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La tripartizione dei segni proposta da Peirce

Per una teoria unificata delle forme di correlazione segnica

2.2. La tripartizione dei segni proposta da Peirce

Consideriamo però quello che Peirce dice, nel presentare la sua tipologia di segni. Come è illustrato da ogni manuale introduttivo al- la semiotica, fra le tante classificazioni dei segni che si trovano nei suoi scritti, quella veramente fondamentale è la tricotomia tra simbo-

li, icone e indici, una distinzione operata sulla base del diverso tipo

di principio che nei tre casi regge il meccanismo del rinvio segnico tra un “qualcosa” e un “qualcos’altro”. In termini essenziali, valgono i seguenti concetti.

Un segno è un simbolo quando le sue capacità di rinvio dipendono interamente da una convenzione; anche agli occhi di Peirce, l’esempio primario sono qui i segni linguistici. Secondo un’altra delle sue cate- gorie, si tratta di legisegni, cioè di segni istituiti da una norma. È da sottolineare che Peirce dice in proposito che segni di questo tipo han- no carattere generale, e che ogni volta che ricorrono se ne ha una re-

plica. Ad esempio, spiega, la parola “il”, che ricorre magari decine di

volte in una pagina, è di per sé un legisegno, un’entità unica e genera- le, mentre quelle che nella pagina possiamo contare sono semplice- mente delle sue occorrenze. In pratica, il simbolo di Peirce equivale da vicino al segno arbitrario definito da Saussure. La nostra preferenza per l’espressione “segno arbitrario” dipende dal desiderio di evitare ambiguità rispetto al differente modo in cui il termine “simbolo” viene comunemente impiegato.

Un segno è un indice quando si tratta di qualcosa che rinvia a qual- cos’altro per connessione intrinseca. Tale connessione implica tipica- mente una sorta di compresenza e di contatto fisico, e una relazione vagamente meccanica, che facilmente ha a che vedere con un rapporto causa/effetto. L’impronta dell’animale, ad esempio, non può che im- primersi a contatto con la zampa dell’animale, esattamente nel luogo in cui questo passa, e come effetto del passaggio dell’animale.

Un segno è infine un’icona quando si tratta di qualcosa che agli oc- chi di qualcuno rimanda per somiglianza a qualcos’altro. Il ritratto, ad esempio, rimanda al volto di una persona non già perché ne sia una

duplicazione ma in quanto analogo per certi aspetti (si tengano pre- senti le ultime parole della definizione generale di segno data da Peir- ce). Segnaliamo subito che il dibattito sull’iconismo è stato molto am- pio e complesso, e ci guarderemo bene dal riprodurlo in queste pagine, anche perché prenderemo una strada diversa rispetto a questa. In parti- colare, molto si è ragionato intorno al grado di convenzionalità dell’icona, e intorno al concetto stesso di “somiglianza”. Dobbiamo pensare che l’icona abbia carattere soggettivo, come sarebbe giusto supporre stando alla definizione generale del segno, o dobbiamo pen- sare piuttosto che la somiglianza sia qualcosa di oggettivo, che le cose siano simili in se stesse?

Nel suo Trattato di semiotica generale – un testo chiave per il di- battito sull’iconismo – Umberto Eco (1975) critica sei nozioni dell’iconismo, che vanno da quella per cui “l’icona ha le stesse pro- prietà dell’oggetto” a quella per cui rinvia per somiglianza diretta, a quella per cui le icone sarebbero analizzabili in tratti pertinenti più semplici, e così via. È vero che quello di “icona” è una sorta di termi-

ne ombrello che copre diversi fenomeni, ma questi sembrano avere in

comune un carattere per noi decisivo: la relazione iconica è un rinvio a una qualche entità presente in un mondo, reale o possibile. Il ritratto rinvia al volto della persona, la mappa al territorio, la fotografia all’oggetto fotografato. Così, trasportando il concetto di iconismo in ambito narrativo, come ha fatto Greimas, si farà riferimento al rinvio analogico che situazioni, luoghi e personaggi di una storia possono avere con qualcosa di “reale”. Giustamente, Greimas evidenzia, di questa relazione analogica, il carattere marginale e addirittura ingan- nevole, parlando di “illusione referenziale”. L’illusione referenziale sarebbe infatti quella per cui, leggendo un racconto, pensiamo non che questo testo possa comunicarci dei significati, in termini di valori, idee e visioni del mondo che esso esprime, ma che banalmente il racconto si limiti a parlarci degli oggetti, dei luoghi e delle persone che esso ci- ta. Allo stesso modo nel caso della pittura, la fruizione ingenua si limi- ta al riconoscimento delle cose e delle persone dipinte, magari neppu- re immaginando che il quadro abbia assai più complessi e affascinanti significati e valori culturali.

La relazione iconica di cui parla Peirce tende dunque a collocarsi in una concezione per cui i segni rinviano a un referente piuttosto che a un

significato. La differenza è profonda e decisiva, come appare

Secondo alcuni, ciò che è più affascinante è l’individuazione della per- sona reale che il pittore prese a modella per il ritratto: si tratterebbe dunque di porre l’accento sul rinvio analogico del quadro alla persona reale, al suo referente, un’entità talmente specifica da poter essere indi- cata con un nome e un cognome (Lisa Gherardini, per esempio). Secon- do altri, tale questione è del tutto trascurabile, mentre ciò che conta è il senso di indefinibile e sospesa ambiguità, di presenza e insieme di as- senza dal luogo… “enigmatico”, “inafferrabile”, “surreale”, sono ad e- sempio termini che tipicamente ricorrono in queste riflessioni interpre- tative: la differenza tra la ricerca del significato e l’attenzione puntata sul referente risulta subito evidente. La stessa alternativa, per fare un esempio diverso, si pone a proposito delle fotografie: chi si impegna sul lato del referente si chiede soprattutto “che cosa è stato fotografato”, laddove chi segue la strada del significato si chiede “cosa comunica questa immagine, che emozioni suscita, che valori simbolici può espri- mere”. Le due strade sono, come si vede, sostanzialmente diverse.