Soggettività, pertinenza, teoria della conoscenza
4.5. Lo statuto segnico degli elementi simbolic
L’autore che più di ogni altro ha saputo riprendere e sviluppare il nucleo teorico saussuriano nell’ambito di altri tipi di testualità è stato indubbiamente Claude Lévi-Strauss. Nel quadro della messa a punto di una teoria sociosemiotica, detiene inevitabilmente un posto centrale l’opera di questo autore che è stato al tempo stesso uno dei grandi pensatori dello strutturalismo, uno dei massimi maestri della ricerca sociale, e uno dei più raffinati innovatori nell’ambito dei modelli se- miotici. In particolare, è per noi decisamente essenziale il modo in cui egli ha posto in stretto contatto la teoria del segno, la teoria del testo, la teoria della narrazione e la teoria della cultura. Se, come abbiamo sottolineato all’inizio, la nuova prospettiva semiotica che abbiamo detto “neoclassica” mira a una più forte integrazione tra i diversi setto- ri e livelli di studio, i suggerimenti di Lévi-Strauss devono dunque es- sere considerati con particolare attenzione. Parliamo, in effetti, di “suggerimenti” più che di proposte teoriche esplicitamente e compiu- tamente sviluppate, e parliamo di una necessità di riformulazione, per- ché ciò che questo maestro ci ha lasciato è una gran profusione di pre- ziosi spunti e intuizioni, innumerevoli esempi, intricati e affascinanti percorsi d’analisi, più che non vere esposizioni organiche di teorie compiute.3
In primo luogo, la nostra discussione sulla teoria del segno, per quanto soddisfacentemente riformulata a livello di modelli formali, re- sterebbe incompleta se non mostrassimo il modo in cui vi si include perfettamente la teoria lévistraussiana del segno narrativo, e gli appor- ti che questa può dare. Segnaliamo anche, ed è un tratto ai nostri occhi decisivo, che tra i più importanti studiosi della narrazione Lévi-Strauss è quello che con più lucidità e determinazione ha puntato a mantenere e applicare i presupposti chiave della semiotica, analizzando le diverse
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Ho cercato di realizzare almeno in parte un lavoro di esplicitazione e sistematizzazione delle teoria lévistraussiane nel libro che ho dedicato alle concezioni semiotiche di questo auto- re; cfr. Ferraro 2001.
componenti dei racconti in modo da mostrare come si struttura la rela- zione tra le componenti del testo narrativo e il loro valore semantico.
Il compito da assolvere appariva, in partenza, quasi impossibile. Come districarsi in un universo di personaggi ed eventi singolari, di misteriosi elementi simbolici e di barocche costruzioni narrative come quello delle mitologie indigene americane? In particolare, come indi- viduare delle costanti, e dunque delle entità segniche riconoscibili, dietro quell’apparente caos fantastico, che si direbbe senz’altro privo di regole e di un ordine definito? Lévi-Strauss usa il principio semioti- co di pertinenza, quale chiave per spalancare la logica di un sistema simbolico. Si tratta di compiere quella capriola mentale che Saussure aveva proposto, smettendo di guardare il pieno delle cose, il modo in cui queste ci si presentano, per vedere, al di là di questo, il disegno delle relazioni che ne definiscono il valore. Così, se nei racconti pos- siamo trovare una grande varietà di animali, di specie vegetali, di comportamenti e di accadimenti, l’analisi dei loro tratti pertinenti po- trà consentire di riportare tutto questo a un’organizzazione semiotica in definitiva semplice, coerente, solidamente organizzata.
Quello che Lévi-Strauss cerca sono, esplicitamente, le unità segni- che usate nella costruzione dei racconti mitici; in analogia con termini come fonemi o monemi, le chiama appunto mitemi. Sistematizzando le tante indicazioni che egli fornisce, possiamo dire che ogni mitema possiede di norma molti modi di presentarsi nei racconti. Il significan-
te di ciascun mitema può dunque essere inteso come un’entità formale
astratta, oppure come una classe che raccoglie una serie più o meno ampia di elementi: elementi che noi diremmo equisimili, in quanto do- tati dei medesimi tratti pertinenti. Il principio di pertinenza consente di passare dalla variabilità della superficie manifesta alla costanza dell’ossatura logica soggiacente, esattamente nel modo in cui era stato possibile, nell’esempio di prima, identificare nel disegno complesso e sempre variabile di una lettera le sue poche, semplici caratteristiche identificative.
C’è però da considerare una differenza significativa: quando dice- vamo che l’identità della “t” emergeva nell’esame della sua relazione con altre unità dello stesso sistema di scrittura, la relazione contrastiva (il disegno di una lettera messo in opposizione con quello dell’altra) era individuata a livello di sistema, laddove nel caso della produzione narrativa vediamo le entità simboliche messe in opposizione sulla di- mensione testuale. Tutti sappiamo quanto sia tipico di moltissimi ge-
neri narrativi costruire il racconto nella forma di uno scontro (prota- gonista contro antagonista), ma questo non è né un semplice tratto formale né un artificio per vivacizzare il racconto: si tratta al contrario di un importante dispositivo della grammatica narrativa. Per fare un esempio elementare, di fronte al classico litigio tra lupo ed agnello an- che un bambino capisce che i due animali stanno lì a rappresentare un’opposizione tra valori concettuali: essi significano ciò che li rende
diversi. Ma è l’opposizione logica, segnalata dalla contrapposizione
nel racconto, a permetterci di individuare i tratti distintivi; se noi ci trovassimo semplicemente di fronte al personaggio dell’agnello, non potremmo dire quali delle sue caratteristiche dovremmo considerarne pertinenti: il colore, forse, o la lunghezza del pelo, o cos’altro? Ma se invece in un altro racconto trovassimo un agnello bianco opposto a un agnello nero, o magari un agnello a pelo lungo contrapposto a un a- gnello a pelo raso, ecco che a seconda dei casi la nostra attenzione an- drebbe ai caratteri oppositivi, volta a volta diversi. Questo rende evi- dente in che senso si possa dire che la pertinenza discende dal disegno dei rapporti, soprattutto di quelli oppositivi.
Se poi vediamo che in un racconto il lupo è contrapposto all’agnello e in un altro racconto, poniamo, a un cerbiatto, afferriamo facilmente che agnello e cerbiatto sono da considerare quali varianti portatrici d’un medesimo valore semantico, collocate all’interno di una medesima classe nel sistema narrativo simbolico. Non abbiamo bisogno, si noti, di trovare entità uguali, ma riconosciamo entità equi-
valenti perché portatrici dei medesimi tratti pertinenti. Le varianti pos-
sono scambiarsi tra loro senza che muti il significato della storia: in un altro racconto, ad esempio, potremmo trovare un’opposizione tra lo squalo e il delfino, e capire che ancora una volta la relazione oppositi- va resta la stessa che vi era tra lupo ed agnello. Introdurremo dunque il delfino nella classe di varianti definite dal tratto pertinente mansuetu-
dine e lo squalo nella classe definita dal tratto ferocia. Poiché nel rea-
lizzare il singolo racconto si tiene conto di una composizione omoge- nea (improbabile opporre lo squalo al cerbiatto, ad esempio), si parla in tal senso di varianti combinatorie. Gli elementi narrativi che fun- gono da varianti, ancorché di per sé differenti, ci appaiono però simili in ragione del fatto di essere semanticamente equivalenti: li diciamo, per questa ragione, equisimili.
La metodologia di Lévi-Strauss mostra che il valore di ciascun e- lemento può effettivamente essere identificato riferendosi a ciò che lo
rende diverso: si può dire insomma che ciascun elemento significhi realmente non attraverso la propria essenza ma attraverso la propria
differenza; è il possesso degli stessi tratti differenziali che ci permette
di affermare l’equivalenza di elementi che pure ci si presentano im- mediatamente come molto diversi. Ad esempio, nel volume Il Crudo e
il Cotto (Lévi-Strauss 1964) Lévi-Strauss mette in luce la presenza, in
alcune culture sudamericane, di due opposti mitemi che stanno a si- gnificare, rispettivamente, vita e morte.4 Il primo mitema può presen- tarsi nel racconto in molte forme diverse, come l’atto di cibarsi di piante coltivate, un animale simbolico come il giaguaro, un corpo ce- leste come la luna, o ancora la solidità della roccia, il suono di un ri- chiamo duro, o qualità come quelle di ciò che è unito, intero o caldo. Certo, non sarebbe immediato dire che il giaguaro che compare in un racconto sia equivalente alla roccia che compare in un altro, ma un’adeguata metodologia e un lungo percorso di analisi, attraverso molti racconti, ci mostra come si tratti di entità figurative reciproca- mente sostituibili in contesti diversi, e dunque nei nostri termini equi-
simili. Il secondo mitema (valore semantico morte) ha tra le sue va-
rianti il cannibalismo, animali come il formichiere o il bunia (un uc- cello puzzolente), il sole, il legno putrido, il suono di un richiamo dol- ce, o qualità come quelle di ciò che è rotto, molle, sparso o freddo. Come si vede, la gamma delle varianti è molto ampia e diversificata, comprendendo entità di natura tanto diversa come animali e entità na- turali, materiali e tipi di azioni, persino qualità sensibili. Ma quali trat-
ti pertinenti reggono l’opposizione di questi due mitemi, facendo sì
che entità così diverse possano valere quali varianti equivalenti? Mol- to in sintesi, e dunque s’intende in prima approssimazione, possiamo dire che il secondo mitema sta al primo sulla base dell’opposizione di-
sgiunzione eccessiva (frammentazione, disfacimento, incongruenza..)
VS corretta congiunzione, o mediazione (compattezza, continuità, connessione tra le parti, da intendersi anche in senso logico, o di orga- nicità culturale).5
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Per maggiori dettagli, cfr. Ferraro 2001, pp. 128-sgg.
5
Qualche suggerimento per capire la collocazione di almeno alcune di queste entità: il giaguaro è nei racconti un portatore di elementi culturali, a partire dal fuoco che dona agli uomini perché possano mangiare cibo cotto, la luna è nel cielo notturno un corpo compatto e unito, in contrasto al disordine frammentato delle stelle, il cannibalismo è qualificato sia come atto violento sia come consumo di carne considerata “putrida”, altrettanto “putride” sono con- siderate le formiche di cui si ciba il formichiere. Quanto al sole, capace con il suo ardore di bruciare il cibo vegetale, è rappresentato nei racconti come un cannibale.
Naturalmente, la traduzione in parole, e dunque in concetti nostri, della logica di questo sistema simbolico non può che essere appros- simativa – come scriveva Lévi-Strauss (1964: 214) «le nostre catego- rie linguistiche si prestano male a questo compito». Il nostro scopo però era qui quello di dare almeno un’idea della struttura effettiva di un mitema, cioè di un segno appartenente al sistema narrativo e sim- bolico di queste mitologie. In sintesi, possiamo dire che ciascun mi- tema comprende:
a) un significato (nel caso, approssimativamente indicabile con le en- tità concettuali vita e morte)
b) un significante, che può essere pensato in due modi: o come la classe corrispondente all’insieme di tutte le possibili varianti di manifestazione (astri, animali, qualità delle cose…), o come i trat- ti distintivi che ne identificano la pertinenza (ad esempio, in questo caso, il tratto che approssimativamente indichiamo come “disgiun- zione eccessiva”
c) un insieme più o meno ampio di specifiche varianti (nel caso, se ne potrebbero in effetti aggiungere altre, oltre a quelle citate). La struttura che ne risulta, è facile constatarlo, ripete ancora una volta la struttura generale del segno che abbiamo adoperato più volte. Ci si potrà chiedere, però, a quale dei tre tipi di segni che abbiamo di- stinto possano appartenere le unità simboliche e narrativi del mito. E- scludiamo facilmente che si tratti di indici, ma ci si potrebbe chiedere se il rapporto, ad esempio, tra la morte e il sole, poggi su una mera convenzione, e che si tratti dunque di un segno arbitrario. Non è così. Nel caso di queste costruzioni simboliche, il lato del significato e il la- to del significante sono infatti isomorfi – e dunque siamo nell’ambito dei segni a base analogica – perché anche il significato partecipa degli stessi tratti distintivi del corrispondente significante. L’esempio può renderlo, nel caso, piuttosto evidente: certo, a pensarci, la morte ci sembra davvero rientrare tra gli eventi definiti da “disgiunzione ecces- siva”, ma approfondendo la questione comprendiamo che si tratta di qualcosa di più profondo, e insieme più specifico a un universo cultu- rale. Capire che questi indigeni pensano alla vita come a un “tenere insieme le cose, mediare, collegare, non lasciare che si disfino o si di- sperdano” non è, infatti, per nulla banale. Inseguendo gli arabeschi di questi racconti, mettendo insieme le varianti, scoprendo le equivalenze e i parallelismi, ci rendiamo conto che questo gioco di connessioni è
concettualmente complesso e rilevante, disegnando quella che Lévi- Strauss chiama una “filosofia indigena”. Quanto poi al fatto che i mi- temi presentino così tante varianti, questo sembra rispondere all’esigenza, anch’essa per nulla banale, di ricoprire con la stessa or- ganizzazione logica, e di riempire con la stessa configurazione di sen- so, molte aree e molti aspetti della realtà in cui vivono i membri del gruppo. Offrire loro, diremmo, la sensazione di un mondo in cui tutto è ordinato da una logica coerente. Il sistema mitico pone tutto in paral- lelo, correla nella stessa forma simbolica i più diversi aspetti dell’esperienza: agisce, dice Lévi-Strauss, come una sorta di interco-
dice destinato a permettere una reciproca convertibilità tra i diversi li-
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Capitolo V