«… perché la norma morale sia obbedita come deve esserlo, bisogna che ci sottoponiamo a essa non per scansarne un certo spiacevole risultato, un certo castigo materiale o morale, o per ottenere una certa ricompensa, ma semplicemente perché dobbiamo farlo, a prescindere dalle conseguenze che la nostra condotta può avere per noi»
Le informazioni, come i capitali e le merci, attraversano le frontiere. Ciò che era distante s’avvicina e il passato diventa presente. Lo sviluppo non è più la serie delle tappe attraverso le quali una società esce dal sottosviluppo, e la modernità non è più successiva alla tradizione; tutto si mescola; lo spazio e il tempo si comprimono. In vaste parti del mondo, i controlli sociali e culturali stabiliti da stati, chiese, famiglie o scuole s’indeboliscono, e il confine tra normale e patologico, permesso e proibito diventa indistinto. Non viviamo forse in una società mondializzata e globalizzata che pervade la vita pubblica e privata della maggior parte di noi. ma “si può vivere insieme? (Touraine, 1998). E’ ciò che infondo fanno miliardi di individui, dice Touraine, quando guardano programmi televisivi, bevono le stesse bibite, indossano abiti uguali e utilizzano la stessa lingua per comunicare da un Paese ad un altro. Si forma così un’opinione pubblica mondiale che discute nelle grandi assemblee internazionali: Rio de Janeiro, Pechino, occupandosi per i continenti dell’effetto serra o le possibili conseguenze degli esperimenti nucleari. Elementi di certo non sufficienti per poter dire che possa esistere una cultura comune poiché gli elementi globalizzati, che siano i beni di consumo, i mezzi di comunicazione, le tecnologie o i flussi finanziari, sono tutti slegati da organizzazioni sociali. La globalizzazione, come si è già detto, vuol dire che tecnologie, strumenti, messaggi, sono presenti ovunque come da nessuna parte. In una cultura di massa che permette di essere insieme solo quando compiamo gli stessi gesti o utilizziamo gli stessi oggetti (una comunicazione che avviene attraverso i segni della modernità). “Desocializzazione” di una cultura di massa per via della globalizzazione ma che allo stesso tempo spinge gli individui a difendere la propria identità nei gruppi primari o (ri)privatizzando in parte o del tutto la vita pubblica. “Non siamo più ciò che facciamo” appartenendo a società di massa nei flussi delle informazioni quanto alla propria comunità. Sottomettendoci alla cultura di massa che invade la vita privata. Un universalismo della ragione che incontra l’individualismo morale per una società liberamente organizzata dalla legge. “Una pretesa” morale che passa anche nelle economie e che per Dumont (1977) “è falsa” non essendo suo il merito per il raggiungimento del bene pubblico poiché proprio le norme morali hanno delle conseguenze sui comportamenti quando predispongono ad un’azione egoistica. Ciò vuol dire, riprendendo ancora il pensiero di Dumont (1977), che il raggiungimento del bene pubblico può avvenire solo nel momento in cui non vi è un’azione cosciente che spinge verso di esso, ovvero l’uomo “non sociale per natura” lavora per il bene pubblico proprio quando non persegue tale scopo. Nei fatti, invece, esiste “un’armonia degli interessi”. Così che il bene pubblico non è raggiunto sotto la pretesa morale e le norme morali non hanno conseguenze sui comportamenti se non dettate da un’azione egoistica. Non può esistere una morale se imposta dalla legge ad esempio. Nel mercato individui differenti condividono l’interesse comune allo scambio ed è proprio il mercato che dà loro l’opportunità di perseguirlo con successo ma, avverte Sen (1983), gli stessi individui hanno interessi contrastanti, conflitti che non è compito del mercato risolvere. Così che il “meccanismo del mercato”, nella lettura di Sen(1983), è pensato per sfruttare gli “interessi convergenti da parte degli individui egoisti”, ma non sono un “meccanismo di risoluzione armoniosa o equa del conflitto”. Così che è “solo nella misura in cui un certo tipo di ordine emerge come
risultato dell’azione dei singoli”, senza che nessuno lo abbia perseguito, “che si pone il problema di una loro spiegazione teorica” (von Hayek,1997, p.30). Si rendono interessanti dunque quelle azioni coscienti di una moltitudine di individui che danno luogo a risultati non prevedibili e previsti, azioni che avvengono al di fuori di qualunque “deliberazione programmatica” (von Hayek, 1997). Allora “perché dovrei essere morale? è la fine non l’inizio della moralità” (Bauman, 2003 ) in cui “l’io” morale interrogatorio viene privato della sua responsabilità, in tal caso la “società che si libera di tutte le pretese della propria funzione etica e cede tranquillamente la gestione dei rapporti umani alle forze di mercato”. Estremizzando il ragionamento Bauman (2003) sottende che non servono argomenti razionali non esistendo una “buona ragione” per cui essere morali in una società in cui conta l’utile mentre i poveri e gli inattivi, privi di scopo e di funzione, non possono contare su prove razionali del loro diritto alla felicità. Non sussiste nulla di “ragionevole” nell’assumersi la responsabilità, nel prendersi cura degli altri e nell’essere morali, in quanto “la morale non ha altro che se stessa per sorreggersi […] decisione di assumerci la responsabilità della nostra responsabilità, la decisione di misurare la qualità di una società sulla qualità dei suoi standard etici, che celebriamo oggi”, la moralità dunque riguarda la scelta (Bauman, 2003). Un farsi carico di un’identità riflessiva. Per fare ciò ci dice Edgar Morin il “nostro sistema di educazione dovrebbe essere riformato poiché è fondato sulla separazione – separazione dei saperi, delle discipline, delle scienze – e produce delle menti incapaci di legare le conoscenze, di riconoscere i problemi globali e fondamentali, di raccogliere le sfide della complessità” (2004). L’atto etico è un atto individuale, uno spirito o coscienza di un’unione partecipante. Al centro dell’esperienza che ha caratterizzato la fine del secolo scorso, vi è la “scissione fra estensione e anima” (riprendendo Cartesio), fra economie e culture, scambi e identità (Touraine, 1998, p. 35). Scissione che ancora il sociologo francese definisce “demodernizzazione” (in sostituzione di post modernità) che è data dalla rottura di legami che uniscono “libertà personale all’efficacia collettiva”. Le città, un tempo associate alla cittadinanza, si disgregano. Luogo di scambio, produzione e socializzazione, in cui coesisteva vita pubblica e privata, in cui il crollo delle mediazioni sociali e politiche fra attività economica e esperienze della cultura, indebolisce i controlli sociali con il rischio di disorganizzazioni. Ciò perché all’idea che aveva prevalso nelle società industriali, collante tra razionalizzazione economica e interventi politici-amministrativi, si è fatta strada una rottura “fra l’universo dei mercati e quello della vita civile” (Touraine, 1998). Una vita civile dunque che non ci sta più alle regole di un mercato che ha assoggettato la politica alle sue regole. Lì dove il campo di azione strategica è un insieme mutevole di possibili altrimenti ma anche di rischi. La diminuzione dell’apparato dello Stato e la riduzione degli interventi statali, la liberalizzazione degli scambi e delle condizioni di produzione ha dato vita ad un processo di “desocializzazione” e “spoliticizzazione”, indebolimento delle mediazioni politiche e di integrazione sociale. Una “liberazione del sistema economico dai vincoli di natura economica” (Touraine, 1998, p.38). Governare un Paese vuol dire rendere l’organizzazione economica e sociale compatibile con le esigenze del sistema economico internazionale, allo stesso modo le norme sociali si infiacchiscono e le istituzioni perdono il loro peso, lasciando sempre più spazio
alla vita privata ed alle organizzazioni volontarie. E’ dunque ancora possibile ragionare esclusivamente sulla cittadinanza e la democrazia rappresentativa lì dove i rappresentanti sottostanno al mercato mondiale e gli elettori guardano la propria vita privata? Siamo sì cittadini ma del mondo senza responsabilità, diritti o doveri e dall’altro difendiamo uno spazio privato sommerso “dai flutti della cultura mondiale” (Touraine, 1998). Mentre i media internazionali creano e amplificano i movimenti di opinione, allontanandosi da quelli sociali in cui, gruppi precostituiti che sono impegnati in conflitti diretti possono quantificare ricavi e perdite delle azioni collettive. Campagne di opinione che “eliminano qualsiasi riflessione sugli effetti o i significati propriamente politici dei fatti contro cui reagiscono” (ibidem). Ciò a dire che queste campagne si rivolgono a una società mondiale senza Stato, le cui istanze travalicano i contesti sociali e politici reali. Campagne che godendo di uno spazio pubblico globale, in cui è preponderante la presenza dei media, limita sensibilmente l’azione politica. In qualche modo leggendo oltre Touraine, si può dire con le parole di Beck che “più la modernizzazione delle società moderne avanza, più le basi della società si dissolvono, si consumano e sono minacciate” (Beck, Giddens, Lash, 1999, p. 176). In quella riflessività giunta senza saperlo che ha portato al superamento delle società industriali. Di qui per Touraine un probabile ritorno alla comunità, intesa come etnia, religione o fede, delle usanze, nel senso di comunità culturali. L’attore cessa di essere quel che fa per divenire quel che è. Tanto che essere un bravo cittadino, come lavoratore o padre non diviene più condizione sufficiente di moralità, affinché la società ben funzioni. Ogni individuo prende coscienza di se in quanto appartenente ad una tradizione ad una “memoria” nell’invalicabile molteplicità di attori sociali, un multiculturalismo che supera il modello culturale illuministico (o anche eurocentrico). Visibile già con le mobilitazioni politiche di un comunitarismo che rifiutava l’Altro, come è per i movimenti neocomunitari come quello islamico che impongono la propria ideologia in modo autoritario. L’accesso all’era postmoderna in cui erano evidenti fratture non solo a livello internazionale ma anche di ogni attore collettivo organizzato e di ogni individuo a cui si accompagna il declino delle istituzioni, ha precorso un ribaltamento nell’analisi sociologica “dal sistema all’attore”. Così che al “pessimismo culturale” del diciannovesimo secolo, nel nuovo millennio si prende atto di una perdita di riferimenti, di conflitti culturali e sociali. Inoltre la crisi del politico ha preso le forme di una crisi di rappresentatività, di fiducia accentuata lì dove i partiti si sono trasformati in imprese politiche il cui obiettivo diviene la gestione delle risorse “legali o illegali” per produrre eletti che possano essere comprati dagli elettori. Crisi a cui si lega dunque quella dello Stato-nazione. Ma l’idea di ridare forza alla cittadinanza, in cui ogni cittadino si sostiene identificandosi con la comunità di liberi cittadini, una morale civile, una società che si organizza a partire dai consumi, una resistenza alla perdita d’identità attraverso l’autostima, l’autoespressione, l’autonomia ci spinge ad una resistenza della disgregazione del mondo lì dove a perdere è il rinnovo di una società nazionale. Il “duplice disimpegno” del soggetto sia dai mercati e la chiusura comunitaria diviene “condizione necessaria affinché si stabilisca comunicazione fra Soggetto e Soggetto, comunità ideale di comunicazione” (Apel, 1992, p.28). Condizione necessaria affinché “i principi di giustizia, solidarietà e corresponsabilità, che consentono la
comunicazione e l’argomentazione, si trasformino in azioni, in aperture delle gerarchie comunitarie o limitazione della forza. […]. Il soggetto esiste dando battaglia, indignandosi, non stancandosi di sperare e calando la propria libertà personale in un contesto di conflitti sociali e liberazioni culturali”. (Touraine, 1998, p.69-70). O come dice Giddens “la capacità dell’individuo di conservare il filo della propria narrazione individuale, di concepire la propria biografia nella continuità della propria esperienza” (1994). In una realtà in cui, ripensando alla teoria della socializzazione di Jürgen Habermas, coesistono in sé oggetti e attori con un’identità oggettiva che si costruisce, a prescindere dall’esistenza soggettiva di ciascuno e che per questo esistono perché entrano in relazione al di là del tempo e dello spazio dell’attore sociale. La realtà è data dunque da una rete di relazioni a più dimensioni in cui esistono relazioni tra oggetti (ecosistema) e attori/soggetti (ecosistema sociale).