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Rovesciando la prospettiva

Lo schema della comunicazione, versione fluida

3.2. Rovesciando la prospettiva

L’elenco delle sei funzioni formulato da Jakobson non è, palese- mente, che un abbozzo parziale (si vedano anche le note fatte sopra a proposito della funzione emotiva e di quella conativa), una specie di schizzo buttato giù per dare un’idea di quante cose diverse si possa- no fare attraverso un atto di comunicazione. Per noi, è però un utilis- simo punto di partenza, per una riformulazione che tenga conto di prospettive più attuali. A questo scopo, possiamo riallacciarci a quanto detto a proposito della funzione fàtica. Jakobson riprende questo concetto dalle osservazioni etnologiche di Bronisław Mali- nowski, cioè in sostanza da una riflessione sul modo in cui i processi di comunicazione sostengono relazioni sociali indipendentemente

dalla presenza di contenuti informativi. Questo accade ad esempio

nei casi ben noti in cui si intrattiene una conversazione senza avere in realtà nulla da dire, ma solo perché si vogliono mantenere relazio- ni di amicizia, oppure si sente di dover riempire il vuoto dovuto alla mancanza di altre motivazioni comunicative (“Bene bene… eccoci qua…”), o ancora si desidera mettere in rilievo l’esistenza stessa di un qualche rapporto sociale con una persona (come nel caso delle chiacchiere sul tempo tipiche dei percorsi nell’ascensore del condo- minio, per intenderci). Si comunica per sentirsi vicini, per ricordare l’esistenza di una relazione affettiva, per far capire che comunque “si può contare su di noi”, e in molti di questi casi il valore della comu- nicazione, intesa quale puro rapporto sociale, è anzi, addirittura, tan- to più forte quanto più risulta evidente che non c’è nulla “da dire”, nessuna informazione da dare, nessuna finalità pratica, nessuno sco- po al di là della pura relazionalità.

Ci sono, nella comunicazione a forte componente fàtica, due aspetti di grande interesse teorico. Da un lato, si mostra che può essere molto rilevante intraprendere e sostenere la comunicazione anche in man- canza di qualsiasi contenuto informativo (il che nega alla radice la confusione tra “comunicazione” e “informazione”), proprio perché i processi di comunicazione vanno intesi innanzi tutto come modi per mantenere relazioni sociali. Non a caso, nel mondo della comunica- zione applicata si parla da tempo di un “marketing relazionale” che ha le sue radici proprio in questo tipo di convinzione, e che si esprime in azioni comunicative che si vogliono palesemente prive di finalità pra- tica – nel caso, di finalità commerciale.

Dall’altro lato, possiamo notare che la componente fàtica non si limita a “portare l’attenzione sul canale”, ma di fatto («Adesso stammi a sentire!», «Non ti distrarre!», e simili) apre e mantiene un contatto altrimenti forse non esistente, o troppo debole per assicurare la riuscita del processo di comunicazione. L’importanza di questo aspetto è da sempre ben presente a quanti si occupano di comunicazione pubblici- taria: la loro attenzione per la componente fàtica è in effetti almeno pari, se non superiore, a quella per i contenuti informativi. Il messag- gio deve essere adeguato e ben costruito, certo, ma se non viene visto, letto o ascoltato, anche i migliori contenuti risultano inutili: la preoc- cupazione è dunque quella di farsi vedere, di raggiungere l’attenzione, di mantenere il contatto con i destinatari. Anche dal punto di vista e- conomico, l’investimento in bravi autori di testi è nettamente minore rispetto a quanto si spende per avere la show girl del momento o il cal- ciatore di successo, soltanto perché la loro presenza attira e mantiene l’attenzione – ha cioè un mero valore fàtico.

Possiamo allora dire che il contatto con il destinatario è in molti casi non un prerequisito del processo di comunicazione ma un suo risultato: sono i messaggi ad aprire, definire, mantenere e variare il contatto. Questa osservazione – che abbiamo visto essere tutt’altro che marginale nella pratica comunicativa – ci invita però a un sostanziale cambio di prospettiva. Nell’ottica tradizionale, sembra del tutto ovvio che l’emis- sione del messaggio possa avvenire solo dopo che gli altri elementi del quadro hanno preso il loro posto. Apparentemente, questo è incontro- vertibile: come si potrebbe pensare che il messaggio non venga a poste-

riori rispetto al suo mittente, o alla definizione delle regole necessarie a

decodificarlo… o, appunto, rispetto alla presenza di un contatto che ne permetta la trasmissione? Il messaggio sembra insomma entrare in sce- na, da vera prima donna, solo al momento in cui tutti gli altri elementi del quadro comunicazionale hanno preso il loro posto e sono stati pie- namente definiti. Ma la funzione fàtica ci dice che, almeno per il canale, può non essere così: che il messaggio può essere formulato prima, allo scopo stesso di aprire e definire il contatto con il destinatario. Ma pos- siamo chiederci, allora, se lo stesso rovesciamento non possa valere in qualche misura anche per gli altri elementi. Proviamo a ragionarci.

Per esempio, è possibile comunicare senza avere prima un codice comune? In parte sicuramente sì, giacché basta avere qualche brandello di codice in comune per attivare processi metasemiotici grazie ai quali si possono via via produrre nuovi segmenti di codice: un interlocutore

può insegnare all’altro il significato di nuove parole, si possono costrui- re insieme nuovi segni o cambiare il valore di quelli esistenti, tutti casi in cui almeno certe porzioni del codice vengono ad essere posteriori ri- spetto all’emissione dei messaggi. Ma c’è qualcosa di molto più rile- vante: la creatività semiotica – che è un aspetto importante e diffuso del comunicare, non una prerogativa rara come si potrebbe credere – fun- ziona spesso proprio attraverso la produzione di messaggi che introdu- cono direttamente nuovi linguaggi. L’artista che fonda nuove forme d’espressione non redige prima una grammatica da fornire ai destinatari ma semplicemente usa il nuovo codice; in un primo momento suscita qualche sconcerto, ma poi molti arrivano a ricostruire la logica delle sue innovazioni linguistiche, e il nuovo linguaggio viene riconosciuto a po-

steriori rispetto ai testi prodotti. Il testo, dunque, può in questo senso

generare il suo codice, e questo non è un fenomeno ristretto: vale per nuovi modi di realizzare un film, per nuovi modi di fare pubblicità, per nuovi modi di vestirsi, di disegnare gli oggetti d’uso, eccetera; la creati- vità produce messaggi, e questi presuppongono codici fino a quel mo- mento inesistenti: la regola si presenta come il risultato, e non come il

presupposto rispetto alla produzione del messaggio. I codici non ven-

gono assunti in modo rigido, ma possono essere trattati come realtà fluide, modificabili e dinamiche.

Che dire allora a proposito del mittente? Non intendiamo certo so- stenere che la persona che formula il messaggio non esista fisicamente prima dell’atto comunicativo; tuttavia, se non parliamo del mittente come entità biologica, bensì come attore in un quadro psicologico e sociale, è vero che l’identità di ciascuno di noi, il modo in cui siamo riconosciuti dagli altri, e anche il modo in cui ci rappresentiamo a noi stessi, dipende in buona misura da come comunichiamo e da ciò che comunichiamo. Questo vale per gli individui come per i gruppi o per le istituzioni: ogni atto di comunicazione ridefinisce l’identità del suo mittente, tanto che si può dire che ciascuno di noi è insieme tan- to il creatore quanto il risultato della sua attività di comunicazione. Pensiamo a cosa sia per noi un certo marchio industriale, una certa personalità pubblica, o anche un certo conoscente, e ci rendiamo conto che il modo in cui li pensiamo e l’identità che attribuiamo loro dipende essenzialmente dal modo complessivo in cui essi comunicano (comprendendovi ovviamente anche componenti come l’aspetto grafi- co per il marchio, il modo di muoversi o di vestirsi per le persone, la capacità di stare in scena per un personaggio pubblico…). Persino

quando una persona sta apparentemente fornendo informazioni, lo scopo reale con cui lo fa può spesso essere soprattutto quello di pro- porre la sua immagine di soggetto a seconda dei casi competente, au- torevole, oppure arguto, o magari compassionevole. Insomma, se in quanto entità biologiche siamo, certo, indipendenti da tutto questo, in quanto persone immerse nella vita sociale siamo davvero il prodotto dei processi comunicativi in cui siamo coinvolti.

Un discorso almeno in parte analogo può valere per i destinatari; tutti sappiamo del resto che la nostra identità è in qualche modo conseguente ai giornali e ai libri che leggiamo, ai film che guardiamo, alla musica che ascoltiamo, e così via: dunque, anche l’identità del destinatario è in qualche modo trasformata dai messaggi. Da questo lato vi è però da fare un discorso più complesso, che rimandiamo al paragrafo seguente. Pos- siamo però a questo punto incominciare a notare come si stia trasfor- mando il nostro modo di concepire il processo di comunicazione. Men- tre all’inizio pareva inevitabile ritenere che il messaggio costituisse un elemento collocato all’interno di un quadro indipendentemente costitui- to, ora possiamo pensare che l’attivazione del processo di comunicazio- ne, attraverso la produzione del messaggio, abbia la capacità di ridefini-

re tutti gli altri elementi in gioco. In un certo senso, è come se il mes-

saggio, invece di apparirci come una pallina da golf che corre all’interno del campo, si fosse trasformato in un gigantesco contenitore, capace di tener dentro tutti gli altri elementi. Siamo passati da una con- cezione statica a una concezione dinamica, e da una definizione separa- ta per singoli elementi a una visione relazionale, in cui ogni elemento agisce sull’identità degli altri e il messaggio, più che un oggetto lanciato da un lato all’altro del campo, agisce a tutti gli effetti come un processo. Abbiamo però tralasciato, in questa riformulazione del modello, proprio quello che nella visione cibernetica era il punto di ancoraggio primario: il contesto di riferimento, cioè la realtà esterna. Oseremo forse sostenere che il messaggio sia capace anche di questo, di cam- biare il mondo nel momento in cui ne parla? Anche in questo caso, la risposta è negativa se ci si riferisce alla costituzione fisica della realtà, ma è positiva se ci si riferisce invece alla sua rappresentazione, al mo- do in cui la realtà è pensata, cioè al modo in cui essa esiste in termini psicologici e sociali. Quella che chiamiamo “realtà” non è forse il ri- sultato di una costruzione che avviene, essenzialmente, tramite i pro- cessi di comunicazione – o per dirla con l’espressione di Jakobson, tramite i messaggi? Nel momento in cui il messaggio entra in scena,

nulla resta dunque identico a prima. La visione sociosemiotica presen- ta, rispetto ad altre, proprio questo vantaggio, rilevante anche dal pun- to di vista operativo, come meglio vedremo nelle pagine seguenti.