di pertinenza esclude alla radice l’idea di una conoscenza “oggettiva”,

che non introduca un qualche specifico punto di vista, un modo parti- colare di guardare alle cose e di interpretarle. E siccome la pertinenza è introdotta da un soggetto che è sempre un soggetto sociale, afferma che nessuna conoscenza delle cose del mondo sia mai socialmente neutra.

Tuttavia, una questione importante posta da Prieto riguarda la scar- sa percepibilità dei criteri di pertinenza. Gli esempi fonologici sono sempre tra i più evidenti: noi italiani ad esempio riteniamo strano che gli inglesi distinguano come fonemi diversi quelli che per noi sono semplicemente due modi leggermente differenti di pronunciare il fo- nema /n/ : la differenza tra le pronunce della /n/ nella parola cane e

singolo ci appare oggettivamente, ovviamente, naturalmente trascura-

bile. Eppure, alle orecchie di un inglese appare altrettanto oggettiva-

mente, ovviamente e naturalmente che questa sia una differenza evi-

dente e non trascurabile, tanto che è usata comunemente per distingue- re parole diverse (si pensi al caso di sin e sing, che sono differenziate unicamente da quelle che in italiano sono due pronunce equisimili del fonema /n/). A ciascuno sembra, questo è il punto, che il suo modo culturalmente organizzato di percepire e classificare le cose sia quello che oggettivamente corrisponde al modo in cui le cose si danno. La conoscenza ci sembra, alla vecchia maniera empirista, derivare diret- tamente dalle cose, e non dal nostro modo di guardarle. Nelle parole di Prieto, l’identità di un oggetto ci appare non come risultato dell’applicazione del punto di vista che si decide di adottare ma come l’identità naturale dell’oggetto, quella che l’oggetto possederebbe in

sé (Prieto 1975: 68).

La semiotica ci pone dunque in guardia contro questo atteggiamen- to ingenuo, ricordando che la conoscenza di ogni cosa implica sempre un punto di vista, che la pertinenza non deriva mai dall’oggetto stesso,

e che dunque la condizione umana è sempre segnata dalla soggettività. Una conoscenza erroneamente naturalizzata, che ignora o nasconde il punto di vista che la sostiene, pretendendo di riflettere passivamente la realtà “così com’è”, è detta da Prieto, in senso negativo, ideologica. Al di là degli aspetti politici del suo discorso, che oggi possono appa- rirci alquanto datati, resta del tutto valida la critica nei confronti di qualsiasi posizione che pretenda di non implicare punti di vista. Ad esempio, questa precauzione critica resta tuttora molto attuale nel di- battito sulla correttezza giornalistica, che secondo tali criteri non cor- risponde a una pretesa assenza di soggettività ma a un’esplicitazione dei propri modi di selezione e organizzazione dei dati – in termini se- miotici, dei propri criteri di pertinenza.

Dal punto di vista della definizione dei metodi e della collocazione della semiotica, è però soprattutto decisiva la linea in cui Prieto svi- luppa riflessioni collocate dagli editori in apertura del Corso saussu- riano. Vi sono scienze, diceva Saussure, che operano su oggetti dati in partenza; Prieto precisa che sono queste le scienze della natura: chi si occupa, poniamo, di particelle subatomiche o di ammassi stellari ha i suoi oggetti esistenti in natura, mentre deve scegliere uno dei differen- ti punti di vista secondo i quali tali oggetti possono essere studiati. La questione è molto diversa per le scienze dell’uomo: queste non si oc- cupano di oggetti osservabili, bensì di come gli uomini, e le culture, organizzano i modi in cui pensano e rappresentano ogni cosa. Così, se ad esempio la fonetica è una scienza della natura, dato che si occupa di fenomeni acustici e fisiologici, la fonologia studia il modo in cui coloro che parlano una certa lingua sono guidati a percepire, organiz- zare, catalogare e identificare i suoni concreti, sulla base del disegno di un sistema fonematico. La fonologia, che è una scienza umana, de- scrive e analizza una soggettività organizzata; nelle parole di Prieto, la fonologia studia il modo in cui i parlanti conoscono i suoni linguistici. Generalizzando, secondo l’autore le scienze umane studiano essen- zialmente sistemi di conoscenze, modi in cui gli esseri umani organiz- zano una rappresentazione condivisa delle cose: si tratta dunque di co-

noscenze di conoscenze.

E qui siamo al punto decisivo. Se le scienze della natura elaborano un proprio punto di vista sull’oggetto che studiano, l’ideale delle scienze umane non è quello di costruire un proprio punto di vista (de- cidere un modo nuovo e originale di organizzare i suoni in fonemi, per esempio), bensì quello di arrivare a capire il punto di vista implicito

nella realtà culturale di cui si occupano. Potremmo dire così: una scienza della natura deve rispettare i dati concreti dell’oggetto che studia – negli esempi di prima, un certo tipo di particella subatomica o un determinato ammasso stellare – ma non ha da rispettare il modo di pensare di quell’oggetto o la sua concezione del mondo; una scienza umana deve invece assumere a proprio oggetto di studio un certo tipo di prospettiva sul mondo, un modo di leggere le cose, un dispositivo per l’assegnazione d’identità e di senso. Come raccomandava Saussu- re, una lingua va studiata tenendo conto di come viene percepita e pensata da coloro che la parlano.

Di conseguenza, le scienze della natura assumono un proprio punto di vista, soggettivo, rispetto agli oggetti. Le scienze dell’uomo non possono scegliere, ma sono tenute ad assumere il punto di vista pro- prio alla comunità di cui si occupano; se per esempio un linguista te- desco studia il sistema fonologico italiano è tenuto a collocarsi nel punto di vista di un parlante italiano, nella percezione dei caratteri per- tinenti dei suoni, e non gli è certo lecito introdurvi arbitrariamente il suo punto di vista nativo di parlante tedesco. La semiotica è dunque una scienza della soggettività in quanto soggettivo è l’oggetto di stu- dio, e non perché soggettiva è la sua metodologia, o soggettive le co- noscenze che essa produce.

Queste riflessioni presentano un valore decisivo tanto nel dibattito metodologico interno alla semiotica quanto nella definizione della sua credibilità all’esterno, sulla scena più ampia della competizione tra le diverse discipline e metodologie di ricerca. La semiotica viene in ef- fetti molto spesso accusata di realizzare analisi raffinate e affascinanti, ma soggettive, nel senso di dipendere largamente dalle scelte di chi compie l’analisi – cosa che sarebbe evidente soprattutto nel confronto con i metodi più quantificati e impersonali tipici delle metodologie dei sociologi. In effetti, le riflessioni saussuriane di Prieto ci portano a e- videnziare il principio per cui un’analisi rischia l’accusa di soggettivi- tà quanto più pretende di analizzare, e interpretare, un oggetto testuale di qualche tipo (un programma televisivo, un filmato pubblicitario, un marchio industriale…). È proprio la pretesa di cogliere “l’oggettività delle cose” ad aprire la strada alla soggettività dell’analisi, nel senso che lo stesso oggetto può dare vita a molti tipi differenti di analisi, persino restando all’interno di uno stesso paradigma teorico e di una stessa impostazione metodologica. E vi è davvero in agguato un effet- to perverso: quanto più approfondita e intelligente è l’analisi, tanto più

appare personale, opinabile e poco scientifica. Ha ragione Prieto quando ci invita a pensare la semiotica come una scienza che studia non gli oggetti (i testi) ma i modi in cui i soggetti (i membri di una cultura) percepiscono e interpretano i testi. In questo modo, la semio- tica fa entrare in campo i modi socialmente definiti che reggono l’attribuzione di senso (regole, grammatiche, modelli…). Studiando questi in luogo degli oggetti testuali, la semiotica si qualifica come scienza sociale al pari delle altre, lasciando da parte un’illusione di po- ter raggiungere la “verità del testo” che appare a molti come un lasci- to, in fondo, degli studi letterari.

In pratica, questo non vuol dire né che si debba in alcun modo per- dere di vista l’universo testuale che ci circonda, né che si debba neces- sariamente pensare la ricerca semiotica nei termini di una qualche me- todologia field, allestendo ad ogni passo interviste o colloqui di grup- po. Facciamo, per spiegarci, un semplicissimo esempio linguistico, immaginando un concessionario d’auto che commenta con un suo di- pendente un nuovo modello della casa: «Secondo me questo modello non va; ma se son rose… avranno avuto ragione loro». Questo enun- ciato potrebbe essere apparentemente illogico e di difficile interpreta- zione; di fatto, è del tutto banale, appartiene a un modo di parlare del tutto comune, e non è certo di difficile interpretazione. Il fatto è che il linguista chiamato a esplicitare il senso dell’enunciato non ha da com- piere alcuna scelta: che il verbo andare significhi qui “dare buoni ri- sultati commerciali”, o che non ci sia alcuna confusione tra automobili e fiori, perché la frase monca “se son rose” viene da un notissimo det- to popolare, questo non dipende da un’interpretazione condotta sugli strati profondi del testo in oggetto bensì dalla conoscenza dei codici e dei modelli culturali posseduti dagli interpreti. Analizzare un testo si- gnifica dunque, in questa prospettiva, indicare quali sono e come ven- gono applicate le regole che gli appartenenti a un certo gruppo cultura- le impiegano per interpretarlo.

Allo stesso modo, su quale base un semiotico che lavora, poniamo, sui testi pubblicitari, può dire che un racconto organizzato in un certo modo attribuirebbe al prodotto determinati tratti semantici anziché al- tri? La risposta «Perché il semiotico compie un’analisi delle strutture profonde del testo» è la risposta debole; laddove la risposta forte e convincente è piuttosto del tipo: «Perché il semiotico conosce la grammatica, le regole e i modelli culturali che i destinatari appliche- ranno nel momento in cui si troveranno di fronte un racconto organiz-

zato in questo modo». Una semiotica che si concepisce come scienza sociale, anziché come scienza dei testi, può aspirare a un diverso, e più generalmente condiviso, riconoscimento di scientificità.