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La sentenza della Corte di Giustizia europea C-619/18 del 24 giugno 2019

attesa sentenza relativa al ricorso presentato il 2 ottobre 2018 dalla Commissione europea ai sensi dell'art. 258 TFUE e concernente la presunta violazione da parte della legge polacca sulla Corte suprema dell'8 dicembre 2017 del principio di inamovibilità dei giudici nella parte relativa all’abbassamento dell’età pensionabile dei giudici con effetto retroattivo e del principio di indipendenza di quest'ultimi nella parte in cui conferiva al Presidente della Repubblica di Polonia il potere discrezionale di prorogare il servizio dei giudici. La sentenza poneva una pietra fondamentale nel percorso verso l'affermazione di una tutela significativa della Rule of law.

Il ricorso per inadempimento aveva dato avvio alla causa C-619/18 ed era stato utilizzato dalla Commissione come uno “strumento parallelo”134 rispetto alla procedura

di cui all'art. 7 c.1 TUE già attivata il 20 dicembre 2017. Esso aveva comportato nell'immediato, il 21 ottobre 2018 l'emissione di un'ordinanza cautelare di sospensione dell’applicazione di alcune disposizioni di legge relative all’organizzazione del giudiziario e in particolare della Corte suprema in attesa del giudizio definitivo. La Polonia doveva, quindi, consentire ai giudici della Corte suprema di continuare ad esercitare le proprie funzioni, di astenersi dall’immissione di nuovi giudici (compresa la nomina di un nuovo Presidente) in sostituzione di quelli sottoposti dalla legge contestata

134. M. Aranci, La procedura di infrazione come strumento di tutela dei valori fondamentali dell'Unione europea. Note a margine della sentenza della Corte di Giustizia nella causa Commissione/Polonia, cit., p. 49.

al pensionamento.

In data 11 aprile 2019 l’Avvocato generale Evgeni Tanchev presentava le conclusioni della sentenza basandosi su quattro punti fondamentali135:

1) la ricevibilità del ricorso;

2) il rapporto tra gli artt. 258 TFUE e 7 TUE;

3) gli ambiti di applicazione degli artt. 19 TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CdfUE);

4) il merito del ricorso.

È bene precisare che le conclusioni dell' Avvocato generale non vincolavano la Corte di giustizia. Il compito degli avvocati generali è proprio quello di proporre alla Corte, in completa indipendenza, una soluzione giuridica ai casi di cui sono responsabili, dalla quale la Corte si poteva sempre discostare.

In merito alla ricevibilità del ricorso della Commissione e all'adozione della legge che aveva temporaneamente bloccato l'efficacia della legge sulla Corte suprema polacca la Corte affermava che quando uno Stato membro cessava il proprio inadempimento durante lo svolgimento della causa, si procedeva comunque a pronunciare la sentenza dichiarativa ai fini dell’affermazione della responsabilità dello Stato membro nei confronti dei soggetti lesi dall’inadempimento stesso. L’irricevibilità del ricorso doveva essere dichiarata soltanto nel caso in cui lo Stato membro avesse adempiuto entro il termine fissato nel parere motivato da parte della Commissione. La suddetta condizione non era presente nel caso polacco, in quanto la legge del dicembre del 2018 era successiva all’attivazione della fase giudiziale.

Il secondo punto riguardava il rapporto tra le due procedure dell’art. 7 TUE e dell’art. 258 TFUE. La convenuta Polonia aveva richiamato un orientamento basato sul principio lex specialis derogat generali, in dottrina minoritario, secondo il quale il ricorso all’art. 7 TUE avrebbe escluso l'attivazione dell'art. 258 TFUE e quindi il ricorso per inadempimento. La Polonia non poteva essere chiamata a rispondere due volte in procedure diverse per una violazione di un obbligo derivante dall’UE.

L’Avvocato generale Evgeni Tanchev concordava, invece con la dottrina prevalente in base alla quale le due procedure, la prima uno strumento politico e la seconda un meccanismo giuridico, correvano parallele. Anche le finalità erano differenti: la prima cercava di prevenire una possibile grave violazione di uno dei valori enunciati dall’art. 2

135. Per approfondimenti sulla sentenza C-619/18 si veda M. Aranci, La procedura di infrazione come strumento di tutela dei valori fondamentali dell'Unione europea. Note a margine della sentenza della Corte di Giustizia nella causa Commissione/Polonia, ivi, pp. 53-63.

TUE, la seconda permetteva alla Commissione di promuovere un ricorso per inadempimento laddove uno Stato membro venisse meno ad uno degli obblighi derivanti dai trattati. Nei rapporti tra le due procedure era evidente che la fragilità degli strumenti previsti per la tutela dei valori fondamentali rendeva necessario un ricorso per inadempimento che seppur dotato di minore ampiezza, era certamente più effettivo ed incisivo.

Il terzo punto concerneva l’ambito di applicazione degli artt. 19 par.1 TUE e 47 CdfUE. Secondo l'Avvocato generale le due disposizioni pur concorrendo nell'offrire una garanzia di effettività della tutela giurisdizionale tuttavia l’art. 47 CdfUE incontrava il limite applicativo tracciato dall’art. 51 della Carta stessa136. L’art. 19 TUE, invece non

era sottoposto al limite suddetto e vietava agli Stati membri l’adozione di misure nazionali che pregiudicassero l’indipendenza dei giudici.

Nel caso di specie ossia di un ricorso per inadempimento era necessario verificare se in base alle violazioni presunte dello Stato membro fosse possibile affermare l’applicabilità di entrambe le disposizioni. Per quel che riguarda l’art. 19 TUE il ricorso era da considerarsi ricevibile, in quanto tale disposizione imponeva opportune garanzie di indipendenza ad ogni organo giurisdizionale che potesse applicare od interpretare il diritto dell’Unione europea. Per quanto riguardava, invece, l'art. 47 CdfUE le disposizioni della Carta erano soggette al limite di cui all'art. 51 e si applicavano agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. Di conseguenza, non si poteva considerare ricevibile il ricorso con riferimento a suddetta norma, in quanto la Carta risultava vincolante per gli Stati membri soltanto laddove risultasse applicabile una disposizione primaria o secondaria dell’Unione. La Commissione non aveva indicato in che misura le disposizioni di legge polacche si collocassero nell'ambito di applicazione della Carta e neanche quale fossero le disposizioni del diritto dell'Unione a disciplina della materia. Il ricorso non era dunque ricevibile per la parte concernente l’art. 47 CdfUE.

Entrando nel merito, l’Avvocato generale riteneva fondate entrambe le censure mosse dalla Commissione allo Stato polacco ossia la violazione dei principi di inamovibilità del giudice e di indipendenza della magistratura dalle ingerenze politiche. L'indipendenza doveva essere assicurata dalla continuità del mandato fino al 136. «1.Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze.

2. La presente Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati».

pensionamento senza interventi retroattivi. Il rinnovo quasi integrale della Corte suprema in tempi brevi aveva prodotto un diffuso sentimento di sfiducia ed incertezza da parte della cittadinanza. Il potere discrezionale di decidere sulla proroga delle funzioni dei magistrati che la riforma attribuiva al Presidente della Repubblica costituiva uno strumento invasivo che poteva limitare o compromettere l'indipendenza e l'imparzialità dei magistrati stessi. Tale affermazione era supportata dal fatto che l’eventuale diniego di proroga presentata dall'interessato non poteva essere oggetto di revisione giurisdizionale in quanto sottratta ad ogni forma di sindacato.

L’Avvocato generale concludeva richiedendo che fosse accertata la violazione da parte della Polonia degli obblighi derivanti dall’art. 19 par.1 c. 2 TUE.

Nella sentenza del 24 giugno 2019 la Corte di Giustizia europea effettuava un'analisi preliminare confermando l’inquadramento dell’art. 19 par.1 c.2 TUE nel complesso dei valori fondamentali sanciti dall’art. 2 TUE e ricordava che l’adesione all’Unione europea era espressione della volontà libera degli Stati europei di condividere, rispettare, promuovere i valori dell’art. 2 TUE. La condivisione dei valori garantiva l’esistenza di una fiducia reciproca tra gli ordinamenti e, nello specifico, delle rispettive giurisdizioni.

Il bisogno di assicurare tutele concrete dinanzi ad un giudice nazionale, che era anche giudice del diritto dell’Unione europea non necessitava di un'estensione delle competenze riconosciute all’Unione e neanche di un’intervento della stessa nell’organizzazione e nella disciplina dell’ordinamento giudiziario. Necessitava solamente del rispetto di un requisito indefettibile: la propria indipendenza, in quanto non poteva esservi giusto processo senza le opportune garanzie di impermeabilità rispetto agli altri poteri dello Stato. Considerato che la Corte suprema polacca rientrava nel novero degli organi giurisdizionali ai quali competeva l’interpretazione, l’applicazione del diritto Ue e i rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia europea, lo Stato membro polacco doveva provvedere a garantire l’indipendenza dei propri magistrati ai sensi dell'art. 19 TUE. Diversamente, sarebbero stati violati sia i diritti dei cittadini sottoposti a procedimenti giurisdizionali, sia il valore dello Stato di diritto.

La sentenza si concentrava poi sulla valutazione dei due inadempimenti contestati. La prima censura riguardava il principio di inamovibilità dei giudici e l’indipendenza della magistratura. La disciplina in materia di determinazione della durata dell’incarico dei magistrati e del pensionamento degli stessi doveva essere determinata con modalità chiare e durature. D'altro canto, non consentire ai giudici una stabilità significava

esporli ai rischi di condizionamenti inaccettabili e alla tentazione di orientare le proprie decisioni ai fini della conservazione dell'incarico. Il principio di inamovibilità non aveva carattere assoluto, ma poteva ammettere deroghe nel rispetto della proporzionalità degli interventi normativi. L'abbassamento dell'età pensionabile era legittimo se orientato a favorire l’accesso dei soggetti più giovani o ad uniformare i trattamenti rispetto ad altri settori del pubblico impiego. Nel caso di specie, la Polonia aveva giustificato i propri interventi normativi alla luce dei suddetti requisiti, tuttavia secondo la Corte essi erano stati utilizzati per operare un vero e proprio intervento politico nella composizione della Corte suprema.

La sentenza adottò tre argomentazioni per smentire la difesa polacca.

La prima osservava che se lo scopo della riforma era davvero quello di favorire l’accesso ai giovani e di allineare l’età del pensionamento con gli altri settori, questo non poteva realizzarsi con gli strumenti adottati. La normativa infatti prevedeva la possibilità di proroga per tre anni rinnovabile per altri tre che se accettata avrebbe prodotto l'effetto opposto cioè di vanificare l'abbassamento voluto di cinque anni dell'età di pensionamento. Il presunto allineamento ad altri settori del pubblico impiego non si sarebbe comunque realizzato in quanto in molti settori era prevista la facoltà ma non l’obbligo di ritirarsi dall’attività lavorativa a sessantacinque anni. Appunto si trattava di una facoltà e non di una scelta imposta, come quella dei magistrati della Corte suprema.

La seconda argomentazione riguardava l’impatto che la riforma aveva avuto sull’organico della Corte suprema. Ben ventisette giudici su settantadue (circa il 37,5%) erano stati interessati dalla controversa riforma e questo suscitava dubbi «in quanto al vero carattere di una simile riforma e quanto alle finalità effettivamente perseguite con la medesima137». Si evidenziava un difetto di proporzionalità dell’intervento normativo

in esame per l'assenza di disposizioni transitorie. Senza un regime graduale di adattamento alla nuova disciplina veniva violato il legittimo affidamento che i giudici potevano riporre nella garanzia della durata del proprio incarico.

La terza argomentazione sottolineava come la riforma non fosse dettata da alcuna esigenza imperativa ed era priva di portata generale, in quanto volta soltanto ad ottenere una nuova composizione dei magistrati della suprema giurisdizione.

La Corte di Giustizia riteneva quindi che la legge polacca avesse violato il principio di inamovibilità del giudice e, quindi, indebolito l’indipendenza della magistratura, in 137. Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 24 giugno 2019 Commissione europea contro Repubblica di Polonia Causa C-619/18, in www.curia.europa.ue, punto 86.

violazione dell’art. 19 TUE.

Il secondo inadempimento contestato alla Polonia riguardava, invece, le modalità di proroga dei giudici interessati dalla riforma, sottoposta ad una decisione discrezionale del Presidente della Repubblica, previo parere favorevole del Consiglio nazionale della magistratura. Non è di per sé incompatibile con il principio di indipendenza la possibilità di prevedere dei meccanismi di proroga, cui gli Stati membri potevano liberamente ricorrere ma era determinante verificare le procedure con cui le richieste venivano vagliate. Se la proroga dipendeva da un organo politico era facile comprendere che l'interessato potesse orientare la propria attività in maniera più favorevole all'organo in questione.

A giudizio della Corte, nel caso polacco, non era possibile considerare legittimo il modello adottato con la riforma per una duplice motivazione. In primo luogo, la decisione del Presidente della Repubblica era svincolata da qualsiasi criterio oggettivo e, soprattutto, non era soggetta a ricorso giurisdizionale. Questo accentuava il carattere arbitrario e prettamente politico della scelta da parte del Capo dello Stato. In secondo luogo, il parere del Consiglio nazionale della magistratura che teoricamente avrebbe dovuto rendere più obiettiva la procedura in realtà si traduceva in una pronuncia carente di motivazioni e caratterizzata da richiami formali alle norme di legge. Le giustificazioni addotte dalla Polonia, che aveva sottolineato un'analogia tra il procedimento di proroga previsto nel proprio ordinamento e il rinnovo del mandato dei giudici presso la Corte di giustizia dell’Unione europea, nel caso in cui si rivelassero fondate non legittimavano comunque la violazione delle disposizioni di legge da essa compiuta138. Inoltre, le situazioni erano tra loro difficilmente comparabili, sia per la

natura dell’incarico ricoperto sia per la chiara predeterminazione della durata del mandato di sei anni dei giudici della Corte di Giustizia. Alla luce delle considerazioni esposte, perciò, la Polonia è stata ritenuta inadempiente anche rispetto al secondo motivo di ricorso da parte della Commissione.

In conclusione, la sentenza confermava la violazione degli obblighi di cui all'art.19 par.1 c.2 TUE da parte della Polonia nella misura in cui aveva previsto l'abbassamento dell'età di pensionamento dei giudici in carica della Corte suprema e nominati prima del 3 aprile 2018 e attribuiva al Presidente della Repubblica il potere discrezionale di prorogare la funzione giudiziaria dei giudici di tale organo oltre l’età di pensionamento

138. Sulla nomina dei giudici alla Corte di giustizia, si veda F. Battaglia, Il sistema di selezione dei membri della Corte di giustizia dell’Unione europea fra valutazioni di merito e problemi di trasparenza, online in Eurojus, 24 aprile 2019.

di nuova fissazione.

La mancata esecuzione della sentenza avrebbe comportato un'ulteriore condanna di tipo pecuniario e, per certi versi, ancora più incisiva ai sensi dell'art. 260 TFUE139.

6.5 La sentenza della Corte di Giustizia europea C-192/18 del 5 novembre 2019

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