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I segni arbitrari, regole e eccezion

Per una teoria unificata delle forme di correlazione segnica

2.4. I segni arbitrari, regole e eccezion

Proprio per il fatto che dipendono interamente da convenzioni, i se- gni arbitrari si presentano quasi ovviamente nella forma complessiva di

sistemi. Non essendoci motivi che legano un certo significante a quel

dato significato e viceversa, non c’è modo per il parlante di passare da un lato all’altro del segno per ragionamento, o per osservazione. Se non si sa, ad esempio, cosa voglia dire quip in inglese, si avrà un bel guarda- re fisso la parola, o sentirla suonare, o provare a ragionarci sopra in termini di causa ed effetto, o magari seguire la strada analogica; non c’è verso di arrivarci. Se non l’abbiamo appreso e memorizzato, o non ab- biamo un contesto da cui dedurne il valore, la parola resterà misteriosa, e non sapremo mai che sta per qualcosa di simile al nostro “motto di spirito”. Diversamente da quanto vale per gli indici e le icone, i segni arbitrari richiedono un lavoro molto duro di apprendimento sistematico: bisogna infatti memorizzare lunghe liste di segni, che si presentano poi come unità sostanzialmente rigide e fortemente standardizzate. Non è dunque un caso se di fatto vi sono pochi sistemi di segni fondati sul principio della correlazione arbitraria, e dunque non vi sono più ragioni oggi per non riconoscere che la lingua costituisce una forma di comuni- cazione tanto raffinata quanto specifica, tanto preziosa quanto in defini- tiva particolare, tendenzialmente sui generis.

Arbitraria, va precisato, è in primo luogo la relazione che lega cia- scun significante al relativo significato; dipendono però dalle conven- zioni linguistiche anche i due termini della relazione in quanto tali, dunque sia il significante sia il significato. Se la convenzionalità è e- vidente per il significante (in italiano abbiamo /kane/, in inglese /dog/), abbiamo però già rilevato come anche sul lato dei significati ciascuna lingua elabora un sistema in qualche misura suo peculiare.

L’apprendimento di una lingua straniera comporta in effetti che si im- parino anche i modi in cui tale lingua disegna l’area di significato dei suoi segni; basti pensare a come nelle prime lezioni si spiega agli stu- denti italiani che l’inglese non possiede un verbo che equivalga all’italiano “potere”, o che ci sono dei problemi a tradurre l’italiano “pecora”. Abbiamo già detto della non corrispondenza tra l’area di va- lore del termine italiano “blu” rispetto all’inglese “blue”, ma – per ci- tare un’area lessicale toccata da Saussure – potremmo ad esempio ri- cordare la non sovrapposizione tra l’italiano “foresta” e il francese “forêt”: “forêt” può valere in molti casi per l’italiano “bosco”, allo stesso modo in cui “blue” vale per punti di colore per i quali un italia- no userebbe “azzurro”.

Qui si presenta una questione importante, e molto discussa (per una sintetica presentazione dei termini della questione rimando a Pisanty e Zijno 2009: 85 sgg.): questi esempi non intendono dimostrare che la de- finizione dei significati da parte della lingua sia completamente libera e immotivata. Non lo è neppure, del resto, quella dei significanti, giacché la lingua tende per esempio a riservare le parole più semplici e brevi ai concetti d’uso più comune, o le configurazioni fonemiche più facili per il bambino a parole come papà e mamma. A maggior ragione, le cate- gorie costruite dalla lingua sul piano dei significati non sono operate a casaccio, e tuttavia contemplano molte scelte discrezionali. La suddivi- sione dei colori può tenere conto ad esempio di criteri d’ordine percetti- vo, o di corrispondenza con determinati oggetti, o di connessione con determinati fenomeni naturali: indubbiamente, può tener conto dell’uno o dell’altro di questi criteri, ma nessuno di questi è obbligatorio. La ca- tegorizzazione dei tipi di animali fa riferimento a criteri spesso vicini a quelli delle scienze zoologiche (criterio della generazione di prole fe- conda, in particolare). Così, la categoria linguistica cane corrisponde a una specie zoologica, gatto anche, ma topo no. Con mosca andiamo malissimo, il termine non corrisponde a nulla di preciso in zoologia – se lo si cerca su Wikipedia, si legge che è una categoria dell’immaginario collettivo. Al contrario, non abbiamo nessuna parola d’uso corrente per indicare i bovini, dobbiamo mettere insieme toro, bue e mucca. Il fatto è che la lingua modella i concetti non a partire da criteri di neutrale ri- produzione del mondo ma sulla base di criteri di convenienza, di oppor- tunità pragmatica, di corrispondenza con il disegno della logica cultura- le. Noi italiani chiamiamo “cugini” un insieme di parenti che per altre culture appartengono a categorie del tutto diverse; per quanto il termine

si riferisca a qualcosa di apparentemente radicato nei fatti biologici, di fatto in natura, o se si vuole oggettivamente, non esistono cugini. La nostra lingua, però, è del tutto razionale nel creare una sua categoria di “cugino”, perché corrisponde a tipi di persone con le quali in pratica siamo invitati ad avere una relazione simile: queste persone non sono simili per natura, ma lo sono per cultura, e l’istituzione da parte della lingua del significato di “cugino”, e dunque di questo concetto, è arbi- traria, ma del tutto razionale (anche la lingua ha però le sue défaillan-

ces, come tutto: basti pensare in italiano alle confusioni create dal ter-

mine “nipote”). Parlare di costituzione “arbitraria” delle categorie lin- guistiche non è dunque, in definitiva, la migliore scelta terminologica, anche perché “arbitrario” viene associato troppo sovente a concetti co- me “capriccioso”, “discutibile” o addirittura “illegittimo”. Quello che si vuole indicare, invece, è la presenza decisiva di una scelta, operata sulla base di una logica interna che non soggiace a un disegno delle cose già esternamente deciso.