IV: Un discorso universalistico sensibile alle differenze: il caso delle mutilazioni genitali femminili.
IV.I Sulla corporeità.
IV.9 Rispettare le persone e criticare la tradizione.
Il riconoscimento della diversità culturale non è un valore in sé, lo è se favorisce la libertà culturale. Con questa affermazione Amartya Sen chiarisce la sua posizione
circa la complessità identitaria e il pluralismo culturale, senza esimersi dal difficile compito di dare risposte a conflitti annosi e paradossali. L’autore prende ad esempio il conflitto tra hutu e tutsi. “Quando, un decennio fa, i fomentatori degli hutu cercarono (e per alcuni versi riuscirono) di convincere gli altri membri della comunità hutu in Ruanda che essi potevano facilmente constatare di essere indiscutibilmente hutu (da non confondere con «quegli spaventosi tutsi»), l’irragionevole carneficina che seguì avrebbe potuto essere evitata se solo si fosse fatto appello alle identità più ampie degli hutu, che essi possiedono in qualità, per esempio, di ruandesi, o di africani o persino in un contesto più generale di esseri umani. Considerare l’identità semplicemente come una questione di scoperta non può essere soltanto una confusione concettuale. Avendo in mente gli esseri umani quest’attitudine può anche portare a un abbandono ingiustificato di un compito, il compito morale di esaminare in che modo essi vorrebbero vedere se stessi e con chi vorrebbero identificarsi (se solamente con la comunità degli hutu, oppure anche con la nazione dei ruandesi, la categoria degli africani, o la collettività degli esseri umani)”.430
Considerare l’appartenenza identitaria come una dimensione delle molteplici affiliazioni plurali di cui ogni individuo sarebbe capace, significa innanzitutto
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attivare la capacità di provare empatia verso gli altri. “Quando il disastro ha colpito il Ruanda, non abbiamo esteso il nostro interesse in maniera analoga, perlomeno non stabilmente, poiché non esisteva una base precedente per esso: la sofferenza dei ruandesi non poteva essere considerata come una parte di un «noi» più ampio il cui destino ci faceva trepidare. Storie dalle forti tinte possono creare un senso di comunanza temporaneo, ma è improbabile che sostengano l’interesse a lungo, se non c’è una struttura di interazione che possa fare del senso di un «noi» una parte effettiva delle nostre esistenze quotidiane”.431
La Nussbaum sostiene che, in contesti tradizionali problematici dove l’appartenenza identitaria sembra essere un vincolo ed un impegno inderogabile, si verificano casi di ingiustizia sociale di cui le donne sono solitamente consenzienti e protagoniste. La categoria identitaria centrale è dunque quella di tradizione, infatti il diverso rapporto con la tradizione permetterebbe di sostenere la tesi, più volte espressa dai teorici del CA, secondo cui rispettare le persone significhi criticare la tradizione che le opprime, che tratta con disprezzo le donne o altri gruppi e nega loro i diritti civili e politici.432
Tale convinzione ha consentito al gruppo di ricerca di AIDOS, di individuare tre tipologie ben distinte di donne, caratterizzate da atteggiamenti diversi verso le mgf come cifra di un’appartenenza tradizionale. Le prime sono le tradizionali, donne per lo più analfabete o comunque dipendenti dall’ambiente di vita e dal marito nell’organizzazione della quotidianità. La loro appartenenza al gruppo è vissuta come assimilazione culturale che nullifica la spinta verso l’indipendenza e l’autorealizzazione. Queste donne riconoscono e mantengono acriticamente i modelli tradizionali, senza mettere in discussione i costumi e i valori della cultura dalla quale provengono. Esse si trovano a vivere in una società alla quale non sembrano in nessun modo appartenere e rispetto alla quale manifestano disorientamento ed estraneità. Per loro le mgf costituiscono una componente organica della tradizione, da accettare come un fatto naturale nella vita di una donna. Le seconde sono le
emancipate, che presentano un maggiore livello di autonomia e sono caratterizzate
da una qualche spinta verso l’autodeterminazione, che si realizza anche nella disponibilità a rifiutare alcuni tratti tradizionali, come le mgf, vissuti come limitazioni o menomazioni della propria individualità, che percepiscono come
431 M.C. Nussbaum, Compassione e terrore, cit., p. 31.
432 Cfr. M.C. Nussbaum. Sex and social justice, cit., pp. 90-93. Si veda anche L. Battaglia, Un
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rischio di una menomazione vera e propria. Non sono infatti peregrine le interviste a donne che manifestano una posizione critica verso la pratica in quanto espressione negativa della tradizione, richiamandosi alle testimonianze culturali meno radicali che dimostrano l’infondatezza religiosa della pratica e la contraddittorietà dei motivi posti alla base della sua giustificazione: il contenimento della sessualità femminile, la promozione della capacità procreativa, motivi che vengono comunemente confutati a livello empirico e scientifico che rendono urgente e ragionevole una consapevole comprensione del fenomeno. Il rispetto della tradizione, affermano alcune donne intervistate, deve essere accompagnato dalla consapevolezza che questa possa servire e non nuocere. Diversamente se arreca danno, questa deve essere allontanata o modificata.433 Le terze sono le tradizionaliste, sono donne che condividono con le
emancipate la spinta all’autodeterminazione ma, al contrario delle seconde, vedono
nella tradizione e nel mantenimento della cultura etnica una fonte importante di dignità, una chiave per entrare nella società di immigrazione, vissuta in modo critico, senza perdere la propria identità.
La dimensione tradizionale ha un’incidenza notevole rispetto alla decisione riferita alla pratica di mgf, ed in particolare sul livello di istruzione e sulla capacità di relazione. Si registra che tra le così dette donne tradizionali, tra le quali prevale un livello di scolarizzazione molto basso o addirittura una condizione di analfabetismo, ci sia un generale accordo sull’idea che le decisioni in famiglia sono e vanno prese dal marito, in alcuni casi emerge l’idea di una identità che partecipa di quella occidentale, condizione di superamento dello stato di emarginazione, ma che appartiene allo stesso tempo alla cultura di origine. Le donne che assumono una condotta di tipo tradizionale sono solitamente ancorate al proprio gruppo di appartenenza, come fosse una vera gabbia identitaria.
In questa prospettiva, il fenomeno migratorio potrebbe costituire una proficua occasione per avviare un processo di critica alla pratica che abbia rilevanti effetti anche nei paesi di origine delle donne. Se per libertà individuale si intende la possibilità di scegliere tra più alternative, bisogna allora chiedersi quale sia lo spazio entro il quale gli individui compiono le loro scelte. La vita di ogni individuo si
433Cfr intervista rivolta a due donne burkinabè che avevano partecipato alla campagna di
sensibilizzazione nel loro villaggio; intervista n. 20 in D. Carillo – N. Pasini (a cura di), Migrazioni Generi Famiglia. Pratiche di escissione e dinamiche di cambiamento in alcuni contesti regionali, cit., pp. 146-148. Sulle differenze nell’interpretare l’identità tradizionale si veda Rapporto finale del progetto Mutilazioni dei genitali femminili e diritti umani nelle comunità migranti, Roma, Aidos, 2009, pp. 28-33
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svolge, infatti, all’interno di quella che viene indicata come cultura sociale ovvero come il luogo in cui si compie la libertà individuale. “Da una parte vi è l’idea che la cultura, intesa come un insieme di pratiche, usi, convenzioni e stili di vita, rappresenti il contesto necessario (e imprescindibile) per compiere scelte costitutive del benessere individuale, dato che ogni decisione significativa viene compiuta sullo sfondo di significati sociali condivisi, dall’altra vi è una concezione che tende a superare il pluralismo contestuale delle diverse concezioni sostanziali della vita buona in nome della superiorità metodologica dell’idea di giustizia, in quanto, oltre che come espressione particolare di una forma di vita, i diritti soggettivi vengono strutturalmente concepiti come la realizzazione universalistica di un sistema di diritti capace di conferire realtà positiva a quella morale-di-ragione che sta alla base della teoria dei diritti umani”.434
Nell’attuale società globale bisogna dunque assumere il coraggio di ripensare criticamente il significato della tradizione, riscoprendo nella cultura un carattere dinamico, plurale, che può assumere una dimensione di discontinuità. Uno degli argomenti che hanno maggiore presa nella difesa della pratica è quello che pone l’accento sulla continuità cultuale di una consuetudine, ciò costituisce uno dei motivi per cui personaggi autorevoli come Yomo Keniatta, per molti anni presidente del Kenya, fosse dell’idea di favorire cambiamenti graduali e di rispettare una consuetudine tradizionale come la pratica infibulatoria che descriveva aspetti centrali dell’educazione dei giovani appartenenti alla tribù keniota dei Gikuya, ai quali veniva inculcato prevalentemente una condotta sociale caratterizzata da obblighi e doveri, espressione di una cultura che presentava elementi di obbligazione e di una prevalente propensione per leggi e tradizioni culturali duty-oriented rather than
right-oriented.435
In particolare Keniatta aveva testimoniato la presenza di una forte ingerenza della famiglia nell’indirizzare le scelte e nel soddisfare desideri e progetti dei giovani che sentivano fortemente l’appartenenza familiare. Così ogni evento importante della vita, pretende la centralità dell’autorità della famiglia sulla scelta individuale. L’appartenenza identitaria che la pratica sancisce diventa per i membri della comunità un costume da proteggere e l’occasione per mettere in campo meccanismi
434E. Greblo, Dai diritti alle capacità. L’universalismo contestuale di Martha Nussbaum, cit., p. 251. 435 K. Klare, Legal Theory and democratic reconstruction, in H. J. Steiner-P. Alston, International
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di solidarietà prodigando ogni sforzo verso la possibilità che le bambine siano, attraverso la pratica, riconosciute e rispettate.436