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Il nostro ambiente semiotizzato

I punti di partenza

MITTENTE RICEVENTE

1.6. Il nostro ambiente semiotizzato

Quanto detto nelle pagine precedenti va completato con alcune considerazioni sulla dimensione sociale dei fatti semiotici. Le colle- ghiamo innanzi tutto a quanto avevamo osservato a proposito del fat- to che comunicare implica sempre la rinuncia, in grado maggiore o minore, a una dimensione di pensiero individuale, come nel caso del nostro immaginario mittente e del colore della sua auto. Ma chiaria- mo meglio i termini della questione, e le eventuali obiezioni. Certo egli avrebbe potuto ricorrere a soluzioni diverse: usare un’espressione più specifica (blu cobalto o blu oltremare), o anche, come spesso si fa, avrebbe potuto impiegare termini che rinviano al colore tipico di oggetti o materiali (blu acciaio, blu ardesia), oppure introdurre descrizioni più complesse (un blu scuro che dà sul grigio, ma con sfumature tipo matita copiativa), o rinviare per confronto a entità di tutt’altra natura (hai presente il blu della collezione Grandi Opere del tale editore...?), magari avrebbe addirittura potuto affidare un compito da svolgere (scendi sotto casa, due strade a destra c’è un negozio d’arredamento che ha delle tende…). È vero, ci sarebbero molte strade da tentare, per quanto nessuna di queste possa comun- que cancellare il problema di fondo; la genericità dell’indicazione è ridotta, ma siamo sempre di fronte al riferimento a una classe, sia pur

più ristretta: l’indicazione “cobalto” è certo più precisa rispetto a “blu”, ma copre comunque un’area, e non indica un preciso, specifi- co punto di colore.

In ogni caso, emergono due tipi di difficoltà. Da un lato, la maggior precisione si paga con un correlativo maggior rischio di non essere compresi: “blu” lo capiscono tutti, “cobalto” o “ardesia” non è detto. Questa non è una caratteristica dei termini di colore, ma vale in ogni ambito: vale per “cane” rispetto a “pastore scozzese”, e per “cespu- glio” rispetto alla scelta di arrischiare “agrifogli” o “artemisie”; si trat- ta in definitiva di una caratteristica strutturale del lessico. Dall’altro lato, poi, definizioni più complesse richiedono al destinatario più tem- po, più attenzione, più impegno nella comprensione, e l’eccesso d’impegno interpretativo, se viene percepito come non proporzionato al tema in oggetto, porta facilmente a una rottura del patto di coopera-

zione su cui un processo di comunicazione necessariamente si basa.

Sono, questi, aspetti strutturali dei sistemi semiotici, che ci fanno no- tare come questi tendano per loro costituzione a spingerci verso le so- luzioni più semplici, standardizzate e generiche.

Ogni atto comunicativo implica dunque un calcolo attento della proporzione ottimale tra esigenza di precisione e completezza da un lato, e quantità di tempo e impegno mentale dall’altro lato: un calcolo spicciolo, quotidiano e continuo, di una sorta di economia della comu-

nicazione. Naturalmente, è possibile quando lo si vuole scegliere la

strada opposta, e mirare al massimo dell’aderenza degli strumenti e- spressivi rispetto a ciò che si vuole esprimere: si può magari scrivere una poesia, valorizzando all’estremo le componenti personali e l’originalità assoluta, ma si sa bene in partenza che pochi saranno in grado di capire, e con molta fatica. Così, un’espressione fortemente personale è l’eccezione, mentre standardizzazione e semplificazione sono la regola. La straordinaria efficienza della lingua dipende del re- sto in larga misura proprio dal fatto di metterci a disposizione un ma- gazzino di segni pronti all’uso, condivisi all’interno della comunità. Le categorie concettuali elaborate a livello collettivo ci pesano così addosso, rendendo le forme di un pensiero socialmente istituito inevi- tabilmente presenti anche quando viviamo relazioni che sarebbero del tutto private e personali.

Può venirci qui in aiuto un’altra realizzazione cinematografica di grande interesse, non a caso appartenente anch’essa all’ambito fanta- scientifico. L’enorme impatto avuto dai tre film che compongono la

saga di Matrix – tanto a livello popolare quanto a livello accademico – dipende certo in buona misura dal fatto che essi ci presentano, in pra- tica, proprio questo tipo di prospettiva semiotica, resa ovviamente nei termini di una storia d’azione e di una testualità facilmente accessibi- le, pur se non priva di citazioni dotte. L’idea di vivere in un mondo

fatto di linguaggio, e di conseguenza di non possedere un’individua-

lità del tipo che eravamo abituati a pensare, è resa inizialmente in ter- mini francamente terrorizzanti, ma diventa via via una realtà che non è possibile rifiutare. In quanto esseri umani, non siamo fatti per il contatto diretto con una realtà oggettiva (rappresentata nel primo film nella forma di un universo nudo e spaventoso, o in quella di cibi nutrizionisticamente ottimali, ma privi d’identità e piacevolezza). Le macchine possono reggere forse questa percezione non mediata del mondo, ma gli esseri umani hanno la necessità di vivere in un uni- verso parzialmente simulacrale, fatto di significati e di emozioni, di progetti e sogni anche irrealizzabili, di identità trasfigurate nei lega- mi affettivi, di cibi che raccontano storie ancor più che fornire pro- teine, di strutture sonore e visive funzionalmente superflue… Abi- tiamo un ambiente profondamente semiotizzato, da cui non possiamo staccarci, allo stesso modo in cui i leoni sono legati alla loro savana o gli orsi polari al loro gelido habitat. L’immagine della scrittura che scorre ovunque sugli schermi, e che rappresenta la sostanza lingui- stica di cui è fatto il mondo di Matrix, la lingua con cui tutte le cose e tutte le persone sono scritte, è una metafora davvero centrata dell’idea, scientificamente elaborata in semiotica, per cui noi stessi siamo, in definitiva, fatti della materia dei nostri processi di comuni- cazione e dei nostri sistemi di segni.

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Capitolo II

Per una teoria unificata