2.2 La doppia imposizione come fenomeno patologico nell’ordinamento
2.2.2 La direttiva madre-figlia
2.2.2.2 Problemi e prospettive
Tentando un giudizio generale sui risultati ottenuti nei due decenni di operatività della Direttiva con riferimento al suo obiettivo, ora esplicito, di eliminazione della doppia imposizione sui dividendi intracomunitari, è ancora attuale l’opinione espressa dalla Commissione già nel 2001, che constatava come l’imposizione sui dividendi nel panorama europeo non fosse ancora completamente in linea con le esigenze del mercato interno, per la persistenza di chiari esempi di duplice imposizione sia economica che giuridica, tanto al livello delle società quanto dei privati azionisti. Non bisogna dimenticare, infatti, che la Direttiva non si applica mai alle distribuzioni di dividendi effettuate nei confronti di persone fisiche, e comunque alle partecipazioni di portafoglio inferiori alla soglia del 10% prima citata124.
La portata della Direttiva è ancora troppo limitata, non coprendo tutti i tipi di società e tutte le fattispecie possibili: in particolare, mantenere il requisito della forma
122 V. il considerando n. 8 e i nuovi artt. 1.1 e 2.2, dove di stabile organizzazione viene anche fornita la
definizione.
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Nella vigenza del testo originario della Direttiva, l’obiettivo di eliminazione della doppia imposizione in questo casi non veniva raggiunto: si pensi alle ipotesi in cui una controllata controllava a sua volta una terza società (sub-controllata). Ai sensi della Direttiva, infatti, la prima società madre riceveva un credito limitato all’imposta pagata dalla sua diretta controllata e non comprensivo anche dell’imposta pagata dalla sub-controllata.
124 SEC (2001) 1681, p. 248. La persistenza di questo giudizio della Commissione è confermata, da
ultimo, da iniziative come la public consultation sulla tassazione dei dividendi indetta nel gennaio 2011 (su cui, v. infra par. 2.4.4.1).
giuridica richiede un aggiornamento continuo dell’elenco allegato alla Direttiva e lascia persistere i problemi legati alle differenze tra i diritti commerciali nazionali, in un approccio più formale che sostanziale125. Sorgono inoltre perplessità alla luce degli elevati costi di conformità necessari per ottenere, ove possibile, sollievo dalla doppia imposizione, avallando la conclusione della Commissione per cui «economic decisions
such as mergers or investments are distorted and efficiency at the EU level is therefore potentially reduced».
Non è stata del tutto pacifica, del resto, nemmeno la fase di attuazione della Direttiva madre-figlia nei singoli ordinamenti nazionali, essendosi presentati casi di normative interne con profili di dubbia compatibilità con il disposto della Direttiva. In particolare, ciò si è verificato quando le norme interne si appellavano alla clausola “anti-abuso”, non sempre interpretata in modo coerente. Alcune legislazioni nazionali, ad esempio, subordinavano l’applicabilità della Direttiva al realizzarsi di condizioni non previste dal testo comunitario, come la detenzione del capitale sociale da parte di soli soggetti residenti nella Comunità. La sola qualità di soggetto non comunitario veniva posta cioè a fondamento di una presunzione di evasione/elusione fiscale, permettendo l’applicazione della Direttiva soltanto ove fosse fornita la prova contraria. È evidente che l’esistenza di una siffatta restrizione riduceva arbitrariamente il naturale campo di applicazione previsto per la Direttiva. Si capisce però molto bene il perché di questi inconvenienti e delle conseguenti disparità tra i regimi di attuazione nei diversi Stati membri, ove si mettano a confronto le diverse versioni linguistiche del provvedimento, che rivelano forti divergenze sul significato attribuito al concetto di «frodi e abusi».
Quest’ultimo esempio rende palese il fatto che un testo formulato in modo così “essenziale” ha lasciato ampia discrezionalità agli Stati e perciò continua a richiedere necessariamente un grande lavoro in via interpretativa. Proprio per questo motivo un ruolo importante è stato giocato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia relativa a cause in cui veniva in questione l’applicazione della Direttiva.
Le pronunce rese in materia hanno infatti interpretato il significato di molte espressioni della Direttiva, quali l’art. 3.2 (nella parte in cui attribuisce agli Stati la facoltà di stabilire un periodo minimo di detenzione ininterrotta della partecipazione ai fini dell’applicazione della Direttiva)126, la nozione di ‘ritenuta alla fonte’127 o di
125 V. Bulgarelli, F., op. cit., p. 154 e ss. 126
‘distribuzione di utili’128, volutamente più generica rispetto a quella di ‘distribuzione di dividendi’, ovvero ancora la stessa portata del concetto di esenzione129. Questo contributo giurisprudenziale è stato importante anche per giungere ad un’interpretazione restrittiva della citata clausola “anti-abuso” e chiarire così che gli Stati non possono invocarla per negare senza altre giustificazioni la concessione del regime favorevole previsto dalla Direttiva130. Ancora di più, le deroghe a tale regime devono essere valutate con particolare rigore quando vanno a interferire con le libertà fondamentali sancite dal Trattato della Comunità.
Sono state rilevate anche altre incongruenze: ad esempio, è ritenuta ormai inadeguata, e potenzialmente dannosa per il buon funzionamento del mercato, la coesistenza di due metodi per eliminare la doppia imposizione, tenuto conto del fatto che sono oggi pochissimi gli Stati che continuano a utilizzare il metodo più complesso dell’imputazione.
Inoltre, proprio perché il regime di esenzione dei dividendi infragruppo è divenuto pressoché la regola nella maggior parte degli ordinamenti, l’impianto complessivo della Direttiva può dirsi addirittura superato (sul punto v. infra cap. III).
Un altro punto critico, che alla luce dell’evoluzione complessiva del sistema rende ormai anacronistica e parziale la soluzione offerta dalla Direttiva al problema della doppia imposizione societaria, sta nel fatto che essa per definizione esclude dalla platea dei destinatari le società che effettuano investimenti di portafoglio e tutte, senza eccezione, le persone fisiche. Se è vero infatti che oggi, a seguito delle modifiche
127 Corte di Giustizia, 6 giugno 2000, causa C-375/98, Epson Europe, dove, al punto 23, si dà la
definizione per cui la ritenuta è «un’imposta alla fonte il cui presupposto è il versamento di dividendi o di qualsiasi altro rendimento dei titoli, che la base imponibile di tale imposta è il rendimento degli stessi e che il soggetto passivo è il loro detentore», a nulla rilevando la denominazione di diritto interno, ma solo gli effetti sostanziali del tributo. Si rimanda anche a Corte di Giustizia, 4 ottobre 2001, causa C-294/99,
Athinaiki Zythopoiia AE, che giunge ad analoghe conclusioni: «Si configura una ritenuta alla fonte, ai
sensi dell’art. 5 n.1 della Direttiva 90/435/CEE, qualora una disposizione di legge nazionale preveda, in caso di distribuzione di utili da parte di una consociata alla società capogruppo straniera, che, per determinare il reddito imponibile della consociata, debbano essere reincorporati nella base imponibile gli utili netti complessivi realizzati da quest'ultima, compresi i redditi assoggettati ad imposizione speciale comportante estinzione del debito fiscale nonché i redditi non imponibili, mentre i redditi rientranti in tali due categorie non sarebbero imponibili, in base alla legge nazionale, se fossero rimasti presso la consociata e non fossero stati distribuiti alla capogruppo». In questo caso, ad essere lesa è la stessa libertà di stabilimento delle società, le quali non devono essere scoraggiate nella loro scelta di investire in società residenti in altri Stati da oneri fiscali aggiuntivi sui dividendi di origine estera.
128 V. Conclusioni dell’AG Mischo nella causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst GmbH, che suggerisce di
estendere la nozione di ‘distribuzione di utili’ fino a ricomprendervi le c.d. distribuzioni di utili dissimulate, quali il pagamento di interessi alla società madre, così da considerare come ritenute alla fonte le forme di imposizione aggiuntiva su tali somme.
129 V. Corte di Giustizia del 12 febbraio 2009, causa C-138/07, Cobelfret. 130
intervenute, è possibile rinvenire lo scopo di questa disciplina nella tutela della libertà di stabilimento delle società, lesa dai fenomeni di doppia imposizione giuridica ed economica, è lecito tuttavia dubitare dell’opportunità della mancata estensione della stessa tutela anche alle fattispecie di esercizio della libertà di circolazione dei capitali. La risposta ad un simile interrogativo peraltro si prospetta complessa, perché presuppone il riconoscimento di una gerarchia tra i principi di libertà stabiliti dal Trattato (v. infra par. 2.3.2.1).