Capitolo III – La guerra di corsa nel Mar Ligure e nell'Alto Tirreno: l'attività dei corsar
IV.3 Il ritorno degli Austrias: una nuova stagione corsara per i patroni finalini
IV.3.6 Le doglianze della Repubblica di Genova e l'ammonizione ai corsari Giacomo
Se, come si è visto, i sudditi della Repubblica di Genova non rimasero ad osservare, il loro tentativo di reagire diede luogo a conseguenze ancora più sgradite: i Collegi genovesi non poterono tacere. Le doglianze presentate a Milano indussero Giuseppe Fedeli, Segretario di Guerra per Carlo III, ad ordinare al Governatore del Marchesato di chiamare a sé alcuni corsari per rivolgere loro una severa ammonizione: la volontà del loro sovrano era di mantenere «quella buona armonia, e perfetta neutralità» con la Repubblica di Genova. Nel febbraio 1712, La Marre convocò «il Capitano Benedetto Corallo, et Capitano tenente Giacomo Borro» e – alla presenza di Antonio Lunati, Capitano di Giustizia, e del notaio addetto alla Cancelleria Camerale – li redarguì sul «non occasionare ulteriori querimonie, osservando legalmente il loro instituto, ne eccedendo in un punto il contenuto nella loro prammatica ed ordini espressi nelle loro patenti»: in caso contrario, oltre al severo e dovuto castigo, sarebbero stati privati delle loro patenti e dichiarati «incapaci di mai più
829ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 26 gennaio 1712. 830ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 3 febbraio 1712.
831ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del 17 gennaio 1712. 832ASCF, Camera, Atti Camerali, 47, 25 gennaio 1712.
833ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 3 febbraio 1712.
834È quanto accaduto, ad esempio, a patron Giacomo Barachino di Lerici, arrestato nei pressi di Noli e spogliato di tutti i beni; come anche di patron Luciano Macera di Rapallo, il cui legno venne catturato quando già aveva dato fondo a Noli. ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1685, 9 settembre e 19 novembre 1711.
conseguirne»835.
La misura non produsse l'effetto sperato poiché, un mese dopo, la Giunta di Marina trattò nuovamente il problema delle continue «incursioni de corsari finalini», ritenendo opportuno affrontarlo su un piano più elevato, interfacciandosi direttamente con la corte di Vienna: l'auspicio era che i ministri cesarei disapprovassero «l'insolenza de finalini […] ora mai […] senza freno» e che scegliessero di non accordare «simili patenti da corso a finalini almeno per tutta l'estensione» del dominio genovese836. Una richiesta indubbiamente eccessiva ma che
determinò un intervento dello stesso sovrano Carlo III il quale scrisse al Principe Eugenio affinché desse prontamente «las ordenes mas premurosas y efectivas para impedir y castigar
semejantes atentados» e perché non fossero «registradas [perquisite] las embarcaciones de Genoveses por el gran prejuicio que de ello se sigue al comercio de Cathaluna»837.
Nonostante il richiamo subito, Giacomo Borro certamente non vide messa in discussione la fiducia riposta in lui dal governo di Carlo III dato che nell'agosto di quell'anno gli venne affidata una valigia contenente i dispacci da consegnare nella città di Barcellona: il servizio prestato veniva remunerato in 100 filippi da lire 5 e soldi 12 l'uno, all'incirca 560 lire838.
L'alta persona che fu oggetto di monito da parte di La Marre era Benedetto Corallo, di origini genovesi, il quale si dedicò alla guerra di corsa a partire dall'estate 1709, all'incirca nello stesso periodo in cui il Principe Eugenio di Savoia gli concesse la grazia per un omicidio che aveva commesso839. L'uomo dopo aver servito Eugenio di Savoia in occasione dell'assedio
di Tolone, aveva ricevuto da questi la lettera di marca ed era stato incaricato di spostarsi a Napoli insieme al Generale Daun, nuovo Viceré del Regno di Napoli: infine, per motivi che restano ignoti, si trasferì nel Marchesato. Questi fatti probabilmente non furono casuali ed indipendenti l'uno dall'altro, bensì furono un modo per creare un legame obbligato tra il reo e un governo che si era dimostrato tollerante: una tolleranza che veniva ricompensata – secondo quanto trapela da alcuni documenti – con il riconoscimento di una percentuale assai maggiore dei proventi derivanti dalle prede marittime poiché pareva che il corsaro dovesse riconoscere al fisco un terzo degli utili invece del tradizionale quinto.
In conseguenza di ciò, non si può escludere che le stesse autorità finalesi nutrissero un interesse particolarmente accentuato nei confronti delle catture realizzate da Benedetto Corallo come parrebbe dimostrare un caso risalente al luglio 1709, quando il corsaro arrestò una feluca di Lerici che da Marsiglia viaggiava verso Genova e Livorno. Dopo un'infervorata supplica del Capitano Corallo – «si compiaccia dichiarare detta preda per legitima, al fine, che potiamo sempre più animarsi di esporre le nostre vite, et robbe in causa de francesi, et manifestare il nostro bon zelo, in servizio del Re nostro signore, Dio guardi, come suoi fidelissimi sudditi» – il Capitano di Giustizia dispose il sequestro di una parte del carico e lasciò il patrone genovese libero di portare a conclusione il proprio viaggio. L'asta pubblica avvenne a distanza di oltre un mese dal momento della cattura ma, curiosamente, ad essa partecipò solamente Giuseppe Bergallo, figlio di un notaio finalese: forse per questo motivo si permise allo stesso Capitano Corallo di figurare quale astante e fu proprio lui ad aggiudicarsi
835ASCF, Camera, Atti Camerali, 47, 22 febbraio 1712. 836ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 18 marzo 1712.
837ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 27 aprile 1712. La disposizione – emanata da Vienna nell'aprile 1712 – pervenne a Milano solamente il 25 maggio: una settimana dopo, venne resa nota nel piccolo scalo attraverso la pubblicazione e grida nelle piazze del Finale. Contestualmente, si obbligava ogni corsaro a munirsi di regolare patente: in sostanza, si negava la possibilità di realizzare prede marittime per mezzo di una concessione fornita all'ultimo momento dalle autorità del Marchesato. ASCF, Camera, Tribunale delle
Prede Marittime, 107, documenti del 25 e 31 maggio e 9 giugno 1712.
838ASS, Notai distrettuali, Notai del Finale, 2737, 29 agosto 1712.
839ASM, Registri delle Cancellerie dello Stato e di Magistrature diverse, I serie, XII, Dispacci reali per il
il quantitativo di panni predati840.
Nonostante il patrone di Lerici fosse giunto a Livorno già nei primi mesi di agosto e avesse reso noto l'incidente occorsogli841, fu solamente alla fine del mese seguente che alcuni
mercanti di Livorno e di Lucca, interessati nel carico di panni, presentarono le dovute istanze per reclamare il carico perduto. Il Tribunale milanese accusò Giulio Cattaneo, Capitano di Giustizia, di non aver «distinto la qualità de paesi, e persone a quali erano […] mercanzie», ritenendolo responsabile dello scorretto giudizio pronunciato, e supplicò il Magistrato Ordinario di imporre al suo Delegato Magistrale la restituzione delle merci. Essendo già avvenuta la vendita, Geronimo Tizzone – il Presidente delle Regie e Ducali entrate ordinarie dello Stato di Milano – non potè far altro che chiedere di «trattenere intatto tutto il prezzo ricavato dalle […] merci» in attesa di ricevere disposizioni più precise dallo stesso Magistrato. Giulio Cattaneo fece pervenire l'ordine al Capitano Corallo nei primi giorni di ottobre, ma il corsaro replicò che «subito dopo la deliberatione delle due balle pannine […] pagò tutto il denaro a chi s'aspettava» – e particolarmente ai marinai «che come nudi e forestieri annelavano […] a quel poco se le spettava» – versando nella Regia Tesoreria la percentuale dovuta: insomma, il Capitano non avanzava «nemeno un soldo». Il Magistrato milanese fu costretto a prendere atto del fatto che non si potesse ottenere alcunché da Benedetto Corallo, il quale non aveva mai dato «sigortà» e per di più era «nulla tenente» come i suoi stessi marinai842. Restava la possibilità di iniziare a reintegrare, almeno
parzialmente, i mercanti danneggiati con i proventi versati nella Camera del Marchesato ma, anche da questo punto di vista, le autorità del Ducato di Milano si scontrarono con un nulla di fatto: ed è questo che fa pensare a un interessato coinvolgimento del governo finalese nell'attività di Benedetto Corallo. In effetti, la somma incamerata venne impiegata in parte per riparare una breccia che si era aperta nella fortezza di Castelfranco e, in parte, per pagare i falegnami che si stavano dedicando alla costruzione del ponte levatoio di Castel Govone. Trascorsi molti mesi dall'episodio considerato – si era, ormai, alla fine dell'anno – da Finale si suggerì di ricavare il denaro necessario a risarcire i mercanti da eventuali future prede legittime realizzate dal Capitano Corallo: Geronimo Tizzone non potè far altro che appoggiare la proposta843. Nessun stupore, dunque, nel constatare il particolare scrupolo con cui Giulio
Cattaneo esaminò i successivi casi di preda marittima realizzati da Benedetto Corallo negli anni seguenti: il Capitano di Giustizia diresse all'attenzione del Tribunale delle Prede Marittime dossier processuali particolarmente voluminosi e accurati. Non emergono dinamiche differenti rispetto a quelle già evidenziate: attacchi tesi unicamente ai legni genovesi provenienti da Marsiglia che produssero risultati di ben poco conto per il corsaro e per la Camera del Marchesato844.
840ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 26 luglio 1709.
841ASF, Mediceo del Principato, 2230, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 2 agosto 1709.
842Sfortunatamente, i fascicoli del Tribunale delle Prede Marittime non menzionano mai il legno da lui patroneggiato, accennando solamente alla tipologia dello stesso, vale a dire la feluca: tenendo in considerazione che egli era nulla tenente si può supporre che egli fosse al comando della S. Maria di
Portosalvo che la zia paterna, Geronima vedova Rubatto, aveva acquistato qualche anno prima. Si tratterebbe
della stessa feluca che, tra il 1703 e il 1706, era stata impiegata per il Real Servizio. 843ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 26 luglio 1709.
844Nel 1710 Benedetto Corallo arrestò due feluche di Lerici e una fregata di Savona: tutte le prede avvennero al largo di Finale, tra Varigotti e la Caprazzoppa, e tutte vennero rilasciate. Il Capitano corsaro si dovette accontentare di spogliare alcuni passeggeri francesi degli effetti personali e dei preziosi che avevano con loro. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicoli del 15 e 20 febbraio 1710.
Nel 1711 il Capitano Corallo arrestò la feluca di patron Francesco Tarabotto di Lerici: per questo episodio, il Tribunale delle Prede Marittime di Finale ha prodotto e conservato una quantità immane di materiale. Il caso
Negli ultimi mesi della guerra, il Capitano Corallo investì 250 lire nella tartana di patron Andrea Restano di Sestri Ponente per un viaggio da compiere in Sardegna: evidentemente, egli non era più nulla tenente anche se le fonti a disposizione non consentano di sapere come egli avesse potuto mutare il proprio status economico845. Nulla vieta di escludere che egli
fosse riuscito a far fruttare sapientemente quel poco che era riuscito a ricavare dalla sua impresa corsara perché – anche se le prede marittime da lui realizzate non ebbero davvero nulla di meritevole – per suo conto operarono almeno due finalini: Michelangelo Roberto in qualità di tenente e Pietro Gio. Cerisola846 come luogotenente. Una pratica di tal genere non
era valida di per sé ma, probabilmente, venne autorizzata da un rogito notarile come nel caso di un altro corsaro finalino, Carlo Gio. Rosso, quando nel 1711, a causa della propria infermità, nominò Gio. Batta Giordano come suo tenente concedendogli la facoltà di realizzare prede marittime847.
A nome di Michelangelo Roberto – un napoletano stabilitosi da tempo nel Marchesato – è attestato un solo episodio di presa marittima: nel febbraio 1712 arrestò una latina genovese che trasportava ad Antibes soldati reclutati dal Console di Francia residente in Genova. I francesi vennero imprigionati mentre la barca venne dichiarata preda legittima poiché negli ultimi anni della guerra – a dimostrare l'incrudelirsi degli scenari bellici – le disposizioni fornite ai corsari legittimavano l'arresto anche di bastimenti neutrali, se destinati al trasporto di dispacci e soldati al servizio del nemico848: unico caso attestato, il «povero, e miserabile»
patrone, Sebastiano Garibaldo di Santo Stefano, aveva ottenuto «la renoncia per titolo di carità […] da detto corsaro Oberto»849 e, pertanto, presentava istanza al Capitano di Giustizia
restò aperto per molti mesi e i numerosi mercanti interessati nel carico fecero pervenire nel Marchesato istanze per recuperare quanto sottratto, accompagnate da dettagliate certificazioni che non potevano lasciar spazio ad alcun dubbio sul fatto che il sequestro fosse illegittimo: solo per pochi beni venne espresso un parere differente, con conseguente asta pubblica. All'incanto partecipò nuovamente lo stesso Corallo e altri corsari attivi nel periodo della Guerra di Successione Spagnola, come il già citato Francesco Benzo e Carlo Gio. Rosso che si contesero animatamente le poche merci in vendita. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede
Marittime, 110, fascicolo del 17 aprile 1711 e numerosi altri fascicoli conservati all'intero del faldone.
845ASS, Notai distrettuali, Notai del Finale, 2737, 24 febbraio 1713. Tra l'altro, l'atto in questione venne rogato «nella casa d'habitazione del detto Capitano Corallo» il che significa che ne era proprietario oppure era in grado di pagare un canone d'affitto.
846Pietro Gio. Cerisola era figlio di Gio. Antonio e Maria: si ritiene tuttavia improbabile che il padre fosse quel Gio. Antonio Cerisola noto come corsaro durante la guerra d'Olanda. T. DECIA, Contra infieles y
enemigos..., cit., pp. 64-66 e pp. 188-192.
I legami tra Pietro Gio. Cerisola e Benedetto Corallo sono resi evidenti anche da altri dettagli: Pietro Gio. Cerisola era testimone al momento della stipula dell'atto tra il Capitano Corallo e Andrea Restano di Sestri Ponente mentre Benedetto Corallo tenne a battesimo Francesco Maria Martino, uno dei figli del Cerisola. ASDS, Finale Ligure, Marina, Parrocchia di San Giovanni Battista, Atti di nascita, n. 7, anni 1700-1712. 847ASM, Carteggi consolari, 25.
848ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1686, 23 gennaio 1712.
849La copia dell'atto relativa alla rinuncia della preda realizzata da parte del corsaro è datata ai primi di marzo del 1712: in quell'occasione, Michelangelo Roberto si definì «luogotenente del Capitano Francesco Vacca» quando, invece, neanche un mese prima aveva dichiarato di fare il corso in quanto «tenente del Capitano Benedetto Corallo corsaro». È possibile che l'uomo, in quel breve arco di tempo intercorso tra le due deposizioni, fosse passato al servizio di un altro corsaro oppure che servisse entrambi contemporaneamente, imbarcandosi ora con l'uno, ora con l'altro. Anche altre figure che svolsero il ruolo di luogotenente per altri corsari di Finale resero dichiarazioni analoghe: alla fine del 1711, Gio. Batta Giordano era luogotenente per Carlo Gio. Rosso e, pochi mesi dopo, per Carlo Bergallo. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del 11 febbraio 1712.
La figura del Capitano corsaro Francesco Vacca – che risulta dotato di una lettera di marca fin dal giugno 1707 – malauguratamente non ha lasciato tracce nella documentazione presa in esame. ASM, Carteggi consolari, 25, 21 giugno 1707.
di Finale affinché – dopo aver considerato il «deplorabile stato» dell'uomo, «carrico altresì di numerosa famiglia» – disponesse la restituzione del suo piccolo legno, il cui valore era stato stimato dai patroni Carlo Bergallo e Bernardo Drione in sole 90 lire850.
Pietro Gio. Cerisola, invece, ebbe maggior fortuna sul mare: il giovane finalino fu responsabile, nell'estate del 1710, della cattura di una fregata nemica che venne legittimata proprio dall'essere luogotenente per il Capitano Corallo. Il caso riguardante il Cerisola merita di essere considerato perché consente di inserire la guerra di corsa finalina in una dimensione più ampia rispetto a quella locale che si svolgeva prettamente lungo le coste del Ponente ligure e che consisteva sostanzialmente in attacchi contro i legni neutrali: ciò nella pratica comportava meno rischi ma anche meno possibilità di profitto. In effetti, Pietro Gio. Cerisola agì al largo della Corsica e l'episodio è significativo perché egli era partito da Ajaccio dove si era imbarcato a bordo dello schiffo che apparteneva alla barca del finalino Donato Vernazza851: si ignorano le ragioni che avevano portato Pietro Gio. Cerisola in Corsica ma il
dettaglio che attira l'attenzione non riguarda lui bensì patron Vernazza. Quest'ultimo aveva lasciato i propri marinai ad Ajaccio: la sua barca era stata catturata dall'armata anglo-olandese – sotto il pretesto che, poco tempo prima, era stata detenuta dalle galere di Sicilia – ed egli si imbarcò su una nave napoletana diretta a Barcellona per presentare una supplica direttamente al suo sovrano. Pietro Gio. Cerisola, postosi al comando dello schiffo, aveva il compito di condurre i marinai finalini nella loro patria ma, nel viaggio di rientro, si imbatterono in una fregata nemica e riuscirono a impadronirsene. I predati – alcuni uomini di Rio, giurisdizione di Porto Longone – supplicarono i finalini di concedere loro lo schiffo per rientrare nelle loro case poiché «dubitavano d'esser amassati da corsi». La fregata di Rio era di proprietà di Ludovico Barbetti: un nome che non dice molto per i patroni abituati a solcare il Mar Ligure ma destinato ad un'eco ben maggiore nella zona dei Presìdi toscani, dove il Capitano Barbetti aveva a lungo fatto parlare di sé come corsaro al servizio di Filippo V. In quel momento egli si trovava impiegato a bordo delle galere di Sicilia al comando del Duca di Tursi in qualità di «Gentiluomo di Artiglieria»: le galere dovevano tentare la riconquista della Sardegna che, dal 1708, era occupata dall'armata anglo-olandese in nome di Carlo III. Ludovico Barbetti – individuando nell'impresa occasioni di guadagno – aveva offerto a un patrone di Rio un nolo per condurre la fregata e lo «faceva tener appresso a sua disposizione per carricarlo poi di buon bottino, che sopponeva fare in Sardegna», ma la campagna ebbe un esito ben diverso dalle aspettative. Una presa perfetta, per i finalini, e in merito al quale il giudizio non poté che essere veloce e scontato: il legno e il suo carico vennero posti all'incanto. L'episodio fu singolare fino alla fine poiché l'unico partecipante all'asta pubblica fu lo stesso Donato Vernazza – evidentemente già rientrato da Barcellona – il quale acquistò il tutto per la modica somma di 170 lire: si trattò di un gesto di solidarietà da parte degli altri patroni finalini per dargli modo di rientrare della perdita subita, di una disposizione dello stesso sovrano per lo stesso scopo o di una mera casualità? Quest'ultima ipotesi pare la meno credibile: sul resto,
finalini: aveva contratto matrimonio con Maria Maddalena Basso – sorella di quel Giovanni Battista detto Colino che fu corsaro durante la Guerra della Lega d'Augusta – e molti dei figli nati dal loro matrimonio erano stati tenuti a battesimo da corsari come Francesco Benzo, Agostino Bochiardo e Carlo Bergallo. Tenendo in considerazione questi dati non si può escludere che egli avesse richiesto una patente di corsa perchè influenzato dall'ambiente a lui circostante senza, poi, sfruttarla praticamente. ASDS, Finale Ligure, Marina, Parrocchia di San Giovanni Battista, Atti di matrimonio, n. 5 anni 1676-1712 e Atti di nascita, n. 6,
anni 1676-1700 e n. 7, anni 1700-1712.
Su Giovanni Battista Basso, T. DECIA, Contra infieles y enemigos..., cit., pp. 145-151 e 164-166. 850ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del11 febbraio 1712.
851Su di lui – anch'egli corsaro nell'ultima fase della Guerra della Lega d'Augusta – si veda T. DECIA, Contra
tuttavia, non ci si può pronunciare852.
IV.3.7 Una valutazione sulla guerra di corsa: fenomeno estemporaneo o consolidata