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Oltre il concetto di “icona”

Per una teoria unificata delle forme di correlazione segnica

2.7. Oltre il concetto di “icona”

Più complesso è il caso del terzo tipo di segni, in qualche modo im- parentato con quella che Peirce ha chiamato icona (dal greco eikon, immagine). Si ha oggi la sensazione che il fondatore americano della semiotica abbia avuto, potremmo dire, un’intuizione giusta ma non ben elaborata: lo testimoniano le innumerevoli diatribe che ne sono seguite e gli innumerevoli tentativi di messa a punto. Pur assumendo qui una prospettiva molto diversa, manteniamo almeno due aspetti chiave del- le classiche definizioni di Peirce:

a) Il segno opera il suo rinvio a “qualcos’altro” non in se stesso – non oggettivamente, dunque – bensì nella mente di un soggetto, di un “interprete”, in forma soggettiva;

b) L’icona è un segno caratterizzato dal fatto che il rinvio semiotico è fondato su una analogia.

Dall’insieme delle due definizioni, ricaviamo l’idea che l’icona si fonda sul riconoscimento soggettivo, da parte e nella mente di un in-

terprete, di un qualche tipo di “somiglianza” o “analogia”. Non es-

sendo nelle cose, la somiglianza dipende dal modo di guardare dell’interprete, dalla prospettiva che questi assume, dipendente a sua volta dalla competenza semiotica e culturale di cui egli dispone. S’intende che, per chi operi nel quadro delle scienze umane, è senz’altro più appassionante chiedersi “per quale motivo un certo sog- getto vede A come simile a B” che non “come fa un oggetto A ad as- somigliare a un’entità B”. Essendo costruite, le “somiglianze” sono soggette a spiegazione, e sono tutte da esplorare le tecniche culturali che sono capaci di istituire tali effetti di analogia.

Peirce intende purtriooi i segni iconici come rapporto tra oggetti (un segno è iconico quando rappresenta il suo oggetto principalmente attra- verso la sua similarità3), e dunque le icone come segni che rinviano a entità presenti nel mondo. Ora, è innegabile che vi siano parecchi casi in cui la funzione di un segno, specialmente ma non necessariamente visivo, sia quella di riprodurre qualcosa, in modo ad esempio da render- ne facile il riconoscimento. Questo vale per lo schema abbozzato su un foglio per spiegare la strada da seguire, o per il ritratto che serve a rico- noscere il volto di una persona, e così via: in pratica l’icona funziona in

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questi casi come un nome proprio che, è vero, essenzialmente rinvia a una certa specifica entità esistente nel mondo. Le cose possono essere più complesse: si può riconoscere per analogia qualcosa che non si è mai visto o che si intende come puramente immaginario. Riconoscia- mo la riproduzione analogica di un unicorno, per quanto sappiamo trattarsi di un animale inesistente, e interpretiamo per analogia il dise- gno progettuale di un grattacielo che ancora non è stato costruito, e che forse non lo sarà mai. Facciamo ancora un passo più in là, e siamo a riproduzioni iconiche che rinviano non a entità singole ma a classi, come nel caso della pianta di una villetta a schiera destinata a dar vita a trenta esemplari distinti. L’icona può avere dunque referenti imma- ginari, virtuali, anche impossibili, oppure referenti che non corrispon- dono a oggetti ma a classi di oggetti. Tutto questo può rientrare co- munque nella visione alla Peirce per cui l’icona rinvia, in definitiva, a un referente di qualche tipo, magari di definizione raffinata.

Le cose cambiano già sostanzialmente quando, ad esempio, capia- mo che il disegno o la fotografia di un animale o di una pianta (pren- diamo il caso di uno stambecco raffigurato nelle pagine di una guida per passeggiate in montagna, per esempio) non si riferisce affatto a un dato animale ripreso dalla macchina fotografica – questo specifico stambecco ora-qui, nel momento in cui la fotografia viene scattata – bensì all’idea generale di “stambecco” in quanto specie zoologica. Sa- rebbe senz’altro interessante studiare le modalità tecniche che fanno passare l’immagine dello stambecco da icona-nome proprio a imma- gine che vale come nome comune (ritaglio dell’immagine, posizione non angolata dell’animale, illuminazione omogenea, e così via), ma ciò che qui importa è che dal rinvio a un’entità specifica si passa alla rappresentazione di una categoria generale, di un concetto del tutto pa- ragonabile al significato della parola “stambecco”.

Esaminando i casi concreti che ci si presentano, è davvero affasci- nante notare come la nostra competenza di interpreti sia pronta a sce- gliere con prontezza l’una o l’altra strada. Sulle due pagine a fronte di un settimanale riguardante l’elezione del Presidente di una Repubblica sudamericana vedo ad esempio la fotografia dell’uomo politico appe- na eletto e, dall’altra parte, il ritratto di un bambino vestito di stracci, tenuto a mano da una donna di cui neppure si vede il volto, sullo sfon- do della strada di una qualche miserevole borgata. Non vi sono dubbi: riconosciamo immediatamente che la prima è una sorta di fototessera che riproduce il volto del personaggio, allo scopo di mostrarci e ren-

derci familiare l’aspetto di quest’uomo, mentre la seconda immagine, pur essendo stata scattata di fronte a un bambino specifico, non vuole farci pensare a quel bambino in particolare bensì a una generale con- dizione di indigenza, e alla situazione sociale che l’uomo politico do- vrà affrontare. Nella prima fotografia ciò che conta è il referente, si tratta di un’icona-nome proprio, ma nel caso della seconda, pur se non mettiamo in dubbio che gli oggetti fotografati esistano, ciò che conta è un rinvio concettuale, un significato; sarebbe forse troppo azzardato dire che la prima è l’immagine di una persona e la seconda l’immagine, invece, di un’entità concettuale, dunque di una rappresen- tazione mentale? Ma può una macchina fotografare un’entità mentale? In certo senso, sì. Proviamo a capire come questo possa avvenire, con- siderando più nei dettagli un esempio, volutamente molto comune, di uso comunicativo di un’immagine fotografica.