Segni e testi: una relazione dinamica
6.1. Il paradosso del sesto senso
Dato il comune riferimento ai “cinque sensi” s’intende che, parlan- do di un “sesto senso”, si fa riferimento a una qualche modalità sup- plementare di accesso alla conoscenza, una strada aggiuntiva, non cal- colata, forse in un certo senso non nostra. Ma Il Sesto Senso è innanzi tutto il titolo dell’ingegnoso film di M. Night Shyamalan (uscito nel 1999) che da alcuni anni uso quale esempio didattico per spiegare agli studenti alcune cose fondamentali, a partire dalla struttura base dei se- gni analogici, tema per cui questo film offre un esempio davvero per- fetto. Ma il “paradosso” emerge confrontando i primi secondi del film, ideali per spiegare i concetti base – che mostro agli studenti del primo anno – con l’apparentemente contraddittorio sviluppo della vicenda, su cui faccio riflettere gli studenti del corso avanzato, evidenziando appunto come la presentazione iniziale, in sé fin troppo lineare e con- cettualmente perfetta, di fatto ponesse un problema, in forma quasi di paradosso.
È davvero raro vedere un testo cinematografico aprirsi in modo co- sì lineare e dichiarare così apertamente il suo principale argomento come fa Il Sesto Senso. Chi lo ha visto almeno una volta, sa bene che questo film gioca con le reazioni e i malintesi dei suoi spettatori, muovendosi sul sottile confine tra quello che propriamente vediamo e quello che sappiamo, o crediamo di sapere. Nel suo insieme, può esse- re visto come un avvincente saggio sui modi in cui leggiamo l’esperienza. L’inizio del film fa senza dubbio parte di questo gioco, sia nell’elementare evidenza della simbologia impiegata, sia nella di-
mostrata diseducazione del pubblico a dare un senso a ciò che vede. Per quanto quasi nessuno vi faccia attenzione – almeno alla prima vi- sione di un testo cinematografico che richiederebbe in effetti di essere visto più volte – il film si apre con un’inquadratura insistita che, per diciotto lunghi secondi, ci mostra una lampadina a incandescenza che gradualmente si accende, passando così dal buio totale alla luce. Lo spettatore, anche non disattento, tende a prendere questa inquadratura come un modo un po’ ricercato di iniziare, e ne accoglie prontamente la successiva giustificazione diegetica: è la luce di una cantina dove Anna, la moglie del protagonista, è andata a prendere una bottiglia di vino, per celebrare un’occasione speciale.
Eppure, a una seconda visione del film, se invitiamo un comune spettatore a interpretare l’inquadratura iniziale, suggerendogli dunque che questa possa avere in sé un proprio specifico senso, possiamo os- servare che l’interpretazione risulta assolutamente (forse eccessiva- mente?) facile. La lampadina che si accende nel buio è in effetti rico- nosciuta come occorrenza particolare di un segno già noto: il mecca- nismo interpretativo può essere molto semplice, dato che tutti ab- biamo presenti casi di “lampadine che si accendono”, nel mondo dei fumetti o in quello del parlare comune, per non dire dei momenti in cui concretamente ci siamo trovati in uno spazio buio e abbiamo fat- to l’esperienza di passare dal buio alla luce. Non c’è dubbio: se gli spettatori possono assegnare un senso a quella lampadina che vedo- no ora accendersi sullo schermo, è perché hanno già in mente altre lampadine, reali o metaforiche, raccontate o disegnate, o incontrate nell’esperienza di vita. È dunque chiaro che, se quella specifica lam- padina è collocata dentro il film, non si tratta però che di un’occor- renza specifica del modello più generale, un type per dirla nei termi- ni di Peirce. Il type “luce che si accende nel buio”, con il suo signifi- cato culturalmente fissato di “processo che genera conoscenza in un campo che prima era oscuro” è presente nella cultura, e nel testo è semplicemente impiegato.
Il nostro modello del segno analogico può dunque essere perfetta- mente applicato a questo caso. Sul lato del significante, cioè della struttura espressiva “luce che si accende nel buio”, possiamo ovvia- mente immaginare tutta una gamma di variazioni possibili: in luogo di una lampadina a incandescenza, potremmo vedere accendersi le luci di un’auto, una torcia elettrica, o perché no i raggi di un sole nascente. Queste varianti potrebbero corrispondere a differenti realizzazioni
concrete, rappresentando modi equisimili per manifestare un signifi-
cante che permane costante. Il significante – lo ricordiamo ancora una
volta, perché questa concezione è molto lontana dall’uso corrente – non è ciò che lo spettatore fisicamente vede nel film, bensì il model- lo culturale cui egli riferisce ciò che vede per poterlo interpretare.
Che poi ci si trovi di fronte a un segno fondato su correlazione analo- gica è, credo, sufficientemente evidente: secondo le nostre consuete va- lenze simboliche, il buio è un analogo dell’ignoranza e dell’incapacità di comprendere, mentre l’accendersi della luce è facile metafora dell’aprirsi alla conoscenza. Tra il modello dell’esperienza visiva e la struttura con- cettuale c’è dunque una chiara relazione analogica: quella che tecnica-
e q u i s o m i g l i a n z a
e q u i s o m i g l i a n z a significato significante
Correlazione segnica
I tanti modi di pensare il processo che porta dall’ignoranza alla conoscenza…
… costituiscono insieme il significato: “Raggiungere la conoscenza in un campo che prima era oscuro”
Il significante /luce che si accende nel buio/ viene realizzato tramite…
… molti modi concreti di rappresentazione visiva, sentiti come simili tra loro
mente abbiamo chiamato rel-analogia, fondamento della connessione tra i due lati della struttura segnica. Collocata proprio in apertura del testo, questa inquadratura apre un film che ci parlerà, appunto, di come pos- siamo arrivare a comprendere cose che a tutta prima ci appaiono incom- prensibili. Come si vede, si tratta in prima battuta di un esempio davvero ideale per mostrare nella sua forma più cristallina come funzioni un se- gno analogico nel quadro della teoria “neoclassica”.
Il paradosso – apparente, come vedremo – consiste in questo: che tutto ciò che abbiamo detto fin qui corrisponde esattamente a ciò che il testo si impegna, di fatto, a negare. Il paradosso è già presente nella contraddizione tra l’evidenza della connessione simbolica e la sua ef- fettiva invisibilità: tutti sanno cosa significa la lampadina che si ac- cende nel buio, ma nessuno la interpreta quando se la trova di fronte, pur ben evidente. La struttura segnica sarà pure letteralmente lampan- te, ma vedere è tutt’altro che automatico e spontaneo: perché a monte del nostro sguardo stanno i dispositivi culturali che lo governano. «E questo è il guaio», immagino abbia pensato l’autore. D’altra parte, è indubbio che quando finalmente interpretiamo l’accendersi della lam- padina sullo schermo, se capiamo cosa possa voler dire è perché la ri-
conosciamo sulla base di un modello già noto. Di tale meccanismo, il
film ci fa fare in effetti diretta esperienza. Ecco allora il paradosso, e il senso dell’obiezione su cui il film è fondato: se la nostra possibilità d’interpretare è per definizione rinviata al riconoscimento di ciò che già ci era precedentemente noto – nei nostri termini, se non possiamo dare un senso al componente di un testo se non perché lo assegniamo a una classe precedentemente costituita – non c’è allora mai cono- scenza di qualcosa che sia propriamente nuovo, non c’è mai innova- zione, mai creazione di nuove strutture segniche? Sembrerebbe quasi di scoprirsi chiusi in una sorta di loop, in cui non potessimo far altro che ritrovare all’infinito quello che già conosciamo. E il film è costrui- to in effetti su una struttura di questo genere; mostra però tanto la na- tura perversa di questo loop, quanto la possibile via d’uscita.