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Testi visivi, dal “sinsegno” alla classe

Alcuni punti chiave per la semiotica visiva

5.5. Testi visivi, dal “sinsegno” alla classe

La difficoltà più evidente che può porsi, rispetto al modo in cui la prospettiva neoclassica si distanzia dalla tradizionale teoria dell’iconi- smo, è in effetti rappresentata dal principio della generalità d’ogni co- strutto segnico. Può sembrare, questa, una pretesa singolare, che non regge di fronte alla constatazione di Peirce, immediatamente più ovvi-

a, per cui ogni icona è un sinsegno, un segno singolo. Come si può parlare di “classi”, a proposito dei segni analogici?

Bene. Innanzi tutto, bisogna precisare che il concetto di “classe” è di natura logica, e non va confuso con una nozione di tipo quantitativo (non c’è qualcosa come un numero minimo di entità per formare una classe). Ad esempio, anche se la classe di coloro che capiscono perfet- tamente tutto ciò che ha detto Peirce si riducesse di fatto a una sola persona, si tratterebbe comunque sempre di una classe, fondata su un’apposita definizione e non sulla raccolta di un numero minimo di partecipanti (anzi, la classe resterebbe tale anche se fosse completa- mente vuota! Ma questa è un’altra storia…).

Si potrà obiettare che esistono casi in cui, comunque, ci troviamo davvero di fronte alla realizzazione di un oggetto semiotico unico, che appare fondato su un rinvio a ben specifiche entità del “mondo reale” (pur non trattandosi, s’intende, del caso dell’icona-nome proprio). L’esempio che facciamo, allo scopo di chiarire il funzionamento di te- sti fondati su correlazione analogica, ci riporta all’ambito della foto- grafia – il sistema espressivo che più di ogni altro sembra dover resi- stere a una prospettiva del nostro tipo, a causa del suo tenace radica- mento nelle cose. Ma come si struttura, semioticamente, il rapporto tra oggetti fotografati e testo fotografico? Parleremo qui di un fotografo chiamato non – come nell’ipotesi precedente – a esprimere un’idea, bensì a documentare un evento, un evento specificamente determinato.

Immaginiamo allora il nostro fotografo che giunge sul luogo del suo incarico (scenario di guerra, catastrofe naturale…). Per semplicità, supponiamo che egli abbia la possibilità di scattare una sola fotografi- a: questo ci serve a escludere, se non altro, l’ipotesi di una molteplicità di scatti realizzati in forma semi-casuale. In ogni caso, il nostro pro- fessionista non scatterà alcuna fotografia prima di avere, almeno ap- prossimativamente, esplorato la scena da documentare, ed essersene fatto un’idea sufficientemente precisa. Egli più di altri sa come la real- tà offra sempre un’ampiezza, una ricchezza di dettagli, una varietà di aspetti in alcun modo confrontabile con il piccolo ritaglio che realiz- zerà con i suoi scatti, fossero pure in gran numero.

1. In termini semiotici, nel corso di questa prima fase il fotografo de- ve passare dalla scena reale che materialmente gli si pone di fronte all’elaborazione di un’interpretazione mentale: deve definire quali siano le cose che effettivamente contano (elementi pertinenti), in- dividuare delle identità, operare dei collegamenti… La scena

prende così una forma, un ordine logico, lasciando trasparire un’ossatura portante: ciò che insomma di quella realtà è davvero significativo – nei nostri termini, la sua struttura significante. 2. Ora che le cose vanno assumendo identità definite, il nostro foto-

grafo si trova facilmente a provare emozioni, a formulare giudizi, ad assegnare valori definiti ai soggetti in gioco: giunge insomma a disegnare il senso che quella scena ha per lui. Ha connesso inve- stimenti semantici alla struttura significante.

3. A questo punto è pronto per ragionare in forma creativa. Come e- sprimere queste emozioni, come far sentire queste assegnazioni di valore, come rendere visibile il senso delle cose quale ora si è venu- to chiarendo ai suoi occhi? Quali sono, tra i tanti disponibili, gli e- lementi decisivi che la sua fotografia dovrà includere? Cosa eviden- ziare e cosa lasciare nell’ombra? Come organizzare, nell’immagine, il rapporto visivo tra le componenti? Cosa mettere a fuoco, cosa por- re in primo piano… e così via. Nel pensiero visivo del fotografo l’immagine da realizzare acquisisce via via tutti i caratteri necessari. Essendosi mosso prima dall’osservazione del reale verso l’elabora- zione del senso, ora deve procedere nella direzione inversa, proget- tando il modo migliore in cui questo senso possa avere una rappre- sentazione visiva. Non ha ancora preso in mano l’apparecchio, non c’è ancora un’immagine fisica ma solo un’immagine mentale: una definita struttura significante.

4. Di questa struttura significante deve a questo punto curare la realiz- zazione in un oggetto visibile, sul piano della manifestazione: deve trovare un luogo, una disposizione delle cose, una prospettiva, un’impostazione della macchina, che rendano possibile realizzare il suo progetto di comunicazione in un oggetto singolo e specifico. Come si vede, non c’è alcuna connessione diretta tra la realtà e la

fotografia, poiché queste sono separate da un complesso percorso

mentale: un percorso che muove prima dal reale al senso, e poi dal senso alla fotografia che lo esprime. La fotografia, dunque, esprime un senso, pur se al tempo stesso riproduce una parte – spesso assai limita- ta – della scena di riferimento. Ma proprio questo è il punto più delica- to: essa ci offre, fatalmente, solo un frammento di una realtà assai più ampia e complessa. L’operazione è accettabile solo se segue precisi principi di rappresentatività. Se il destinatario può pensare che – per quanto l’immagine sia stata effettivamente realizzata sul posto senza

manipolazioni – il ritaglio operato dal fotografo è però anomalo o ati- pico, il testo fotografico è percepito come falso, e l’operazione comu- nicativa fallisce.

Il principio per cui il frammento deve essere rappresentativo vuol dire che non si tratta di un punto anomalo o di un caso isolato, ma di un frammento fra tanti che, pur magari meno fotogenici, sarebbero stati però concettualmente equivalenti – nei nostri termini, insomma,

equisimili. L’idea è non a caso parallela a quella che sancisce la validi-

tà degli esperimenti scientifici: deve intendersi che il nostro fotografo – o allo stesso modo un altro fotografo che avesse compiuto la stessa lettura di quella situazione – avrebbe potuto realizzare altre immagini che, pur essendo diverse da questa, ne avrebbero riprodotto la struttura espressiva e i valori semantici. Non importa se di fatto nessuno scatte- rà altre fotografie; il punto è che l’interprete, per accettare come vali- do il senso comunicato da questa immagine, deve necessariamente ri- tenere che essa appartenga a una classe virtuale di fotografie, rispetto a questa equisimili. L’immagine che egli vede è singola, ma la sua let- tura la ridefinisce quale occorrenza di una collezione di immagini vir- tuali (il più delle volte, s’intende, la collezione non resta affatto virtua- le – siamo anzi subissati da immagini ripetitive, anche nel mondo dell’informazione).

Questa argomentazione, necessariamente semplificata, non distin- gue tra i concetti di “testo” e di “segno” visivo – o, più in generale, analogico – come invece cercheremo di fare nel capitolo seguente. Quello che abbiamo cercato di fare è stato però di mettere definitiva- mente da parte l’idea di testi che rappresentano oggetti del mondo, an- ziché costrutti semantici, e insieme a questa l’idea che la semiotica dell’espressione visiva ci ponesse di fronte a un campo inafferrabile, fatto di realizzazioni ogni volta uniche, prive di quelle necessarie rela- zioni di equisomiglianza che sono alla base del nostro modello della significazione. Ogni oggetto corrisponde a un modello, ogni occorren- za a una classe… Ma nel momento in cui questa sistematizzazione ci rassicura in qualche modo sull’applicabilità del nostro modello gene- rale, essa apre una seria difficoltà. La chiamiamo il paradosso del se-

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Capitolo VI