Per una teoria unificata delle forme di correlazione segnica
2.8. Rovesciando l’inquadratura
Immaginiamo il caso di un fotoreporter cui sia stato chiesto di forni- re un’immagine adatta a illustrare un articolo per una rivista. Il pezzo tratterà della necessità di difendere la bellezza dei luoghi naturali, trop- po spesso deturpati dalle esigenze dell’industrializzazione; di qui deriva il senso che la fotografia deve esprimere. Il nostro fotografo, prima di imbracciare l’apparecchio fotografico, deve fermarsi a riflettere: non può passare alla fase creativa, se non l’ha prima pianificata, decidendo quale tipo d’immagine precisamente vuole realizzare. Tanto più bravo il fotografo, tanto più approfondito e accurato è il processo di quella che i teorici chiamano pre-visualizzazione. Poniamo che il nostro fotografo opti, ad esempio, per un’immagine che mostri un piacevole ambiente naturale montano, rovinato dai tralicci e dai cavi della linea elettrica ad alta tensione che lo attraversa. La previsualizzazione è precisa: l’ora de- ve essere quella dell’alba, per avere i colori più freschi, la focale dell’obiettivo deve essere tale da schiacciare un po’ le componenti l’una sull’altra, tutto deve risultare allo stesso modo nitido e a fuoco, la pro- spettiva un po’ dal basso, in modo da sottolineare la misura e l’imponenza dei tralicci, i colori devono essere vivi ma naturali… So- prattutto, egli disegna nella sua mente una struttura topologica4 capace
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di enfatizzare la compresenza e l’opposizione tra componente naturale e tecnologica: decide quindi di comporre una fotografia in cui una catena montana digradi obliquamente dall’alto al basso muovendo da sinistra verso destra, mentre al contrario i cavi elettrici dovranno seguire l’andamento opposto.
Definita l’immagine da realizzare, il nostro fotografo raduna l’attrezzatura occorrente e sale in auto; alla ricerca del luogo ove scattare l’immagine che ha in mente, percorre diverse regioni mon- tuose, esamina e scarta un gran numero di inquadrature possibili, finché dopo un paio di giorni individua il luogo adatto per realizzare la sua fotografia. Studia accuratamente la posizione migliore, l’inquadratura, il disegno delle luci e delle ombre, e finalmente quando viene il momento giusto scatta l’immagine. La fotografia ot- tenuta in questo modo (precisiamo che sarà pubblicata sulla rivista senza alcuna elaborazione successiva) riproduce senz’alcun dubbio la scena inquadrata, con tutto il suo complesso di referenti naturali (prati, cielo, montagne…) e artificiali (cavi e tralicci). Li riproduce, anzi, in modo per certi versi meccanico; quel modo che aveva fatto scrivere a Peirce, nel 1895, con qualche ingenuità ma con una buona intuizione: “Le fotografie, specialmente le istantanee, sono molto i- struttive, perché sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente uguali agli oggetti che esse rappresentano. Ma questa rassomiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali che esse erano fisicamente costrette a corrispondere punto per punto all’oggetto in natura. Sotto questo aspetto, dunque, esse appar- tengono alla seconda classe dei segni: quelli per connessione fisi- ca.”5 Oggi forse non diremmo né che vi sia in una fotografia alcun- ché di “esattamente uguale” agli oggetti fotografati, né che l’attrezzatura tecnologica sia “fisicamente costretta a corrispondere punto per punto agli oggetti”. Tuttavia, il principio di una relativa meccanicità della fotografia resta un tratto essenziale, e resta signifi- cativo il riconoscimento di un’affascinante ambiguità tra la natura iconica dell’immagine fotografica e il modo della sua realizzazione, che per certi versi la fa rientrare nell’ambito degli indici. Ma una volta riconosciuta tutta la leggibilità referenziale dell’immagine così faticosamente realizzata, dobbiamo ammettere la necessità di cam- biare radicalmente prospettiva.
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Questa immagine è semplicemente la riproduzione meccanica di un luogo esistente nel mondo? Generata da una ricerca partita da un’idea assai precisa (che l’immagine in effetti riproduce fedelmen- te), e poi selezionata fra decine di migliaia di altre immagini possibi- li, studiata accuratamente nel taglio, nella composizione, nella pro- spettiva e nella qualità visiva, questa immagine vale assai più come riproduzione su carta della rappresentazione mentale del suo artefice che non come calco di un luogo visibile. La scena che ha permesso l’esecuzione della fotografia è qui uno strumento che serve alla rea- lizzazione di uno scopo espressivo; parafrasando Peirce, si potrebbe dire che questa fotografia è per certi aspetti esattamente uguale al progetto mentale del suo autore, dato che l’apparato tecnologico è stato fisicamente costretto a corrispondere punto per punto all’im- magine pensata dal soggetto. La macchina fotografica come il pen- nello del pittore? Non esattamente allo stesso modo, ma in entrambi i casi si tratta del rapporto tra un progetto espressivo, da intendere come una struttura immateriale elaborata mentalmente, e poi una se- rie di strumenti usati per arrivare alla realizzazione finale, cioè a un oggetto percepibile sul piano della manifestazione. Senza dimentica- re, neppure, che la maggior parte delle opere pittoriche hanno richie- sto, per la loro realizzazione, un cavalletto da collocare al posto giu- sto di fronte al paesaggio o alla scena da ritrarre, oppure dei modelli disposti a posare per ore, mentre il maestro ne riproduceva l’immagine sulla tela. In definitiva, appare davvero ingenuo conside- rare la fotografia del nostro esempio come il risultato del lavoro meccanico di un’apparecchiatura tecnologica; a rigore, sarebbe più chiarificatrice la metafora che immagina la macchina fotografica im- pegnata sì a riprodurre ciò che inquadra, ma con l’obiettivo volto i- dealmente alla rovescia, a inquadrare non gli oggetti esterni ma l’immagine interiore, disegnata nelle mente del fotografo.
L’esempio intende mostrare la distanza tra la concezione peirceana dell’immagine come icona referenziale e la visione per cui l’immagine rinvia invece primariamente a costrutti semantici. La differenza è tan- to grande e profonda da non consentire di mantenere lo stesso termine: lasciamo dunque “icona” a indicare il caso più semplice (comunque importante e teoricamente irrinunciabile) dell’immagine a valore es- senzialmente referenziale. Noi ci riferiamo invece a un segno vero e proprio, con un significato di natura concettuale paragonabile a ciò che pensiamo come “significato” quando parliamo, ad esempio, di un
enunciato linguistico. La relazione analogica sarà qui quella che lega una configurazione espressiva alla struttura concettuale che, grazie a una correlazione analogica, essa è in grado di richiamare. Nel nostro esempio, s’intende che l’immagine della bella catena montuosa, la cui armonia è rovinata da una linea ad alta tensione, possiede un’analogia strutturale con l’idea che si vuole esprimere: che gli strumenti del pro- gresso industriale devastano la bellezza della natura. Qualunque sia la base precisa su cui riconosciamo l’analogia, essa ci appare evidente, tanto evidente anzi da poter essere giudicata addirittura banale. Ma questo è il punto: l’evidenza, e insieme l’effetto di già visto legato alla reiterazione di un certo modulo espressivo, valgono all’interno di uno specifico universo culturale, dove si sono consolidate tanto certe for- me di pensiero quanto certe soluzioni di rappresentazione simbolica. Il tipo di segni di cui parliamo, oltre ad essere una realtà culturale stori- camente elaborata, appare dunque dotata di un certo grado di generali- tà, e della capacità di riprodursi in un numero, più o meno ampio, di specifiche occorrenze.