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La visione semiotica di Émile Durkheim

Soggettività, pertinenza, teoria della conoscenza

4.2. La visione semiotica di Émile Durkheim

Sorvolando sugli specifici elementi di prova e sull’imprecisione nella formulazione filosofica, resta un riferimento fondamentale il principio durkheimiano per cui le scienze sociali riprendono la pro- spettiva kantiana, dimostrando che la nostra conoscenza del reale non è immediata e diretta, come vorrebbero le posizioni empiriste, bensì mediata da un complesso filtro categoriale. Queste categorie, tuttavia, hanno un’origine che può essere precisata e spiegata, e con questa un carattere storico che sottrae loro l’onere della validità universale. Cer- to, questi sistemi che mediano il nostro rapporto con il reale discendo- no da entità trascendenti rispetto alla nostra mente, ma non si tratta di entità metafisiche o religiose, bensì di quella realtà umana superiore che è la dimensione sociale. In effetti, vale tanto per Durkheim quanto

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Si pensi ad esempio a certe visioni anticipatrici di J.N.I. Baudouin de Courtenay, cfr. Prampolini 2004: 20-sgg.

per Saussure il principio per cui il sistema categoriale tramite il quale concepiamo e classifichiamo il reale è legato a un’elaborazione di pensiero collettiva.2

La prospettiva di Durkheim, naturalmente, disegna un quadro più ampio che, accanto ai diversi tipi di linguaggi, include vari generi di fatti sociali; in tale quadro, egli può mettere in luce quanto la costitu- zione di un universo simbolico sia non solo necessaria ma addirittura fondativa dell’ordine sociale. Estendendo e radicalizzando, potremmo dire, il principio della natura costruttiva dei sistemi semiotici, Dur- kheim non solo mette in guardia verso quella che chiamiamo la con- cezione nomenclatoria dei sistemi simbolici (bisogna evitare, dice, di vedere nei simboli dei semplici artifici, etichette che verrebbero a so- vrapporsi a rappresentazioni già indipendentemente costituite), ma sottolinea la funzione decisiva svolta dai simboli nel fabbricare la real- tà sociale, e non solo nell’esprimerla. Il simbolo, ad esempio, non si limita a rappresentare l’esistenza di un gruppo sociale, ma è decisivo perché questo sia costituito.

Durkheim inaugura (pur senza poterla esprimere nei termini che sa- rebbero per noi appropriati) una visione dei dati socioculturali in chia- ve che riconosciamo come propriamente semiotica, in quanto ci invita a non considerare le credenze sotto l’aspetto di quello che noi direm- mo un referente, bensì in termini di quella che egli stesso chiama si-

gnification. Così, a proposito delle credenze religiose in esseri supe-

riori di qualche tipo, è scientificamente sbagliato considerarle “false”, in quanto riferite a entità di fatto inesistenti: esse vanno giudicate in termini di validità simbolica, e in questa chiave risultano pienamente razionali perché, se ne interpretiamo il significato, vediamo che danno espressione a bisogni reali ed aspetti rilevanti della vita, tanto indivi- duale quanto sociale. I simboli sacri come ad esempio i totem sono strutture simboliche complesse che consentono da un lato una realiz- zazione concreta in oggetti, colori, emblemi di vario genere (sul piano, diremmo, della manifestazione) e dall’altro lato rinviano, quale loro significato, al valore dello stesso gruppo sociale in quanto tale – entità di per sé troppo astratta per poter essere direttamente concettualizzata.

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Peter Skagested (2004: 245) ha recentemente sostenuto che si possa trovare anche in al- cuni passi di Peirce una significativa affinità con questo modo di vedere. Scrive infatti: «Communication, to Peirce, is the context in which thoughts are formed, and is logically prior to thinking processes taking place in individual minds».

In questo scenario, Durkheim attribuisce un ruolo del tutto centrale alla lingua. In quanto luogo privilegiato di connessione tra le rappresen- tazioni collettivamente costituite, la lingua assicura la permanenza di un sistema di pensiero sovraindividuale, di “un modo di pensare istituzio- nalizzato”: la lingua esprime la maniera in cui una società organizza, classifica, rappresenta e “pensa” il reale (Durkheim 1912: 496 sgg.). Nei suoi ultimi scritti si registra una piena consapevolezza di quanto la lingua svolga un ruolo costitutivo e non meramente rappresentativo; in pieno parallelismo con le concezioni saussuriane, egli dice che “pensa- re” è organizzare delle idee, dunque classificare, e corrispettivamente «classer, c’est nommer»: classificare è designare linguisticamente (ivi: 126). La lingua è così posta al centro della riformulazione della prospet- tiva kantiana: le categorie con cui una società definisce la sua percezio- ne del reale sono iscritte, innanzi tutto, nella lingua.

Confrontandola con l’insegnamento di Saussure, la visione di Dur- kheim percepisce più chiaramente i sistemi simbolici come azioni so- ciali, anziché come apparati normativi che consentono poi agli indivi- dui, su un diverso livello, di compiere azioni sociali. Piuttosto che ir- rigidire un’opposizione come quella che secondo Saussure separa ra- dicalmente il livello della langue da quello della parole, Durkheim fa riferimento a realtà in qualche modo intermedie: parla ad esempio di come i sistemi simbolici costruiscono «emozioni collettive» e defini- scono «maniere di agire e di pensare», qualcosa di vicino a quello che oggi indichiamo come pratiche (da non intendere banalmente come azioni materialmente compiute, ma come forme organizzate che, a un livello più astratto, modellizzano l’agire sociale).

Tanto Saussure quanto Durkheim pongono però prepotentemente al centro della scena la nuova concezione della soggettività propria alle scienze sociali. La natura istituita, collettiva, solidamente regolata di questa soggettività contrasta nel modo più assoluto con il concetto di soggettività che aveva ancora dominato gran parte dell’Ottocento, inte- sa come qualcosa di squisitamente individuale e dunque imprevedibil- mente variabile. Per le tipiche concezioni scientifiche dell’Ottocento, questo voleva dire che le componenti soggettive dovevano essere esclu- se dal dominio scientifico, in quanto imponderabili e non classificabili. È del resto ancora oggi molto forte nel pensiero comune l’idea per cui ciò che è “soggettivo” debba per questo sfuggire al dominio delle cono- scenze positive, sì da essere in pratica quasi sottratto alla stessa possibi- lità di discorso: dire «Mah, è un fatto soggettivo!» è una formula che ti-

picamente chiude la possibilità di una discussione. È dunque un gesto di rottura quello con cui le scienze umane quasi rovesciano la prospettiva, facendoci notare che molto spesso sono, al contrario, i dati di fatto og- gettivi a sfuggire alla possibilità di uno studio scientifico, a causa della loro contingente variabilità. Nel caso della psicanalisi, il comportamen- to osservabile – che l’Ottocento avrebbe detto “oggettivo” – è ritenuto di fatto comprensibile solo come manifestazione di strutture ed elabora- zioni psichiche profonde; queste sono sì collocate su un piano decisa- mente soggettivo, ma sono al tempo stesso formidabilmente strutturate, nonché decisamente interindividuali. Abbozzando quello che sarà un modello epistemologico tipico del nuovo secolo, si fa intendere che i dati, i comportamenti e i fenomeni “oggettivi” sono giudicati compren- sibili solo grazie a costrutti esplicativi che passano necessariamente per livelli “profondi”, “intangibili” e “soggettivi”.

Può suonare ad alcuni tuttora strano, ma questo modo di vedere, corrispondente ad aspetti fondamentali della semiotica saussuriana, rovescia il rapporto corrente tra “oggettivo” e “soggettivo”. È su que- sta base, ad esempio, che Saussure esclude dall’ambito della linguisti- ca generale lo studio dei suoni concretamente prodotti dai parlanti. Es- sendo questo livello materiale legato a idiosincrasie individuali e infi- niti fattori accidentali, mai potrebbe essere in quanto tale materia di studio scientifico. Ciò che nell’ambito del linguaggio è oggettivamen- te osservabile, o anche registrabile da un apposito apparecchio, di per sé può rivelare ben poco dell’ordine e della logica della lingua. Come dire, «Se è oggettivo, inutile parlarne, ognuno lo fa a suo modo!». La parte studiabile della lingua è quella che corrisponde alla soggettività condivisa della langue. Non si tratterà dunque di occuparsi dei suoni bensì del significante, psichico, istituzionale, normato, persistente; come dire: “È soggettivo, dunque è uguale per tutti” (per tutti gli ap- partenenti a una certa comunità, beninteso).