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L'audacia di Giacomo Borro, «Capitano de corsari», e il nuovo regolamento della

Capitolo III – La guerra di corsa nel Mar Ligure e nell'Alto Tirreno: l'attività dei corsar

IV.3 Il ritorno degli Austrias: una nuova stagione corsara per i patroni finalini

IV.3.5 L'audacia di Giacomo Borro, «Capitano de corsari», e il nuovo regolamento della

Sorte ben diversa rispetto a quella di Domenico Ferro ebbe, invece, Giacomo Borro colui che nel 1707 aveva incoraggiato la preda di cui si è appena trattato: nel 1709 si trovava imbarcato a bordo del legno corsaro di Pietro Saccone ed era responsabile delle perquisizioni sui bastimenti arrestati812, mentre a partire dall'estate 1711 era attivo come corsaro, al

comando di un felucone armato con 26-30 uomini, ed era destinato a diventare, tra i finalini, una delle figure più attive sotto questo piano. Giacomo Borro divenne ufficialmente corsaro quando il Capitano Gio. Batta Battagliero – che aveva ricevuto una lettera di marca nell'aprile 1708813 – dovendo «nuovamente passare in qualità di piloto con la flotta alleata» ritenne

conveniente «sorrogar un luogotenente nel bastimento del medesimo destinato a far il corso»: il Capitano Battagliero aveva «fissato l'occhio nella persona di Giacomo Borro» e lo scelse come «suo sorrogato, e luogotenente»814.

Rispetto agli altri corsari del Marchesato – i quali tendevano ad arrestare le barche genovesi per verificare il carico presente a bordo, nella speranza di individuare merci dirette ai nemici – Giacomo Borro compì il corso spingendosi nelle acque dell'estremo ponente ligure e in quelle francesi, con maggiori possibilità di individuare prede più appetibili. Effettivamente, nel luglio 1711 trattenne una piccola barca di Monaco ma l'arresto suscitò timori nel Capitano di

Contra infieles y enemigos..., cit., p. 107, pp. 151-152 e pp. 192-194.

808ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 7 dicembre 1707. 809ASS, Notai distrettuali, Notai del Finale, 2055, 27 gennaio 1708.

810Archivio Parrocchiale dell'Abbazia di Finalpia (d'ora in avanti, APAF), Registro dei morti, 30 luglio 1711. 811Nel marzo 1712 Vincenzo Ferro si impegnava a saldare il dovuto entro una settimana e, qualora non vi fosse

riuscito, avrebbe riconosciuto a Bernardo Arnardo un interesse del 5% annuo fino all'estinzione del debito. L'accordo – tenuto in considerazione che Vincenzo Ferro era «minore d'anni 25» – veniva approvato dagli zii Francesco Accame q. Battista e Gio. Batta Firpo q. Vincenzo. ASS, Notai distrettuali, Notai del Finale, 2737, 6 marzo 1712.

812ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 107.

813Il finalino si era distinto come pilota nella nave El Monarca che, da Finale, era stata condotta a Barcellona: in considerazione dei suoi meriti gli era stata concessa l'autorizzazione per andare in corso.

Giustizia finalese, il quale dapprima preferì confrontarsi con il Governatore del Marchesato sulle implicazioni che sarebbero potute derivare dal caso e, poi, chiese delucidazioni al Magistrato Ordinario dello Stato di Milano al quale espresse le proprie considerazioni. Indubbiamente il Principe di Monaco era nemico – essendo egli «adherente alla Francia» e possessore di un presidio francese – ma a questa constatazione si univa la consapevolezza del fatto che se si fossero usate «rapresaglie a' suoi sudditi, egli pure» avrebbe potuto «apportare qualche pregiudicio alli pinchi del dispachio per la Corte», i quali erano obbligati a «passare vicino a quel porto [di Monaco], et pagare il dritto»815. Infatti, sia lui sia il Duca di Savoia

seppur «possessori di un ridicolo pezzo di costa» si erano rivelati «smaniosi di associarsi al ricco traffico che passa sotto il loro naso»816. Insomma, il Capitano di Giustizia era propenso

al rilascio «per trattarsi di preda di poco rillievo» e, a maggior ragione, perché «il detto Prencipe non permette alcuna ostilità contro detti pinchi et altre imbarcazioni qui del Finale»817. Ancora una volta, dunque, per le questioni di preda marittima venivano applicati

metri di misura differenti in base al peso politico dell'interlocutore con cui ci si doveva relazionare.

Se in questa prima occasione l'audacia non premiò il corsaro Borro, egli non demorse e, nell'inverno di quell'anno, con il suo felucone andò in caccia di altri bastimenti nemici: tra le sue vittime, una tartana carica di farina per il presidio di Nizza818 e due battelli francesi di

Mentone. Questi ultimi avevano a bordo solo gli attrezzi per navigare, essendo appena stati predati «dal Capitano Diego corsaro habitante in Oneglia», quel Diego Soffio già incontrato in questa ricerca: i due legni erano stati riscattati dal patrone che, in tal modo, aveva perso solo il carico di vino, trattenuto dal corsaro oneglino. Nuovamente caduti in mano dei corsari, questa volta finalini, i due battelli vennero venduti all'incanto nella Riva di Taggia, ciascuno «per doppie sei e mezza di Francia, et lire due di Savona», al patron Filippi819. In più di

un'occasione, in effetti, Giacomo Borro – non avendo modo di condurre le prese nello scalo del Finale o volendo proseguire il corso nelle acque francesi – ricorse all'assistenza del Console di Carlo III in San Remo, Francesco Maria Sardi, non senza che questa scelta venisse poi attentamente indagata dalle autorità del Marchesato allo scopo di individuare eventuali frodi a danno del fisco.

D'altronde, l'azione del Capitano Borro era in linea con le disposizioni recentemente emanate dal Presidente delle Regie Ducali Entrate Ordinarie dello Stato di Milano il quale, nel dicembre 1710, stabilì un nuovo regolamento sulla guerra di corsa «a' fine di animare li padroni delle barche feluche ad andar in corso»: effettivamente, fino a quel momento, la guerra di corsa finalina non si era certo dimostrata particolarmente incisiva. Per incoraggiare sempre più lo sviluppo della guerra di corsa, da Milano si chiese al Capitano di Giustizia che – in caso di preda legittima – si desse «immediatamente a' medemi Padroni la sua porzione»: in caso di prede che presentassero elementi di dubbio, il Capitano di Giustizia avrebbe dovuto confrontarsi con l'avvocato fiscale per giungere insieme a una risoluzione, analizzando le

815Su questo aspetto è recentemente stato pubblicato il lavoro di P. CALCAGNO, I dritti marittimi di Monaco e

Villafranca tra XVI e XVIII secolo, in «Mediterranea. Ricerche storiche.», XVI, 2019, 45, pp. 61-82. Altro

contributo al tema – seppur considerando solamente il caso di Villafranca – si rintraccia nel volume di G. CALAFAT, Une mer jalousée..., cit., pp. 193-226.

816F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2010, p. 96. 817ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 4 luglio 1711.

818Si trattava di una tartana di Villafranca che da Antibes, dove aveva caricato della farina, doveva recarsi a Nizza per consentire la produzione del pane nel presidio francese. L'incanto avvenne a San Remo: la farina fu comprata da un uomo di Bordighera mentre il legno fu riacquistato dallo stesso patrone predato; la preda marittima aveva fruttato 1.200 lire. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 28 novembre 1711.

norme espresse nel nuovo regolamento. A tal proposito, la disposizione conteneva delle precisazioni destinate ad essere dense di significato per le conseguenze che si sarebbero determinate sul piano delle relazioni internazionali: si precisava, infatti «essere preda legitima, e giusta la presa di qualunque Nave nemica, come di ogni altra Neutrale, che porti a' Nemici provisioni de' viveri, e di guerra, e qualonque genere destinato all'uso delle Armate nemiche così di Terra, come di Mare, Uffiziali con Soldati, Cavalli, e Dispacci», analogamente a quanto si osservava anche in Francia. Per ovviare, invece, a possibili frodi – che potevano determinarsi, ad esempio, con la presentazione di polizze false – la questione veniva rimessa al «prudente e discreto arbitrio del Delegato Magistrale, sempre però con partecipazione del Regio Avvocato Fiscale»: dopo aver considerato «le circostanze della qualità delle merci, della persona a cui sono indirizzate, dell'uso, per cui devono servire, della qualità, e buona opinione del Mercante corrispondente», avrebbero potuto sentenziare sul caso, «servendosi però del temperamento della sigurtà, perché resti ne' casi dubbij, e di riclamo provisto all'indennità delle parti».820 Le campagne corsare di Giacomo Borro

rispondevano perfettamente alle linee guida dell'editto promulgato pochi mesi prima.

Per di più, il momento storico era cruciale, anche per fomentare la guerra di corsa: nell'aprile 1711 – con la morte di Giuseppe I – l'arciduca Carlo divenne il nuovo Imperatore del Sacro Romano Impero e questo evento impose a Inghilterra e Olanda un ripensamento del sostegno fino ad allora prestato alla causa asburgica. Carlo III – ora anche imperatore, come Carlo VI – combatteva ormai da solo.

Nell'estate 1711 Giacomo Borro divenne «capitano de corsari […] sopra il felucone de corsari che corre[va] per comandi del signor sergente maggiore»: a dimostrare l'intensità dell'attività portata avanti dal finalino basti pensare che – mentre tratteneva i due battelli di Mentone al Capo dell'Alma, tra Taggia e San Remo, in attesa di condurli alla Riva di Taggia dove li avrebbe venduti – non si lasciò sfuggire l'occasione di arrestare un'altra feluca, quella di patron Domenico Bardi di Lerici: dopo un primo esame, il legno fu rilasciato requisendo tuttavia il carico di tessuti preziosi e trattenendo un ebreo di Pisa821. Il corsaro proseguì ancora

la sua campagna fin nelle acque francesi se non fosse stato per la presenza di un felucone e una galeotta di Monaco che lo intimorì, inducendolo a rientrare nello scalo del Marchesato. Emblematico il suo atteggiamento nei confronti delle vittime: se non risparmiò la cattura al passeggero ebreo, si dimostrò invece magnanimo con un monegasco, proprietario dei tessuti sequestrati, che venne lasciato in libertà. Quest'ultimo, in effetti, aveva supplicato il Borro di rilasciarlo per consentirgli di rientrare a Monaco e procurarsi il denaro occorrente al riscatto della merce: gli stessi corsari probabilmente ritenevano importante non inimicarsi i sudditi del Principe di Monaco e, come i governanti del Marchesato, adottavano comportamenti differenti in base alle convenienze. Quanto all'ebreo, Giacomo Borro chiese un riscatto di

820ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 107, 15 dicembre 1710.

Il Capitano di Giustizia suggerì che quanto alle «prede de patentati» si lasciasse «il solo quinto a Sua Maestà» ma, quanto alla prede realizzate «sotto il calore della Piazza» sarebbe stato opportuno assegnare una terza parte al Re, «altra al bastimento et gente, et altra all'infanteria, o a chi altrimenti con favore cooperativo facilita la preda». ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 107, 6 gennaio 1711.

La proposta venne bocciata dalle autorità milanesi e chiedeva di rendere noto il nuovo regolamento in maniera tempestiva, mediante pubblicazione e grida dell'editto nelle piazze del Marchesato. ASCF, Camera,

Tribunale delle Prede Marittime, 107, 14 gennaio 1711.

821L'episodio è attestato anche nelle carte genovesi: Gio. Paolo Galiano di Ventimiglia, proprietario del damasco che patron Bardi avrebbe dovuto recapitargli, rivolgeva una supplica ai Collegi per essere difeso dal sopruso subito: a nulla erano valse le «diligenze» presso il Governatore di Finale il quale aveva replicato di non potersi pronunciare sul rilascio del tessuto bensì di dover dipendere dal Governo di Milano. I Collegi incaricavano la Giunta di Marina di porsi in contatto con il gentiluomo Doria a Milano per trattare la questione. ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 5 gennaio 1712.

1.000 scudi e propose di scrivere un memoriale da consegnare «agli ebrei di Genova» – città dove l'uomo aveva dimorato per qualche tempo – per ottenerlo: questi replicarono che «non volevano saper niente» dello sfortunato prigioniero822. Le fonti non permettono di sapere che

cosa gli accadde quando arrivò al Finale: è probabile che, in considerazione delle sue origini pisane, il passeggero ebreo fosse stato liberato, come già era accaduto in passato823.

Il piccolo Marchesato, subito dopo le festività natalizie, si animò per la vendita all'asta dei beni predati: si era scoperto che, nonostante le polizze fossero intestate a persone genovesi, le stoffe erano di proprietà del passeggero di Monaco. Tra gli astanti comparvero il noto Capitano Agostino Bochiardo e, ancora una volta, il notaio Giacomo Gandolino insieme al collega Carlo Domenico Casatroia824. Il caso offrì l'occasione al Magistrato Ordinario dello

Stato di Milano di riaffermare le proprie competenze in materia di preda marittima: i pregiati tessuti erano stati venduti ad un prezzo «molto tenue, e non corrispondente alla qualità, e quantità delle robbe»: si precisò allora che il Capitano di Giustizia – nonostante «l'instrutione» trasmessagli gli consentisse di «liberamente passare alla vendita» in caso di preda legittima – quando si trovasse a giudicare «prede qualificate e di considerazione» dovesse attendere le disposizioni provenienti da Milano825.

Non solo, la frode commessa dai genovesi nella redazione delle polizze spinse il Capitano Borro ad usare meno riguardi nei confronti dei neutrali, come dichiarò lo stesso scrivano, Francesco Cavareggia: «li nemici per non essere predati si servono del nome de mercanti genovesi […] come benissimo si è scoperto [...] nell'altra preda delli damaschi […] che vi aveva quel […] habitante di Monaco». Non fu casuale, dunque, che il corsaro iniziasse a condurre nello scalo del Marchesato anche bastimenti genovesi allo scopo di smascherare eventuali truffe, come accadde nel caso di patron Giacomo Avenente di Sampierdarena826, di

patron Giuseppe Parodi di Genova827 e di patron Antonio Garassino di Laigueglia828. Si tratta

di una serie di episodi paradigmatici nel restituire efficacemente il grado di tensione raggiunto nel Mar Ligure negli ultimi anni del conflitto. A causa del mare burrascoso, i corsari finalini

822ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 23 dicembre 1711. 823T. DECIA, Contra infieles y enemigos..., cit., p. 107.

824Giacomo Gandolino era uno dei notai a cui i patroni finalini si rivolgevano con maggiore frequenza per la redazione di rogiti notarili. I suoi legami con l'ambiente marinaro vennero resi evidenti dal matrimonio che lo unì a Maria Giacinta Carenzo, figlia di Gio. Antonio – corsaro agli inizi della Guerra della Lega d'Augusta – e Maria Pellegrina Burlo q. Domenico. Quanto a Carlo Domenico Casatroia, invece, non si può dire che egli rappresentasse un punto di riferimento per i patroni del Finale: in effetti, l'unico atto di interesse rintracciato nei registri presi in esame è proprio quello del matrimonio tra la Carenzo e il Gandolino. Egli potrebbe essere stato chiamato in causa o per legami con il collega Gandolino o, più probabilmente, perché Maria Pellegrina Burlo – madre della sposa, concedente la dote poiché vedova in secondo luogo di Gio. Antonio Carenzo – prima di sposare il Carenzo era stata coniugata con Michele Angelo Casatroia, forse parente di Carlo Domenico. ASS, Notai distrettuali, Notai del Finale, 2290, 30 gennaio 1700. e T. DECIA, Contra infieles y

enemigos..., cit., pp. 79-83 e 186-188.

825ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 23 dicembre 1711.

826La feluca stava rientrando a Genova da Nizza con un carico al rosolio, vino e profumi: venne arrestata al largo di Varigotti e, dopo un attento esame, venne rilasciata. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede

Marittime, 111, fascicolo del 24 dicembre 1711.

827La feluca era partita da Genova alla volta di Marsiglia con un carico di «filo di crema»: il maltempo l'aveva costretta a separarsi dalla galera della Repubblica di Genova con cui viaggiava di conserva e, al largo di Albenga, venne trattenuta dal felucone corsaro del Finale. Condotta di preda nello scalo del Marchesato, il Capitano di Giustizia procedette ad un attento e lunghissimo esame ma le versioni fornite dalle tante persone interrogate combaciarono tra loro e non consentirono di individuare punti critici che consentissero di giudicare la presa come legittima. ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 20 gennaio 1712 e ASCF,

Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del 17 gennaio 1712.

828La tartana era diretta a Marsiglia con un carico di olio: venne predata, nei pressi di San Remo, quasi in contemporanea a quella di patron Parodi. ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 3 febbraio 1712.

condussero a Finale solamente la feluca di patron Parodi: uno dei marinai imbarcati con lui non esitò a denunciare ai Collegi il fatto che la preda fosse stata possibile a causa della separazione dalla galera S. Giorgio, avvenuta proprio a causa del maltempo829. I finalini

lasciarono la tartana di patron Garassino nell'isolotto di Albenga, con alcuni uomini di guardia che avrebbero dovuto condurre il legno nel Marchesato non appena il tempo si fosse placato ma gli alassini non si lasciarono sfuggire quest'opportunità e armarono un brigantino e una gondola per salvare il bastimento, come in effetti riuscì loro830. I marinai finalini vennero

imprigionati: il Capitano Borro si presentò innanzi il Capitano di Giustizia a chiedergli assistenza chiedendogli di fare tutto quanto in suo potere perché la preda non andasse persa831.

Pochi giorni dopo i riottosi finalini passavano all'azione trattenendo nel piccolo scalo patron Giuseppe Viale di Cervo832 e patron Tommaso Pagliano di Laigueglia, ignari d'ogni cosa.

Patron Pagliano, in particolare, si era fermato nel piccolo scalo con la speranza di vendere un po' di grano ma, contrariamente alle sue aspettative, venne obbligato a lasciare in pegno 30 mine di grano e, quando venne licenziato, i corsari gli espressero l'intenzione di andare a riprendere la tartana che era stata ingiustamente sottratta loro. Il Podestà di Andora – esasperato per la «temerità de finalini» e per dar voce alla «inquietudine de paesi […] vicini» – scrisse ai Collegi che «li patroni di tartane, che sono in detta spiaggia» erano «necessitati di note tempo a far le guardie in dette tartane per timore di quella gente»833. In generale, a partire

dall'estate del 1711 sempre più frequentemente i Collegi della Repubblica ricettero denunce dai malcapitati patroni genovesi, arrestati e maltrattati dai finalini: si intensificò l'azione di Clemente Doria, inviato genovese nel Ducato di Milano, nel chiedere giustizia per i neutrali contro le angherie di corsari che non rispettavano le più elementari norme che disciplinavano la guerra di corsa834.

IV.3.6 Le doglianze della Repubblica di Genova e l'ammonizione ai corsari Giacomo

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