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Il coinvolgimento di alcuni sudditi toscani nell'armamento della barca imperiale

Capitolo I – L'inizio del conflitto e la questione della neutralità genovese e toscana

I. 3 «Un personaggio tanto prestigioso quanto ingombrante»: la presenza nel porto d

I.4 Corsari dell'imperatore: il caso dei sudditi genovesi

I.4.3 Il coinvolgimento di alcuni sudditi toscani nell'armamento della barca imperiale

medicea potè tirare un sospiro di sollievo: per quanto nessun suddito di Cosimo III fosse noto per aver intrapreso il corso marittimo, non si può affermare che lo stesso discorso fosse valido in termini più generali. In effetti, proprio in quei giorni il Governatore di Livorno ricevette una visita da parte del Console di Spagna, il marchese De Silva, il quale lo aveva portato a conoscenza dell'acquisto, effettuato da Sebastiano Vario, di alcuni petrieri denunciando che ciò fosse stato possibile «per trattato di alcune guardie di sanità». Il Governatore di Livorno – che aveva tra i suoi principali compiti il favorire i traffici portuali, assicurandone il regolare svolgimento, e il monitoraggio dei movimenti che avvenivano all'interno dello scalo stesso236

– informava il Segretario di Guerra Montauti di aver già disposto la carcerazione dei responsabili e avviato il processo contro di loro, sulla base di quanto stabilito dal bando proibitivo. Il Console Imperiale in Livorno, Stephen Hermen237, ricevute le doglianze del

Tornaquinci sequestrò i petrieri e li consegnò alle autorità del porto238 mentre,

contemporaneamente, il Governatore della città proibì ai maestri d'ascia di proseguire i lavori che stavano effettuando sul bastimento di patron Vario239.

Potrebbe sorprendere, infine, l'atteggiamento del Console Silva che, come scrisse alla Segreteria di Guerra, si trovava ad essere «giornalmente vessato dalle genti di questi poveri barcaroli che restano processati per la vendita delli otto petrieri» e a nutrire «particolar rimorso»: il Marchese della Banditella aveva l'unica intenzione di impedire l'armamento del nemico nello scalo labronico e non quella di far castigare dei «miserabili» – che lui ritenne «incorsi per ignoranza in detto errore» – e intercedette richiedendo la loro liberazione. In realtà, queste poche righe evidenziano bene i meccanismi che alimentavano l'intrigante macchina della diplomazia: il Granduca e il suo entourage erano stati obbligati – per mantenere rapporti distesi con le Due Corone – ad attuare una punizione nei confronti di sudditi che avevano rischiato di innescare una discussione sulla professata neutralità del governo mediceo. Dopo aver ricevuto un tale dimostrazione, toccava al De Silva far intendere alla corte medicea di provare lo stesso interesse: acquisiscono pienamente senso le parole della missiva diretta alla Segreteria di Guerra, potendo leggere la richiesta del Console per la scarcerazione dei «poveri barcaroli» come un'autorizzazione, di fatto, a proseguire in tal senso, mettendo ogni cosa a tacere. Il governo mediceo fu altrettanto cauto nei confronti del rappresentante imperiale: a seguito della denuncia del Silva venne stato posto in carcere anche lo scrivano di patron Vario, accusato di aver cercato di aumentare l'equipaggio della barca corsara imperiale, ma venne rimesso in libertà – non trovando, evidentemente, fondamento l'insinuazione del marchese – in tempi tanto rapidi che Hermienne o Lamberg non riuscirono neanche a battere ciglio.240

Ben diversa, dunque, si configura la gestione della questione da parte della Repubblica di

236M. AGLIETTI, L'istituto consolare tra Sette e Ottocento..., cit., p. 40.

237Come spiega Aglietti, il consolato imperiale a Livorno era stato assegnato, fin dall'inizio del conflitto, ad Hermen il quale era residente in Livorno da circa trent'anni, durante i quali aveva maturato una buona esperienza mercantile. Cfr. M. AGLIETTI, «Politica, affari e guerra..., cit., p. 363.

238ASF, Mediceo del Principato, 2224, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 7 maggio 1703.

239ASG, Archivio Segreto, Lettere Consoli, 2683, lettera del Console Gavi 9 maggio 1703.

240ASF, Mediceo del Principato, 2224. Il tema viene affrontato da diverse lettere scritte dal Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra nel giugno 1703.

Genova e del Granducato di Toscana: una situazione controversa, tormentata e prolungata nel tempo per quanto concerne il primo caso, totalmente opposta nel secondo. Forse, l'essere a conoscenza delle tante difficoltà affrontate dal governo genovese rese chiaro alle autorità livornesi quali fossero le misure e le strategie da adottare per poter mantenere il maggior disimpegno possibile nel conflitto.

I.4.4 Da luogotenente a corsaro: Gio. Antonio Lusorio

Come effettivamente aveva anticipato Assereto – il quale, tuttavia, non si era spinto oltre tale affermazione – il caso inerente Sebastiano Vario non fu affatto isolato241. Negli ultimi

giorni del 1703, il Marchese della Banditella venne informato sulla partenza da Civitavecchia di «più marinari di diverse nazioni» che dovevano giungere nel porto mediceo, dove sembrava avessero l'intento di «riarmare la barca imperiale per escire al corso»242. Il

riferimento era alla barca che era stata padroneggiata da Sebastiano Vario: se quest'ultimo si era rassegnato e aveva smesso di praticare la guerra di corsa, lo stesso non accadde per gli uomini che lo avevano sostenuto nella sua impresa.

Era il caso di Gio. Antonio Lusorio, un genovese di Pra, precedentemente impiegato a bordo del bastimento del Vario in qualità di Tenente243: egli era partito da Civitavecchia in

veste mercantile per poi armarsi «in guerra» a Fiumicino – e non a Livorno, prendendo il comando del legno del Vario, come si era supposto – e di lì iniziò a scorrere l'Alto Tirreno. Le prime notizie su di lui, risalenti agli ultimi giorni del 1703, lo individuavano a Portoferraio dove aveva condotto alcune prede: al largo del Monte Argentario aveva arrestato una feluca napoletana mentre «poco distante dalla Troia» – oggi Torre degli Appiani sull'Isolotto dello Sparviero – aveva assalito tre feluche sorrentine244. Il Provveditore della Dogana si lamentò

per il sempre maggiore «disturbo di questi ladroni» che minavano i consueti traffici portuali, particolarmente per il fatto che i bastimenti arrestati dal Lusorio erano usciti tutti dal porto di Livorno e si supponeva che il corsaro intendesse vendere il carico ai proprietari dello stesso245.

Spagna e Impero intervennero nella questione per mezzo dei loro rappresentanti a Livorno, e non solo. Nel primo caso, la voce era quella del Marchese de Silva che insistette sull'illegittimità della patente sottoscritta dall'Ambasciatore Cesareo in Roma – ritenendo non godesse dell'autorità per concederla, riflesso del mancato riconoscimento della sovranità dell'arciduca Carlo – per pretendere la restituzione di tutte le feluche246 e non solamente di

241G. ASSERETO, La guerra di Successione spagnola cit., p. 571.

242ASF, Mediceo del Principato, 2224, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 24 dicembre 1703.

243ASF, Mediceo del Principato, 2224, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 28 dicembre 1703.

244ASF, Mediceo del Principato, 1615, lettera del Provveditore della Dogana di Livorno alla Segreteria di Stato, 28 dicembre 1703.

Le notizie più precise – riguardanti luogo di presa e carico – sono fornite dal Provveditore della Dogana (28 dicembre). La feluca napoletana era appena partita da Livorno e aveva un carico di salumi, le tre feluche di Sorrento avevano un carico più eterogeneo: salumi, balle di cotone di lana.

Una lettera scritta dal Governatore di Livorno (5 gennaio 1704) forniva ulteriori informazioni sul carico che annoverava anche alcune balle di baccalà e barili di salacche (un tipo di pesce) spettanti a un mercante maremmano, il quale intendeva scaricarle a Grosseto.

245ASF, Mediceo del Principato, 1615, lettera del Provveditore della Dogana di Livorno alla Segreteria di Stato, 28 dicembre 1703.

quella arrestata illegalmente sotto il tiro del cannone247: il Console presentò più di un'istanza

alla Segreteria di Guerra, sollecitato dal Viceré di Napoli, desideroso di conoscere «il ricavato delle […] istanze»248, destinato a restare incerto249. Certamente più rilevante – in quanto

chiarificatore dell'infelice piega assunta dal fenomeno corsaro per i patentati in nome di Leopoldo I – fu la richiesta presentata dal Console Imperiale al Governatore di Livorno per autorizzare lo sbarco di alcuni marinai che non desideravano «proseguire il corso»250: ben

maggiore rispetto al previsto sarebbe stato il numero di coloro che scesero a terra – dei 34 uomini partiti da Civitavecchia ne rimasero soltanto «una decina o poco più» – tanto da indurre il Tornaquinci a credere che «ammettendoli [...] a pratica, forse l'armamento si dismetterebbe, e finirebbe qui»251. Il pensiero del Governatore si rivelò, tuttavia, ingenuo nel

momento in cui le guardie del porto, impegnate a controllare i movimenti della barca corsara, lanciarono segnali d'allarme in relazione all'imbarco di alcuni uomini e all'approvvigionamento di viveri, chiari indicatori di una imminente partenza dal porto mediceo del legno corsaro: il Console Hermen si dichiarò ignaro sul primo aspetto mentre confermò il desiderio di patron Lusorio di riprendere il mare252; dal canto suo il Segretario di

Guerra aveva ordinato al Governatore di appurare che a bordo non fossero presenti sudditi del Granduca e, a quel punto, «chiudere gli occhi, e lasciar correr», a condizione che il numero non fosse maggiore rispetto al momento dell'arrivo in porto253. In sostanza, parrebbe

che il governo mediceo fosse intenzionato a veder allontanati i corsari imperiali dai porti toscani: presumibilmente, le seccature incontrate vennero ritenute già più che sufficienti per desiderare di incappare in altre.

Il 12 febbraio il Provveditore della Dogana segnalò l'avvenuta partenza del Lusorio il quale stava «tenendo suo cammino a Ponente»254: a quel punto, il Console Gavi non poté che

destare da una relativa quiete la Repubblica di Genova, trasmettendo la stessa notizia accompagnata dal timore che l'uomo potesse «approdare in qualche luogo della Riviera a far

247ASF, Mediceo del Principato, 2286, lettera del Console Silva alla Segreteria di Guerra, 2 gennaio 1704. 248ASF, Mediceo del Principato, 2286, lettera del Console Silva alla Segreteria di Guerra, 8 febbraio 1704. 249Stephen Hermen aveva pregato il Governatore di Livorno di far rilasciare al patrone di Sorrento la feluca che

gli era stata sottratta sotto il tiro del cannone della Troia, facendo seguire alla sua richiesta una formale rinuncia scritta da patron Lusorio (lettera del 11 febbraio). Meno fortunato, era stato il patrone maremmano che aveva interesse nel carico: stando a una carta conservata nella Segreteria di Guerra, il Console Imperiale si dichiarava «dispiaciuto sommamente» per il fatto che l'uomo fosse «comparso dopo la vendita» garantendo che avrebbe fatto il «possibile per consolarlo». ASF, Mediceo del Principato, 2286, lettera del Console Hermen alla Segreteria di Guerra, 22 febbraio 1704

250ASF, Mediceo del Principato, 2225, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 31 dicembre 1703.

251ASF, Mediceo del Principato, 2225, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 7 gennaio 1704.

252ASF, Mediceo del Principato, 2225, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 1° febbraio 1704. Nonostante in questi paragrafi l'accento sia stato posto sul ruolo dell'Hermen quale mediatore nelle controversie tra corsari imperiali e governo toscano inducendo i primi al rispetto delle norme che regolavano la materia del corso marittimo, è opportuno evidenziare quanto riportato da Zamora Rodríguez il quale afferma che «los corsarios imperiales a inicios del XVIII también se ayudaron del cónsul Hermen para

conseguir que fueran tratados en igualdad de condiciones con relación a los demás cónsules que se dieron cita en Livorno. Para ello solicitaron constantemente que se les permitiera armar sus embarcaciones de la misma manera que ya hacían las demás naciones». Cfr. ZAMORA RODRÍGUEZ, «La 'pupilla dell'occhio

della Toscana' …, cit., p. 130.

253ASF, Mediceo del Principato, 2225, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 2 febbraio 1704.

254ASF, Mediceo del Principato, 1616, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Stato, 12 febbraio 1704.

gente et a provedersi d'Armi» non essendovi riuscito nel territorio del Granduca255. Di fatto,

ancora per qualche tempo, le acque liguri rimasero indisturbate: il Lusorio, infatti, rientrò a Livorno conducendo di presa una feluca napoletana256 che aveva fermato «nelle vicinanze

della Cecina». Il Governatore di Livorno, sulla base del pretesto che corsaro e predato avevano fornito dichiarazioni incongruenti sul luogo in cui era avvenuta la preda marittima, scelse di non concedere al Lusorio la consueta pratica e, anzi, fu determinato a non «usare facilità alcuna» nei suoi confronti. Gli era ormai chiaro, infatti, «che questo patrone si vuole annidare qui, e stare a corseggiare per questi mari, tanto più, che non ha dove potere accostarsi»257.

In effetti, nella primavera del 1704 il Lusorio era ancora attivo nell'Alto Tirreno ma egli non agiva più in maniera indipendente – un dettaglio di cui si capirà in seguito la portata – bensì in compagnia del Capitano inglese Lille: la nave di quest'ultimo e la barca del Lusorio vennero avvistate mentre davano caccia a un leudo – lasciato libero di proseguire la navigazione dopo aver appreso che fosse di Sestri – e avevano in seguito arrestato una tartana, liberata a Livorno dopo aver accertato che il proprietario fosse un patrone sanremese258.

Negli stessi giorni in cui avvenivano i fatti appena accennati, da parte imperiale si cercò di rendere più regolamentare l'attività dei corsari che inalberavano il vessillo di Leopoldo I: il Conte di Lamberg fece pervenire a Livorno l'ordine di non «partire, se non aveva almeno la metà della ciurma di Vassalli di Sua Maestà Cesarea». Ricevuta la disposizione, la barca del patrone genovese si era allontanata in fretta – senza aspettare le dovute licenze – e non si era più accostata al molo, forse «per sospetto di […] essere arrestata»259. L'attacco ad una tartana

francese «sopra la Fiumara di Pisa»260, avvenuta il 19 aprile, fu una delle ultime prede

marittime compiute dal patrone genovese: il motivo verrà delineato nel prossimo capitolo.

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