Capitolo I – L'inizio del conflitto e la questione della neutralità genovese e toscana
I. 3 «Un personaggio tanto prestigioso quanto ingombrante»: la presenza nel porto d
I.4 Corsari dell'imperatore: il caso dei sudditi genovesi
I.4.1 I genovesi Gio Batta Dagnino e Sebastiano Vario
I rappresentanti delle Due Corone cercarono, in maniera davvero celere, di porsi su un piano di forza nei rapporti con la corte granducale ma altrettanto solerte fu il Console Gio. Andrea Gavi nell'informare la Repubblica di Genova in merito a quello che, già lo si poteva intuire, era destinato a diventare un problema a dir poco spinoso217.
Anche da parte genovese si reagì prontamente per fare chiarezza sul caso: la Giunta di Marina richiese informazioni al console residente in Civitavecchia – dal quale si apprese che l'Ambasciatore Imperiale a Roma, Conte Lamberg, aveva fornito una lettera di marca al genovese Gio. Batta Dagnino – mentre i Collegi vennero nel frattempo chiamati ad un confronto con i rappresentanti delle Due Corone218.
La Repubblica di Genova era ben informata sui fatti grazie al dettagliato resoconto offerto dal Governatore di Bastia: il Dagnino si era ancorato nel Golfo di S. Fiorenzo e la sua sosta, prolungatasi per più giorni «non ostante i tempi buoni», aveva impensierito i giusdicenti dell'isola i quali ne avevano osservato con attenzione i movimenti, temendo che intendesse attaccare «qualche vascello francese» che si aggirava nella zona. Sia patron Dagnino sia un marinaio che era sceso a terra insieme a lui per mostrare la regolarità delle carte di bordo e la loro condizione mercantile vennero trattenuti a terra mentre dalla barca ci si accingeva a
214ASF, Mediceo del Principato, 2223, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 21 luglio 1702.
215Solamente nel marzo del 1704 il Console Imperiale in Livorno, Stephen Hermen, avrebbe comunicato al Governatore della città di aver ricevuto «ordine dal suo sovrano di sottoscrivere le capitolazioni». La questione non era facile da gestire per il Tornaquinci poiché i capitoli andavano firmati di comune consenso e i Consoli di Spagna e di Francia non nascondevano il loro desiderio di rompere l'accordo sottoscritto e, particolarmente il Console francese si era «mostrato pentito di haver confermate le capitolazioni della guerra passata, parendoli non tornarli nella presente il conto». ASF, Mediceo del Principato, 2225, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 17 marzo 1704.
216ASF, Mediceo del Principato, 2223, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 22 novembre 1702.
217ASG, Archivio Segreto, Lettere Consoli, 2683, lettera del Console Gavi 18 novembre 1702.
Sull'origine e sulle peculiarità del consolato genovese a Livorno si rimanda brevemente all'interessante contributo di C. BITOSSI, «L'occhio di Genova. Livorno nella corrispondenza dei consoli genovesi nell'età
moderna», in Livorno 1606-1806, cit., pp. 86-94 e a F.J. ZAMORA RODRÍGUEZ, Génova y Livorno en la estructura imperial hispánica..., cit., pp. 590-597. Sul ruolo svolto in funzione di consoli da alcuni membri
della famiglia Gavi e sulle interconnessioni con gli interessi in ambito mercantili si rimanda allo stesso contributo, pp. 607-615.
cambiare «bandiera, et inalberata altra bianca, che fu detto esser con arma Imperiale gridando per tre volte Viva l'Imperatore partì»219.
La situazione era ben più complessa di come poteva apparire e a far luce sull'intricata questione sono i numerosi e controversi documenti che si possono rintracciare nelle filze dell'Archivio Segreto genovese, uniti alle carte provenienti dagli archivi toscani: ad essere patentato in corso non era Gio. Batta Dagnino mentre lo era un altro genovese, Sebastiano Vario di Pra220. L'analisi incrociata del materiale archivistico prodotto da istituzioni diverse
permette di addentrarsi nel tessuto economico e sociale da cui provenivano i due genovesi arrestati: i Conservatori del Mare di Genova avevano riconosciuto nel marinaio un bandito capitale – poi graziato con la «permuta della pena di morte in quella della galera in vita221» –
mentre il Governatore di Livorno aveva accennato al fatto che patron Dagnino fosse caduto in bancarotta222, un elemento che permette di individuare nella precaria condizione economica
un'utile chiave di lettura per comprendere che cosa stesse all'origine del suo comportamento. Tra le fonti di cui si dispone per analizzare questo caso vi sono anche quelle processuali – vale a dire la trascrizione degli interrogatori rivolti ai due uomini – che vanno sempre maneggiate con particolare cautela: se i due genovesi cercarono di colpevolizzare il fuggitivo patron Vario – limitando il più possibile il loro grado di responsabilità – considerando in maniera critica gli elementi emersi si possono formulare teorie più suggestive. Innanzitutto, si può ipotizzare che patron Dagnino e il suo marinaio fossero indotti a violare le leggi della Repubblica in conseguenza di una specifica contingenza – l'essere condannato a morte l'uno, sommerso dai debiti l'altro – che non forniva a nessuno dei due grandi possibilità di riscatto. In secondo luogo, si può supporre che i due avrebbero proseguito in questa attività se non fossero rimasti imprigionati a terra e non fossero stati abbandonati da Sebastiano Vario. Se in un primo momento la Repubblica fu disposta a chiudere un occhio nei confronti di patron Dagnino, in seguito ad altri attentati commessi dal Vario – con i conseguenti gravosi impegni cui l'organo di governo venne chiamato – si assistette a un mutamento nella linea di tolleranza perseguita fino a quel momento: nell'aprile 1703 i Collegi incaricarono i Conservatori del Mare di «procedere contro di lui [patron Dagnino], e contro il detto Patron Vario, et altri correi». Nel frattempo, il patrone genovese era rientrato a Civitavecchia dove aveva condotto di presa una barca francese carica di grano e, come raccontava il Console Ciccoperi, venne incarcerato per ordine del Governatore dell'Armi: Clemente XI non gradì certo che l'armamento fosse avvenuto in un porto dello Stato della Chiesa223. Se il Papa era fortemente
infastidito per la faccenda, l'Ambasciatore spagnolo era addirittura «molto esacerbato» e cercò
219ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1678, 29 dicembre 1702.
220ASM, Carteggi Consolari, 25. La patente, rilasciata il 2 novembre 1702, autorizzava il Vario a «scorrer con sua nave, o navi il mare contro i Nemici […] che sono la Francia, e la Spagna, e di fare sopra gl'istessi prese con qualunque attentato ostile». Non deve indurre in confusione la lettera scritta dal Segretario del Granduca al Governatore di Portoferraio, Alessandro del Nero, in cui si legge di aver ricevuto la «copia della patente imperiale che tiene il patron Gio Batta Duaino» poiché la patente allegata nel volume è sempre quella di patron Sebastiano Vario. Cfr. ASF, Mediceo del Principato, 2541, lettera del Segretario di Stato Montauti al Governatore di Portoferraio, 30 dicembre 1702.
221Sull'origine della pena della galera nella Repubblica genovese si rimanda sinteticamente a L. LO BASSO,
Uomini da Remo: galee e galeotti del Mediterraneo in età moderna, Selene, Milano, 2003, pp. 232-234.
222ASF, Mediceo del Principato, 2223, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 22 novembre 1702.
223ASG, Archivio Segreto, Lettere Consoli, 2665, lettera del Console Ciccoperi, 27 dicembre 1702.
La notizia giungeva presto anche a Livorno: Francesco Terriesi, infatti, ne informava il Granduca con una lettera del 1° gennaio: a riportarla era stato un bastimento proveniente da Civitavecchia, dal quale si apprendeva anche la consistenza del carico. ASF, Mediceo del Principato, 1615, lettera del Provveditore della Dogana di Livorno alla Segreteria di Stato, 1° dicembre 1703.
di convincere un patrone napoletano, Aniello Savino, ad armarsi contro Sebastiano Vario224.
La vicenda venne seguita in maniera scrupolosa anche dai due importanti osservatori di Livorno e di Portoferraio: patron Dagnino225 prima di andare in Corsica aveva infatti sostato a
Portoferraio, dove aveva imbarcato tre marinai del luogo con l'assistenza del Vice Console Brignole. Si trattava di un'operazione che, in un primo momento, non meritò particolari attenzioni – poiché ancora non erano note le vere intenzioni del bastimento – ma era destinata ad ottenerle col trascorrere dei giorni. Dopo i fatti avvenuti in Corsica, infatti, il legno era ritornato a Portoferraio, inalberando bandiera imperiale: ciò che premeva al Capitano del porto era far sapere a Cosimo III che i tre sudditi, unitisi al patrone genovese la settimana precedente, una volta rientrati nello scalo toscano avevano pregato di essere sbarcati ed erano stati licenziati da patron Vario226. Se il Granducato dovette affrontare il caso riguardante i
corsari dell'Imperatore, in base a questi primi elementi parrebbe in una posizione meno delicata rispetto a quanto accadeva per la Repubblica di Genova: non erano noti, infatti, sudditi toscani al soldo di Leopoldo I.