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La nostra costitutiva appartenenza all’universo semiotico

I punti di partenza

MITTENTE RICEVENTE

1.5. La nostra costitutiva appartenenza all’universo semiotico

Una delle prime cose che colpiscono chi si accosta agli studi se- miotici è l’inatteso rapporto che questi suggeriscono tra meccanismi segnici, processi comunicativi ed esperienza di vita. Spieghiamo per- ché. Secondo il modo comune di pensare, le cose funzionerebbero press’a poco così: in primo luogo, gli esseri umani hanno interazioni con gli oggetti e gli eventi del mondo, su una base tanto pratica quanto conoscitiva, e solo in seconda istanza decidono che una certa parte o certi aspetti di questa esperienza possano diventare oggetto di un atto di comunicazione; in questa sede, essi riferiranno ad altri intorno a ciò che hanno visto o provato, ciò che è accaduto o ciò che intendono fa- re. Solo a questo punto ci si renderebbe conto che, per realizzare tale atto comunicativo, vi è bisogno di segni, linguistici o visivi o magari musicali o d’altro genere. Dunque, secondo questo schema i segni hanno il loro posto specifico all’interno dei processi di comunicazio- ne, ed esistono allo scopo di rendere comunicabile pensieri ed espe- rienze, intorno agli oggetti e agli eventi del mondo, che le persone hanno formulato prima di porsi un problema di comunicazione. I si- stemi semiotici arriverebbe, insomma, solo dopo, chiamati a scendere in campo all’occorrenza.

La prima lezione di un corso di semiotica rischia dunque di essere per certi versi traumatica, poiché improvvisamente si fa intendere che la relazione tra gli esseri umani e le cose e gli eventi del mondo non è diretta e oggettiva ma mediata da sistemi di segni, grazie ai quali la nostra lettura delle “cose” è alla sua base organizzata da strutture semiotiche: queste, senza che neppure ce ne rendiamo con- to, definiscono l’identità dei nostri contenuti d’esperienza, ne dise- gnano le relazioni, e fanno sì che nulla di ciò che cade sotto la nostra attenzione resti privo di una soggettiva attribuzione di senso. Noi, insomma, vediamo segni piuttosto che oggetti, cogliamo connessioni semiotiche più che dati di fatto. Dunque, i sistemi semiotici non sono modi che ci consentono di comunicare ad altri qualcosa che si sia già

indipendentemente formato nella nostra mente, non arrivano dopo, non svolgono un ruolo meramente strumentale nel portare ad altri ciò che già era presente nella nostra psiche. Persino quando siamo asso- lutamente soli, lontani da ogni intento comunicativo, introduciamo comunque il nostro pensiero nella forma dell’uno o dell’altro sistema semiotico (comunemente la nostra lingua materna, ma può trattarsi di altre lingue, o di codici musicali o visivi, di strutture narrative o di schematizzazioni spaziali…). A controprova, si può citare tra l’altro la nota e intrigante pratica zen in cui si mostra quanto sia incredibil- mente difficile per un essere umano riuscire a guardare e pensare le cose del mondo per quello che esse direttamente, di per se stesse so- no, senza includerle in una classe linguistica, senza connetterle logi- camente a qualcos’altro, senza identificarle concettualmente o attri- buire loro un qualsiasi valore.

Come dicevo, non si dà in effetti sufficiente rilievo al principio per cui il nostro pensiero passa obbligatoriamente attraverso categorie se- miotiche, questo perché i nostri sistemi di comunicazione sono di fatto anche sistemi di pensiero. Certo, sarebbe diverso se impiegassimo una forma di comunicazione telepatica… In effetti, se la telepatia non sembra essere “una cosa seria”, la rappresentazione di una specie in- telligente che usi la comunicazione telepatica, invece, può esserlo. Come ci ha spiegato Claude Lévi-Strauss – ne parleremo diffusamente più avanti – i meccanismi narrativi dell’immaginario costituiscono uno strumento fondamentale con cui una cultura riflette sull’identità e sul senso delle cose. Per fare questo, il meccanismo narrativo mette in relazione due stati differenti; spesso, uno è lo stato reale che cono- sciamo e l’altro rappresenta una condizione immaginaria, virtuale e al- ternativa: questo fanno nel nostro contesto culturale alcune forme par- ticolare di narrazione, come la fantascienza. Così, un esercizio di ri- flessione sulle differenze tra la condizione umana e quella di una spe- cie aliena, capace di comunicare in forma telepatica, può rivelarsi di grande utilità e valore teoretico.

Non sarà allora un caso rilevare che la figura canonica dell’alieno è stata in particolare disegnata, alla fine dell’Ottocento, da H.G. Wells (1898), ponendo un forte accento proprio sulla facoltà di co- municazione telepatica. Gli alieni invasori uniscono strettamente la capacità telepatica a un tipo d’intelligenza in qualche modo “superio- re”, certamente diversa dalla nostra, nonché a una differente struttura corporea: si presentano infatti costituiti essenzialmente da grosse te-

ste rotonde cui sono direttamente collegati i tentacoli che servono lo- ro per spostarsi e per compiere ogni tipo di operazione. Non hanno, in pratica, separazione tra testa e corpo, giacché il loro spazio interno è occupato da un gigantesco, efficientissimo cervello: perché questi esseri non hanno bisogno di organi per inghiottire, digerire e assimi- lare i cibi, in quanto provvedono alla nutrizione attraverso l’assun- zione del sangue di altre creature. Questa assenza di contatto con og- getti naturali da ingerire, se genera un senso di superiore distacco nei confronti della materia sensibile, non solo rende le creature aliene più spirituali e, potremmo dire, più asettiche, ma abolisce ogni ra- gione di contiguità a un corpo materno e si colloca in perfetto paral- lelo con una forma di riproduzione non sessuata, che esclude ogni in- timo contatto fisico con altri membri della specie. L’assenza di im- pulsi erotici o di relazioni affettive con i genitori, insieme al fatto di non avere mai provato la fluttuazione della fame e del suo soddisfa- cimento, cui si aggiunge l’assenza di qualsiasi senso di fatica e con- seguente bisogno di riposo – e dunque uno spazio per il meccanismo del sogno – determinano la totale assenza di emozioni (un tratto mol- to spesso ripreso, e tuttora impiegato, per disegnare il diverso da noi, con un misto di ammirazione e disprezzo).

Se riflettiamo sulla logica di combinazione di questi tratti, notia- mo che il disegno studiato da Wells è perfettamente coerente e dav- vero illuminante. L’uso dei sistemi semiotici può essere effettiva- mente correlato ad altri aspetti, a partire dal fatto che, consentendo i sistemi semiotici – in primis il linguaggio – di fare riferimento a di- mensioni virtuali, svolgono un ruolo decisivo nella formazione degli stati emotivi (si veda in proposito l’ultimo capitolo di questo libro). Soprattutto, pensiamo al fatto che l’impiego della telepatia evitereb- be a questi esseri di dover ricorrere all’uso di suoni o di gesti, o di doversi sporcare le mani con inchiostri e colori, o magari di impe- gnarsi a strisciare crini di cavallo contro budelli animali tesi su una scatola di legno (ciò che noi diciamo “suonare il violino”); di conse- guenza, non possiedono musica, né arti visive, né letteratura e così via. L’assenza di telepatia rivela tutti i suoi lati positivi, ma il con- fronto ci aiuta a prendere consapevolezza di un fatto fondamentale: siccome i sistemi semiotici, come abbiamo visto, hanno necessità di manifestare strutture mentali in oggetti fisici, diventa per noi abituale il fatto di operare continuamente connessioni tra entità materiali e

L’esigenza strumentale diventa tratto costitutivo della condizione umana, caratterizzata in profondo da questa incessante correlazione tra il sensibile e il pensabile. Viviamo in un mondo che ai nostri oc- chi è al tempo stesso materiale e psichico, fatto di molecole e insie- me di configurazioni semantiche: tutto ciò che vediamo, ascoltiamo, tocchiamo o gustiamo è immediatamente caricato di senso, e per converso tutto ciò che pensiamo o immaginiamo, così come tutto ciò che genera in noi degli stati emotivi, viene subito associato a qualco- sa che possa essere tradotto in oggetti concreti ed esperienze sensibi- li. Queste riflessioni sono essenziali per prendere effettivamente con- sapevolezza della nostra profonda e costitutiva appartenenza a un u- niverso semiotico, in cui siamo continuamente e profondamente im- mersi. La semiotica è, forse prima di ogni altra cosa, uno sguardo at- tento su questa condizione, e sulle molteplici implicazioni di questa multiforme e intricata duplicità.